Dal ronzio della vita, al canto
(L’opera scelta come copertina è di Tobia Anzanello.
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Seguire la poesia contemporanea è pratica nobile e raffinata, ma inseguirla nei tracciati sorgivi degli autori più giovani, nel circuito sommerso della piccola editoria, è gesto da innamorati: e speriamo che siano legione. Leggere poesia fino a rintracciarne gli zampilli primi e nascosti è infatti compiere un rito che chiama in causa qualcosa di autentico che fermenta in noi e cerca corrispondenza, condivisione, sacrificio.
È l’atto di germinazione di una società, di un sentire comune, di un consuonare dentro le pulsazioni del cosmo. Anche quando l’euforia cede il passo al suono attutito di una contrazione dolorosa, di un ritirarsi di fronte al mondo che ci punge e ci graffia a ogni movimento, costringendo la nostra coscienza a respirare sulla linea d’ombra:
Dormiveglia
Io sto qui io con le dita dei piedi,
con i crampi dei polpacci
appeso al lampadario come
la carta moschicida di casa
nelle case di una volta.
Sto col mio ronzio scassato,
vano di lampi.
. (Igor De Marchi)
Questi versi (cito dall’antologia L’opera comune) ci suggeriscono impietosamente che siamo diventati tutti lombardi da tempo, in poesia, e che perciò stesso la “linea lombarda” non esiste più. Chi di noi non è stato educato al grigio realismo della quotidianità, chi non ha vestito l’understatement borghese (con la sua pietas, la sua profonda dignità morale)? Igor De Marchi (classe ’71, nato a Vittorio Veneto), pare testimoniare che anche per i più giovani, soprattutto se calati nella realtà rampante del Nord-Est d’Italia, il tono dominante è quello basso, asciutto, monologante, imposto dallo stile aziendale più che dai versi dei poeti maggiori, forse frequentati con un certo distacco. Così pubblica un libro intitolandolo Resoconto su reddito e salute (Nuovadimensione 2003), con una sezione siglata Ascesa e declino di un giovane agente di commercio. Proprio lui che aveva esordito con La Terra del Fuoco! C’è qualcosa di spietato in questa omologazione e Igor inconsciamente lo avverte, infatti vi aderisce con quel cinismo necessario per resistere a oltranza, aspettando tempi migliori per l’affondo poetico: quello che farà saltare tutti i conti, che ci indicherà la salus nel ronzio scassato della giovinezza. E nella raccolta i primi indizi di questo sbocco già si percepiscono: ciò basta a riconoscerne il dono prezioso.
Prepariamoci a rompere gli argini, allora, e ad alzare il tono forti di questa disciplina, partendo dalle profondità del dolore – che è sempre schifoso e banale, e va addomesticato, per diventare canto.
(da Mosse per la guerra dei talenti, 2007)
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