Scandalo senza scandalo. ‘Cella’ di Gilda Policastro
(L’opera scelta come copertina è di Giulia Gellini.
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Romanzo atroce, scomposto, di non semplice interpretazione, Cella di Gilda Policastro procede per rilanci, strappi, ondate, senza tuttavia che tale dinamismo sia dovuto alla trama. Le vicende risultano infatti scandite da una voce monologante che consegna i passaggi della storia alla fissità del dramma, al senso di una perenne ineluttabilità. Ciò che accade, è come se non accadesse. Ciò non significa che manchino sviluppi o colpi di scena, ma questi risultano come soggiogati ad altro. Il senso dei rilanci è infatti dovuto a elementi che in un primo momento parrebbero quasi incongruenze, come se il testo crescesse sulla base di superfetazioni o innesti. Si tratta di discrasie che si misurano a vari livelli: nei registri espressivi (improvvisi scarti verso la psicanalisi o il diario, senza trascurare l’imprevista inserzione nel testo di immagini), nella mimesi psicologica (parla una donna non istruita, che a tratti però sembra quasi colta), nella rilevanza dei temi e delle ossessioni (a un certo punto esplode per esempio il tema del nome, che si aggruma soprattutto in una porzione del romanzo anziché svilupparsi in modo organico lungo tutta la trama), e così via.
Alla fine, invece, la sensazione si rovescia, come se non si trattasse di un difetto di gestione della materia da parte dell’autrice, ma di una strategia consapevole, interessata a lasciar crescere la massa linguistica secondo impulsi anomali o comunque non programmabili.
Questo carattere generale si misura anche a livello stilistico. Il monologo si dispiega infatti in una sintassi sincopata, come per mantenere alta la tensione in ogni riga del testo, al di là del contenuto. Ovviamente, dopo il primo impatto, ci si adagia a questo livello espressivo, assunto come norma, ma la regola implicita è che non esiste una regola certa, anche perché la voce monologante si appropria spesso di espressioni altrui, nell’atto di recitare dialoghi reali o mentali. Improvvise inversioni a volte sembrano richiamare inflessioni dialettali, ma nei cambi di marcia prosodici non è raro incappare in preziosismi e forse anche cripto-citazioni (come nel caso di “distante un padre”, espressione che, se non sbaglio, ricorre un paio di volte, e corrisponde al titolo di un libro di poesie di Milo De Angelis). I periodi possono allungarsi un poco o ritrarsi, ridursi improvvisamente alla semplice parola. Talvolta si compie qualche minima violenza ai tratti soprasegmentali, alle strutture sintattiche, ma senza un esibito sperimentalismo: si tratterà, per esempio, della scomparsa del punto interrogativo, in particolare nella prima di una coppia di frasi interrogative: la strategia produce solo micro-traumi, scandisce input nervosi, crea sottili dislivelli affinché il lettore non proceda mai distratto.
A livello tematico, il fil rouge della sessualità (materia che si infiamma fino ad attraversare la perversione), sembra più cucire insieme la storia che rappresentarne il perno. Non che si tratti di una mera concessione a mode oppure di una trappola per il lettore; tuttavia trapunge con costanza la vicenda e rischia, forse, di distrarre.
Dunque, il romanzo continua a proporre temi che parrebbero costituirne di volta in volta il nucleo, mentre il dinamismo complessivo suggerisce, paradossalmente, di rovesciare tale accumulo in una reiterata sottrazione. Nulla è come appare. La protagonista non ha nome, nemmeno quando il suo nome diventa materia della storia; si palesa come anaffettiva, persino nei confronti della figlia, eppure ama e perdona; narra con distacco psicotico le vicende sessuali, come si trattasse di pura meccanica dei corpi o di fisiologia delle pulsioni, eppure desidera; vive in uno spazio che pare temporalmente indefinito, quasi da tragedia greca, eppure i tratti dell’epoca e persino nodi storici specifici come il terrorismo del secondo Novecento penetrano nella vicenda. Il rovesciamento potrebbe continuare. I personaggi maschili, per esempio, risultano psicologicamente bidimensionali e prevedibili, poi l’ipotesi conclusiva apre scenari nuovi. Alla fine, però, la stessa procedura della sottrazione si sottrae. Chi è che prende voce, in definitiva? Non si arriva alla fissazione nemmeno in negativo: alla protagonista, l’abbandonata, viene sottratta più che l’identità, la possibilità stessa dell’identificazione. Ecco, personalmente questo libro mi ha dato l’impressione che l’autrice offrisse al lettore un soggetto solo a patto di impedirne, per via di stile, il radicamento: come appoggiare un oggetto su un tappetto che sarà immediatamente ritratto (tratto nuovamente a sé, nel momento stesso in cui viene raffigurato).
La protagonista è l’abbandonata, la reclusa, il punto di fuga fissato negli spazi della malattia sociale o personale: l’Italia corrotta degli anni Ottanta, il paese ipocrita inchiodato ai propri pregiudizi, l’ospedale quale luogo di esercizio di una cura rimossa, la famiglia come simulacro, la casa che è teatro per un abitare alienato, la coscienza che assiste agli scandali con una disposizione che non è più solo l’inettitudine o l’indifferenza novecentesca, ma la corrosione di sé stessa per eccesso di consapevolezza. Del resto, lo scandalo presuppone sempre qualche forma di ignoranza.
Non c’è storia, dunque. Cella è una performance, l’ostensione di una voce che rinuncia alla bellezza e alla vanità per dare forma, grazie al proprio sacrificio, a quell’amore, a quella cura, a quella libertà che vivificherebbero i legami umani, ma che il pensiero occidentale (da Leopardi in poi) ha ormai cancellato persino dall’orizzonte dell’utopia. Cella è scandalo senza scandalo.
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