Magia Bianca, di Paola Ruggieri - 2015. Tecnica mista su tavola 60x80

La forma minima della felicità

(L’opera scelta come copertina è di Paola Ruggieri.
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Francesca Marzia Esposito è una strega. Con il suo romanzo d’esordio, La forma minima della felicità, ha tentato la prima pozione magica.

Il segreto di una pozione è il perfetto equilibrio degli ingredienti e non sono certo che questo equilibrio sia stato raggiunto in modo perfetto, ma la verifica degli effetti richiede tempo – ed è già questo, a ben vedere, un tema della storia. Di certo, le streghe generano sospetto e paura ed è con questi sentimenti che in futuro, se mi capiterà, mi avvicinerò a una sua seconda prova.

Questo è un fatto decisamente positivo.

Significa infatti che già nella Forma minima ci sono incantamenti, graffi, visioni, gorghi. Il dubbio che certi ingredienti pop siano ancora mal dosati o che certe acrobazie tipografiche si alleggeriscano di senso, come se si trattasse di bariccate fini a sé stesse, cede progressivamente a un sentimento di verità, di tragedia disincantata.

Sul primo piatto della bilancia ci sono quelle frasi un po’ troppo ad effetto. Una delle più strategiche, “Chi vince perde”, sembra uscire direttamente da Al di là dei sogni, il film interpretato da Robin Williams, in relazione peraltro proprio al tema della perdita e della depressione. È solo un esempio: anche tutti i messaggi che campeggiano a piena pagina e che rappresentano la bacheca del condominio in cui vive la protagonista a tratti suonano eccessivi, quasi intendessero comporre un’antologia di post brillanti, quelli che garantiscono centinaia di “mi piace”. Se creano un bell’effetto di pausa, di stacco ironico, in cui prende voce una sorta di coro assente, che narra beghe, episodi tragicomici e segnala avvisi surreali, a volte si isolano come sketch da cabaret un po’ gratuiti. Parimenti i calembours, i giochi di parola o sintattici, i decostruzionismi lessicali e la varietà di soluzioni tipografiche assorbite nello stile variegato dell’autrice scivolano lievemente verso la maniera. È vero, viviamo nel tempo ritmato dalla lingua che batte nelle reti sociali e che viene sostenuta dalla musica del mercato, e attraversare questa nostra dimensione antropologica non è solo un vezzo, ma una bella sfida letteraria, cioè una necessità, perché c’è del vero da raccontare, c’è una solitudine da far emergere, grazie a questi specchietti per allodole. Ma non è detto che si debba cantare tale lingua intonandosi all’epoca. Se il nostro armamentario retorico assorbe figure anche da questi mondi, occorre ricordarsi la manzoniana lezione per una retorica discreta, il più possibile dissimulata.

Sull’altro piatto della bilancia, pesano certe prospettive kafkiane e beckettiane della vicenda, delle ambientazioni e dei personaggi; l’icasticità tagliente dei dialoghi, mai banali; la coerenza e l’ossessione dei dettagli; la profondità psicologica di scene e descrizioni; l’aderenza esatta di forma e contenuto nei passaggi più felici… Serve altro, per inserire Francesca Marzia Esposito fra i possibili crack di questi anni?

Tra l’altro, lo sguardo d’insieme sul romanzo non ci restituisce un’opera disorganica, malgrado la varietà fin qui presentata. È vero, il libro alla fine non risolve, ma chi ha detto che una pozione debba per forza guarire? Forse deve soltanto mutarci forma; forse i problemi vanno solo dislocati, come ci viene a un certo punto suggerito da queste pagine.

Certi libri, quando si chiudono, aprono la partita su un altro piano: hanno effetto. Questa è la migliore garanzia della loro verità. Un libro non deve necessariamente raccontare un’acquisizione di sapere, deve piuttosto mettere in moto la coscienza nel lettore. Pensiamo ai personaggi di questa storia: in fondo, sono tutti statici, tutti soggiogati alla loro natura. E tutti ruotano attorno a Luce (che è anche Ombra), la protagonista, che parrebbe l’ennesima riproposizione novecentesca del personaggio malato di iperconsapevolezza e quindi ridotto ad antieroe soggiogato dal male di vivere. Luce infatti in prima istanza risponde all’identikit (anche se si adegua a questa sagoma in seguito a un preciso evento traumatico), eppure ne avvertiamo una sorta di energia nervosa, come se la figura tradizionale dell’inetto fosse stata scarnificata a tal punto da renderla nuovamente reattiva. Non si tratta di misurare gli effettivi progressi di Luce verso una presunta normalità, che del resto non viene mai positivamente identificata e che il finale ulteriormente sfilaccia nel tempo futuro; si tratta di vincere l’attrito, di accettare la ricerca di una forma minima di felicità anche soltanto in via puramente ipotetica; si tratta di trasformare l’insensata ripetizione delle vicende in metodo conoscitivo, fino al punto in cui una nuova forma di attenzione subentri per guidarci. È quello che accade a Luce nel suo rapporto con gli oggetti dell’appartamento, in particolare con la televisione sempre fissa su un canale di televendite: allegoria semplice che è solo il punto di partenza dell’avventura. La guida, nella progressione degli eventi, sarà rappresentata da Bambina, la perturbante figura che piomba nella vita della protagonista e che svolge il suo ruolo con la forza, in un primo momento, solo dei gesti e degli scarabocchi (dal momento che quando compare sulla scena è muta, a seguito, a sua volta, di un trauma), successivamente anche con la suggestione delle parole ritrovate (ma si tratterà di parole-gioco, sperimentazioni fanciullesche che veicolano una sapienza ignota a sé stessa: una riconquistata innocenza, un alfabeto che si ricostruisce dopo la distruzione?).

Ecco, Bambina è l’incarnazione del nuovo punto di attenzione che permette di delocalizzarsi, che spalanca la dimensione della relazione entro una logica femminile, creativa: una naturalezza da rieducare con il tempo, l’esercizio, la pazienza (da intendersi nel suo fragrante significato etimologico) e infine l’abbandono. Sì, perché la naturalezza richiede metodo, disciplina, ripetizione ossessiva. Come l’arte, la scrittura, la magia.

E la magia di Francesca Marzia Esposito ci lascia promesse di verità. Il suo obiettivo è quello di trasformare il trauma in una risorsa evolutiva. Occorre tempo, ovviamente. Ma, per quanto in questi anni la parola felicità sia uno dei tag più in voga nei titoli degli scrittori, ci sono ragioni solide per lasciarsi incantare dalla sua scrittura, dalla sua uterina fiducia in una ricomposizione dell’assurdo in un ordine.

La sua foga sperimentale, a differenza di tanti funambolismi novecenteschi e contemporanei, non è vuota, è ricerca del punto di rovesciamento fra interno ed esterno. È l’assimilazione delle voci altrui (non a caso nel romanzo non si usano le virgolette per scandire chi parla) per spegnere la eco dell’ipocrisia di ogni gesto in cui non siamo realmente presenti, ma esiliati. È trasformazione dello spazio minimo di azione (come i pochi metri dell’appartamento in cui Luce si reclude) in possibilità di una nuova, per quanto lenta, riappropriazione dello spazio dell’avventura in termini più autentici. È perenne risillabazione della parola e ristrutturazione del discorso per trovare il suono giusto di ogni frase. È reiterato attraversamento dei traumi che scandiscono una vita per esorcizzare il dolore e scoprire che la felicità non esiste in un alcun punto della vicenda, ma potrebbe soffiare, infine, nell’insieme. È, in definitiva, magia bianca.

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