Parola a me vicina (per Aldo Ferraris)
Aldo Ferraris (novarese del 1951, che ora abita nella Costa Flegrea) è un poeta di lungo corso, che ha pubblicato da giovane per la rivista “Niebo” e che ho avuto il piacere di ospitare anche sulla rivista “Atelier”, tanto per citare due estremi significativi della sua biografia. È anche una bella persona, di una squisitezza e di una modestia rare, in questo mondo in generale e nel mondo della poesia in particolare.
Ha appena pubblicato una antologia che documenta 36 anni di poesia, intitolata Parola a me vicina. Poesie 1972-2008 (Giuliano Ladolfi Editore), che merita attenzione e che segnalo agli eventuali critici di poesia (ne esistono ancora?).
«Ho iniziato presto a scrivere», così spiega l’autore stesso introducendo il volume, «e ho pubblicato il mio primo (acerbo) libro a 21 anni, seguendo un percorso di progressiva maturazione e consapevolezza del mezzo linguistico che andavo esplorando.
Da principio è stata una ricerca spasmodica sul linguaggio, quasi un corpo a corpo, che ha dato esiti controversi e a volte poesie non convincenti, di cui ho voluto comunque documentare la presenza.
La completa e consapevole maturazione del mio linguaggio si è rivelata all’inizio degli anni ’90, quando forma e soggetto, significante e significato, si sono finalmente fusi in immagini e termini che io considero armonici e comunicativi».
La varietà di soluzioni è in effetti ben documentata dal volume, che disegna una parabola che dalla sperimentazione degli esordi giunge a una poesia più tersa, melodica, ma senza perdere un dato importante: il sentimento di appartenenza a una struttura. Ogni poesia è tassello di un discorso, compone un pannello che dialoga con le figure con cui fa corpo, di raccolta in raccolta. Una certa serialità costruttiva (talvolta i libri di poesia di Ferraris sono esplicitamente modulari) resta il segno di una scrittura sempre artigianalmente consapevole, sempre attenta alla dignità della forma.
Credo che il progressivo illimpidimento della propria voceb sia una costante piuttosto universale: all’inizio si è sempre complessi, muscolosi, nel tentativo di scoprire la propria potenza e i propri limiti. Poi, ci si intona. Ma non tutti riescono in questo cammino, che dunque non può definirsi scontato. Nel caso di Aldo Ferraris, anche il fatto che egli si stia dedicando negli ultimi anni anche alla scrittura per l’infanzia è per me un’ulteriore riprova di questo suo progresso.
Scelgo, da questo suo libro, qualche minimo assaggio:
Grande corpo
1
Abbandono al tuo giudizio
la parte di me che ti ama
grande corpo
senza memoria dell’ultimo gioco.
Qualcuno, inudibile al bosco, demolisce
i cardini che ruotano il tuo sonno.
Regole di labbra, antichissime,
accovacciate sul pozzo respirano in te.
2
Nessuna luce frugherà la tua gola
io, certo, attendo questa
minuscola anima vestita di notte
io, immutabile guardiano di stagioni.
Quando il cielo insegue la caduta
tutto è misura invalicabile,
nuvola dalla pressione irrespirabile.
Improvviso un anno voleva scalfirti, tu,
le mani così calde, l’hai ucciso.
3
La ferita che mostri non ha sangue
inumidisce al mio alitare,
nella stanza vocali alle pareti
fiori cuciti senza fili sulla pelle.
Qualcuno verrà a recidere la mia mano
e non troverà radici per possederla
affondano al centro di un gomitolo
pugno che ruota come il tempo
via da sé stesso.
L’ascesa
Il lembo del temporale appeso
all’uncino di questo nuovo giorno
sopporta l’onnipotenza del mio sguardo
frena la pioggia, mi spinge alla fuga.
Esiste un sentiero bagnato di addii,
un fangoso gomitolo di compiutezza
che mi spinge verso la cima, che apre
le sue ferite dai bordi rocciosi.
La guida che mi offre il suo braccio
è sorda come il cammino che mi precede
e salire è semplice esercizio d’equilibrio,
voce a sondare il crinale del giorno.
Fedele come un peccato irrealizzabile
l’ascesa poggia le radici sul nulla
di incompiuti itinerari verso la salvezza
si offre alle cesoie come gomena di spore.
E mai più
*
È la luce
stretta fra le palpebre
della finestra,
assopita
alle spalle di ognuno
che dice abbandono,
è la luce confortata in un angolo
quasi spezzata in un abbraccio
sin dentro la nostra oscurità.
*
È la parola non detta
quella risparmiata
perché mai è abbastanza
l’alfabeto della pietà,
è la parola sepolta
insieme alla sua nascita,
lo scandaglio che dà fondo
e abita il respiro
*
È la lentezza del gesto
di una mano vicina,
sempre più vicina
a congiungere i bordi
della devozione serale,
è la lentezza del segreto
rovesciato sulla soglia
come augurio di nozze.
*
È il rumore
quello che ognuno
porta dentro di sé
come in un sonno di interni
sempre tacitato sin dal mattino,
è lo strappo
nel respiro
il lieve schianto delle cose
nel distacco quotidiano;
è quello, da rubare,
e mai più.
A volte la poesia ( queste pubblicate – che direi belle – vanno bene da esempio) mi sembra che sia un modo assolutamente ( e volutamente ) sbagliato ( illogico e irrazionale, impraticabile) di usare il linguaggio.
Io ho lottato tutta una vita con questo linguaggio, a volte perdendo, a volte vincendo, ma sempre con la consapevolezza che questo esercizio mi fosse utile per approfondire la realtà, la mia e quella del lettore.
L’importante è essere onesti, con se stessi e con chi usufruirà delle mie parole.
L’onestà, hai ragione, punto.