Di un libro che non avrete mai (per Danilo Laccetti)
Questa volta vi lascio un assaggio da un libro che non avrete mai. Si tratta di Unico viaggio. Sinfonia di racconti, prose e divagazioni per voce sola, di Danilo Laccetti. È stato stampato in 50 copie non venali, in questo 2016. Io ne conoscevo già parzialmente i contenuti e sarò tra i pochi privilegiati che potranno godersi quest’opera sublime.
Prima o poi, un discorso molto più articolato sul genio di Danilo dovrò abbozzarlo; e un discorso altrettanto articolato intorno alla nefasta incapacità del nostro mondo editoriale di accogliere e valorizzare i veri talenti letterari andrà a sua volta imbastito e pazientemente sviluppato (ma è per me un discorso vecchio; anzi, più che un discorso, è stato un lavoro di cambiamento tentato per più lustri).
Intanto, investito del privilegio di una lettura preziosa e segreta, condivido almeno in parte il dono, riproponendo un pezzo incluso nella sezione Presto, prestissimo (le altre si intitolano Arioso con lentezza, Adagio con calore e fuoco, Allegro ma non troppo, Allemanda fantasiosa, con qualche tremore, Vivace, con furore mesto).
Schopenhaueriana*
Lo ripeto: il talento è irrimediabilmente schiavo della volontà di vivere, il volere è il suo pungolo, la sua ossessione, la fonte del suo dissetarsi. Cos’è, dunque, questa volontà di vivere? È l’impossibilità di sottrarsi alle regole e ai meccanismi del presente, alle sue false incitazioni e alle sue volgari e comode chimere, a tutte le sue fole. Il talento è per tutta la sua vita legato al volere e al tornaconto immediato che esso impone. Il genio no, si distacca dal volere, è pura conoscenza, intuito scagliato furiosamente verso una dimensione ultratemporale, in cui il bisogno primario è quello di conoscere, non di soddisfare il volere.
Ricordo ancora, con vivo rammarico, molti anni addietro, la delusione che ricavai quando conobbi a Berlino Alexander von Humboldt: credevo di avere finalmente davanti un genio contemporaneo, in carne e ossa, e mi ritrovai a discorrere solamente con un uomo di gran talento.
*
Nell’Atene periclea Sofocle aderiva con più scienza e entusiasmo agli ideali aristocratici della pólis e chissà che Euripide, l’uomo della crisi di certi valori, cesellatore di eroine tragiche oscure, non mi desse avanti lettera ragione, quando nella Medea dice:
τῶν δ ’αὖ δοκούντων εἰδέναι τι ποικίλον
κρείσσων νομισθεὶς ἐν πόλεει λυπρὸς ϕανῇ
Eh, sì, proprio così: quante volte in mezzo a tutti quelli che si considerano dei grandi, o credono di possedere qualcosa di grande, tu, solo per il fatto d’essere migliore, finirai per apparire in città alquanto lupròs, fastidioso. Indigesto. Diciamo pure un poco noioso. D’altra parte, amico caro, disponiti a soffrire anche per delle sciocchezze; alle cortecce ben addestrate non fanno né caldo né freddo, ma a te recano gran danno. Come a ingiuste critiche, alle accuse di mediocrità oppure alla più bieca indifferenza. Il genio sa di vivere isolato. Quelli con cui è a suo agio sono spesso bell’e morti da un pezzo. Sappi che il talentuoso, l’uomo di grandi risorse e di abilissime capacità sa centrare il cuore del bersaglio della propria epoca, cosa che nessun altro sa fare così bene come lui. Ma solo il genio tira una freccia che va oltre quel bersaglio, per andare a colpirne uno che gli altri neppure vedono e che solo la risacca del tempo recupererà su qualche spiaggia futura.
*
Avevo poco più di trent’anni, la prima edizione della mia opera quasi interamente al macero, quando mi incaponii a competere con quel gran Calibano intellettuale che è Hegel, e per più di dieci anni tenni i miei corsi alla stessa ora in cui s’accaldavano studenti davanti a quel grandissimo ciarlatano. Le mie lezioni puntualmente andavano deserte. Il falso continuava a risplendere, dappertutto, e la regola del silenzio, ferrea, mi assediava. Ma come non tenni in alcun conto il plauso corrotto di quest’epoca venduta, neppure mi rattristai del suo feroce biasimo. Credo fermamente che da parte di tutti coloro che sono incapaci di vera originalità vi sia una sorta di tacita congiura, volta a impedire a chi è in grado di produrla davvero di mettere la testa fuori dello stagno in cui siamo relegati. Come lo sostenevo a trent’anni continuai a crederlo anche alle soglie dei sessanta, quando la seconda edizione della mia opera ebbe la stessa accoglienza della prima, sebbene mi confortasse il calore di qualche buon discepolo, come Friederich Dogurth, con la sua smania di dissipare le nebbie attorno a me.
Ho dovuto attendere i miei sessantatré anni, perché l’edizione di un volume più snello dell’opera maggiore, sua esplicazione e viatico se vogliamo, aprisse la strada a qualche consenso. E ora che la terza edizione s’è esaurita in poco tempo e ho più di settant’anni e molti, buoni, amorevoli allievi, mi ritrovo tra i piedi pure una giovane scultrice che s’è messa in testa di farmi un busto, la pazza.
La congiura del silenzio è forse finita? La vecchiaia, oltre a regalarmi un respiro sempre più affannoso e un cuore che fa i capricci, mi conferma col suo tiepido e tardivo conforto che l’avvento di un’opera di vero e profondo ingegno quanto più è lento e difficoltoso, tanto più ha speranza di durare, di sopravanzare l’epoca in cui è nata e cresciuta.
S’intende che di sofisti, maestri dell’assurdo, della turpe faciloneria, n’è piena ogni età e sempre staranno a galla e riccamente bivaccheranno, raggirando e raggirandosi. Eppure le opere sincere, dettate da un lento, inesorabile destino di lungimiranza, non contente della vulgata comune e di un’immaginazione a buon mercato, opere così faticheranno a essere ascoltate.
Arriverà, però, un giorno per loro, quando, forse parrà un miracolo, esse si solleveranno al di sopra dei miasmi infetti, del caos che le circonda, squarceranno il velo d’ipocrisia, di grettezza, quei vapori melensi e venefici che vorrebbero ancorarle, frenarne l’ascesa, e libere, elevate verso regioni sconosciute, purissime, lì rimarranno, serene, senza più timore che niente e nessuno possa ricondurle verso le bassezze dalle quali per sempre si sono affrancate.
NOTA
* Si ringrazia, e molto sentitamente, Arthur Schopenhauer per le tre prefazioni che ebbe l’ardire di scrivere alle edizioni, mentre era in vita, dell’opera sua maggiore, e i capitoli 31, 34, 37 dei Supplementi al terzo libro
(in copertina: Piero Dorazio, Serpente (1968), opera scelta come copertina di Unico viaggio)
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