Lo scrittore Edoardo Albinati

Edoardo Albinati (poeta)

Tra i diversi romanzi che mi sono ripromesso di leggere in questi mesi (domani, salvo imprevisti, una nuova recensione), al momento non ho messo a tiro La scuola cattolica di Edoardo Albinati, di cui molto si parla. Non c’è una ragione precisa. Magari scatterà in seguito un ripensamento e si creeranno le condizioni per la lettura di quest’opera monumentale. Del resto, di questo autore mi sono già occupato, analizzando nello specifico la sua produzione poetica.

Ecco quanto ho scritto su di lui in Poeti nel limbo:

EDOARDO ALBINATI

Addirittura ambivalente poteva apparire, in verità, anche il percorso poetico di Albinati, dispiegato tanto sui binari dell’andamento poematico quanto sulle traversine dei componimenti epigrammatici o aforistici: duplicità ben stigmatizzata dal titolo Elegie e proverbi, che ancora con un certo gusto classico denotava la struttura del suo primo volume (dove le elegie, vale a dire i testi più lunghi, incorniciavano quelli brevi centrali).

Ma il lettore non tarderà a riconoscere l’impronta del tutto moderna del suo classicismo (in questo decisamente sui generis nel contesto della linea romana), non appena riconoscerà il respiro scopertamente eliotiano che lo sostiene. In Elegie e proverbi si assiste infatti alla visione di una realtà decadente, deturpata, a tratti granguignolesca, che irride il mondo contemporaneo: «L’intelligenza morbosa borghese si applica in psicologia». Con ironia davvero cinica si assiste a una rassegna di situazioni («i modi di un “cerimoniale” icastico per interposte persone», afferma il risvolto di Marco Forti) in cui personaggi nevrotici, malati, morsi dai propri appetiti sessuali, attraverso una serie di passaggi ellittici e scenografici («Una pausa. Botte. Cambio di asciugamani. Una serie di lampi agli occhi»; «Considera la scena: / I due sul divano in atteggiamento confidente / Gli occhi lucidi, i capelli arruffati, i bottoni degli abiti / Aperti, sparpagliati come punti in una frase / Che la fanciulla si rifiuta apposta di capire»), si muovono in spazi costipati da oggetti desunti dalla realtà come fissazioni simboliche, ma devitalizzate (secondo una poetica che taluni non esiterebbero a definire postmoderna: sigla che chiude del resto il già citato risvolto), restituendoci una stranita allegoria del nostro tempo, spesso per il tramite di veri e propri monologhi. Tale crudezza è espressa nel titolo della lunga poesia conclusiva, Cinismo e poesia, dalla quale bastano riportare pochi passaggi:

[…] I nomi
Degli invitati erano scritti a pennarello sui bicchieri di carta
(Ibrido strano tra i ricordi d’infanzia, l’avarizia e il timore
Del contagio), ma dopo un po’ tutti bevevano a caso
In bicchieri sporchi di rossetto. Ginevra andava e veniva
Da un tavolo dove era esposto un arrosto
Immerso in salsa di mele, senza esserne attratta:
Era eccitata, contratta, mostrava sul viso un disappunto
Da bambina appena mestruata.

È sempre questo cinismo, in definitiva, a sollevare verso uno spazio di senso che si potrebbe genericamente dire metafisico, quei testi che altrimenti mostrerebbero sequenze ancora una volta gozzaniane, come nella presentazione dei due personaggi: lui, «Il principe [che] rabbrividì di nuovo. Ma conosciamolo / Questo eroe dei nostri tempi: baffi, biondo, magro, alto / Era chiamato storpiando il bel nome di famiglia / Il principe Turacciolo / Perché contava poco o niente» e lei, «Adultera anche nel nome / Peccatrice senza piacere, donna priva di fascino / E di stile, Ginevra».

Il valore infine allegorico di queste rappresentazioni spicca maggiormente laddove è l’arte stessa a essere presa nella cornice degradante e persino démodé:

C’erano musicisti, un giocatore di scacchi solitario che armeggiava
Una scacchiera elettrica; c’era un poeta che da un palco, nelle serate
Di un’estate lontana, aveva declamato poesie assordanti
Come barattoli di latta (allora
Chissà perché, parvero a tutti pura musica)
C’erano, si capisce, intellettuali vari, scialbi e vistosi
Timidi o sfacciati.
Il poeta imperversava come una tempesta di neve.
Nessuno sapeva chi fosse.
[…]
«E non sopporto questa falsità… così romana
Tutto il cinismo, la malafede, gli inganni.
Guarda ad esempio quel critico teatrale: a quasi
Cinquant’anni, sta lastricando di libri letti e non letti
La strada per condurre una fanciulla bionda
A casa sua. La stringe in un angolo come un ragno
E con la bava le fila intorno un bòzzolo di cazzate.»
Come tu fai con me, pensò Ginevra e le scappò
Un sorriso che purtroppo il suo interlocutore interpretò
Come un segnale d’incoraggiamento. Bisogna si sappia
A questo punto che lui non scrive da tre mesi
(O forse di più) una sola riga che sia buona;
Sta rimuginando un certo saggetto
Di ventisei pagine che abbracci
Tutta la realtà italiana degli ultimi anni
(Vista come un’apocalisse). L’impresa consisteva
Nella meditazione, nella preparazione
Nell’ordinare centinaia di appunti:
Si metteva a rodere la penna, sulla carta apparivano
Disegni… poi tutto quanto era messo da parte
Al primo squillo del telefono.

La durezza dello sguardo poetico di Albinati lo parifica al cecchino di un suo aforisma di Orti di guerra, che si dice: «Invisibile, detestabile, preciso» [Orti di guerra, Roma, Fazi 1997, p. 91]. Allo stesso modo, il poeta si muove come un anacronismo vivente su un fondale segnato ancora dalla guerra, rovescia la civiltà borghese come un soldato che non ha terminato la sua personale rivoluzione, non esita a compromettersi e finanche a ferirsi pur di colpire il male che mette radici nell’ottusità della nostra coscienza civile.

Il nodo della poetica di Albinati è il rapporto tra la prosa e i versi. «Come un Impero in dissoluzione, la poesia ha ceduto immensi suoi territori alla prosa, senza combattere, anzi con una specie di sollievo. Ciò che da sempre era appartenuto alla poesia (anche alla poesia), ora rischia di essere esprimibile solo attraverso la prosa. Per fare due esempi: l’argomentazione e la durata, appaiono oggi concetti inapplicabili alla poesia» [Edoardo Albinati, Appunti su poesia e prosa, in La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, p. 92]. In queste parole si può rinvenire uno dei moventi, se non il movente principale, alla base della collaborazione con Del Colle, e della personale sfida di Albinati nei confronti di una narrazione che sia anche formalmente impeccabile. Sul versante della poesia, è la sintassi il punto cruciale su cui operare:

sappiamo che proprio la disposizione versuale è la più formidabile struttura logica, cioè di discorso, di sostegno di una voce, e che il verso rende credibili gli enunciati e li tiene insieme in un’unità organica. […] Eppure anche dalla potenza della propria sintassi la poesia si è in grande misura ritirata […]. Quello che normalmente dai critici (ignari) della poesia viene rimproverato ad essa, cioè la mancanza di legame con una supposta realtà, è piuttosto un effetto di drammatica riduzione della propria sintassi, della propria facoltà connettiva, resa anelastica dopo le contrazioni novecentesche, che volevano frantumare per poi dilatare e invece hanno rimpicciolito [Ivi, p. 93].

Ecco perché il primo passo da compiere è proprio l’abbattimento del dualismo tra prosa e poesia, così implicito in formule stereotipe che richiamano un abbassamento della poesia verso la prosa. Negare la contrapposizione tra le due forme espressive serve a ridare centralità alla poesia all’interno della letteratura: «La poesia deve figurare accanto all’articolo di guerra, ma attenzione, non per forza una poesia di guerra, altrimenti siamo di nuovo all’adaequatio, a ridurre il problema a uno scambio di contenuti […]. La poesia vince la prosa solo su un terreno condiviso da entrambe» [Ivi, p. 94].

Tuttavia, al di là delle dichiarazione di intenti, il progetto di Mari o monti può dirsi fallito, se a parte la fragile cornice (come di una vacanza che assume valenze antropologiche) non intervengono tiranti di nessun tipo per sostenere un’impalcatura tanto pretenziosa. A parte rare accensioni, la temperatura linguistica è complessivamente bassa, manca il senso di un’orchestrazione musicale profonda, data da scene emblematiche o da momenti riflessivi alti o dal contrappunto delle figurazioni o, meglio ancora, dall’assemblaggio sapiente di tutti questi elementi; manca il senso di una misura versuale, mancano tutti quei puntelli formali minimi (la ricorrenza di parole chiave, la ripetizione o alternanza di ritmi e strutture) se non addirittura di quelli più difficilmente assorbibili nel progetto (la rima, la struttura metrica chiusa). Anche l’eliotiana impersonalità di Albinati si stempera, insieme alla furia della dominazione di oggetti, mentre le maschere lasciano la scena a una voce troppo astratta, insostenibile. E, per volontà aberrante di omologia poetica, anche Del Colle perde i tratti desultori delle proprie movenze sintattiche e delle proprie scelte lessicali. Il risultato è che la poesia si confonde con un semplice capriccio tipografico, mentre appunto sappiamo da tempo che essa può insinuarsi anche nella linearità della prosa: l’importante è che ci sia, che faccia sentire il suo dosaggio formale e immaginativo più alto.

Diverso invece è il caso di Sintassi italiana, la raccolta più recente: qui l’autore, sempre sulla piattaforma comune tra poesia e prosa (apparentemente, della prima permane solo la verticalità del testo, che però diventa scivolo sintattico e immaginifico, abisso che attrae e amplifica le immagini, corsa che misura il fiato), riesce ad attraversare zone decisamente impoetiche, nel tono e nel contenuto, e imbricarle con passaggi sprezzanti, retoricamente sostenuti, in un turbine grottesco che frulla il desolante resoconto della nostra società attraverso l’intruglio di una sintassi oltremodo ricettiva (scoperta è la sua funzione mimetica del reale e dei suoi feticci contemporanei), aperta a tutti i registri espressivi, sostenuta da un vigore visionario notevole, che predilige il trampolino della similitudine:

Il mio parlare sarà obliquo, personale, dissennato
non darò pagelle del lunedì né avrò cattivi pensieri
e nemmeno indicherò chi sale chi scende
dalla punta di ’sto cazzo, perché sono felice
ho perduto ogni speranza e amo il mio paese
le tribù che lo compongono mi fanno il solletico
con le loro frecce e i loro parlamenti fumosi
usati per ordinare il Pinguino De Longhi superfreddo
il furore mi calma, il Nabucco m’addormenta
i viali della periferia milanese esaltano la poesia che è in me
perché sono dentati come fauci di coccodrillo.

La sensazione, piacevole, è che nei passaggi migliori il poeta riesca ad arrivare alla letteratura partendo da ciò che letteratura non è, affidandosi a quella poesia che in lui si esalta, se lasciata libera di esprimersi al di là delle convenzioni, fedele soltanto alla propria irruenza. Dice bene Flavio Santi, quando afferma che «Albinati non crede, banalmente, in una reviviscenza di micriparticelle del “poetico” nel quotidiano; crede piuttosto, pasolinianamente, nella feroce e contraddittoria densità dell’essere che si deprime e si esalta nel suo stesso darsi fenomenologicamente, quasi liberatoriamente». In questo modo, i versi non sono specchio di Narciso, ma megafono che dà voce, anche a costo di qualche interferenza e di qualche squillo meccanico, alla nostra condizione, senza limitarsi al filtro di una registrazione lirica, in definitiva privata e compiaciuta, e senza nemmeno trincerarsi in una condizione privilegiata (da politico), come se ci si salvasse solo per il fatto di mettere il dito nella piaga, di denunciare la rovina. Il furore del poeta nasce dalla compromissione totale con il mondo e non risparmia se stesso: «A forza di iniezioni di sangue negro torneremo finalmente italiani / […] / sono orgoglioso di questa morte, è mia. / Amen».

 

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