La musica dei pensieri

Tartari, Usbechi, Samoiedi,
e il popolo ucraino tutto,
tedeschi del Volga compresi,
aspettano chi li traduca.

E in questo momento può darsi
che un giapponese magari
stia volgendo in turco i miei versi
e mi rovisti nell’anima.

Osip Mandesl’štam

Si afferma solitamente che in una traduzione il problema non è rendere il significato, ma la musica della poesia. Le differenze che intercorrono tra una lingua e l’altra sono lì in tutta la loro evidenza, a confermare l’assunto tanto elementare quanto indiscutibile.

A me sembra invece che qualcosa da discutere ci sia e che l’affermazione opposta (‘il problema è rendere il significato, non la musica’) rivendichi pure una porzione di verità. A partire, esattamente, dall’evidente difformità fra codici espressivi.

Il fatto è che l’idea di musica, surrettiziamente imposta nel ragionamento, non è per nulla pertinente alla poesia, dal momento che il valore semantico e il valore musicale di un testo si danno a priori come distinti, come se tutti gli elementi che concorrono a determinare in un testo il suo aspetto musicale svolgessero una funzione puramente esornativa, come se i versi fossero lì per rivestire un pensiero (con un abito supposto intercambiabile per i fautori della traduzione, contingente o arbitrario per i detrattori). Sappiamo invece, per riprendere le parole di Eliot, «che la musica della poesia non esiste indipendentemente dal significato: altrimenti potrebbe esservi una poesia di grande bellezza musicale ma priva di senso, come a me non è mai accaduto di leggere. Nelle apparenti eccezioni non c’è che una differenza di gradazione; sono poesie in cui ci lasciamo portare dalla musica accettando il senso per dato, altre in cui badiamo soprattutto al senso mentre, senza rendercene conto, siamo commossi dalla musica» (T.S. Eliot, La musica della poesia, nel volume Sulla poesia e sui poeti, Milano, Bompiani, 1960, p. 26).

Quand’è che intendiamo la musica di un’altra lingua? Quando la conosciamo. E qui si sprecherebbero gli esempi di quali stravaganti valori eufonici ed evocativi un orecchio straniero tenda ad attribuire a una parola o a un’espressione, dal momento che – strano a dirsi – la musica di una poesia non si percepisce con l’orecchio, ma con l’interezza del proprio essere – corpo e memoria. Noi infatti sentiamo squillare la parola della poesia nel momento in cui la identifichiamo nella trama di relazioni e differenze con cui si innerva nella lingua; l’attimo febbrile e fuggente in cui il senso di un testo emerge, perché esso viene eseguito correttamente, corrisponde alla complessità delle nostre disposizioni e del nostro sapere: una nota suona soltanto all’interno del sistema attivato con le altre note, una voce ci parla solo nel coro di tutte le voci: ed è come rinvenire, in una costellazione, la luce della stella giusta. La musica di una poesia, infatti, è stata da sempre rapportata al silenzio, ai suoi fondali imperscrutabili perché sottraggono tutto ciò che è stato appena percepito rilanciandoli altrove, guadagnando così nuovi possibili spazi di significato. Ed è per questo che la musica (il senso) di una poesia sono inesauribili.

Sempre nel suo saggio sulla musica della poesia, Eliot parlava, non a caso, del potere allusivo di una parola. Cogliere l’intonazione di una parola poetica vuol dire capire a quale livello del pentagramma essa vada situata: se concentra su di sé, in quel frangente, una densità estrema di rimandi, oppure se si offre discorsiva, leggera: «la musica di una parola nasce, per così dire, in un punto d’intersezione: deriva cioè innanzi tutto dal suo rapporto con le parole che immediatamente la precedono e la seguono e poi, in senso indefinito, dal rapporto con tutto il contesto». Quello che conta è l’insieme organico di un componimento, e dico organico appunto perché ogni traduzione meccanica, che privilegia un solo livello testuale a scapito di altri, mi pare destinata a compiere una violenza inaccettabile. Il traduttore deve cogliere e cercare di restituire il senso di un testo nel suo equilibrio complessivo, nel suo sistema di rapporti (anche storici, lungo l’asse selettivo temporale e stilistico). Deve prestare attenzione alla musica dei pensieri, vale a dire ai tempi di entrata delle idee (tema e rema, in termini linguistici), al dinamismo comunicativo che impone pause, dubbi, equivoci, movimenti di significato – ritmi, appunto -, alla terza idea che nasce quando due parole-rima con-fondono, all’effetto (piacevole o cacofonico) con cui si armonizzano le immagini, e alla loro ricorrenza, nel gioco moltiplicativo imposto dagli a capo dei versi, quasi specchi in un labirinto, e dalle percussioni acustiche della metrica, dalle spinte divergenti o convergenti date dal tessuto dei significanti. L’insieme di queste evoluzioni è ciò che si dovrebbe tentare di riprodurre, in un’altra lingua, in una traduzione.

Un’ultima considerazione. Eseguire correttamente un testo non significa, naturalmente, cogliere esattamente ciò che voleva dire l’autore: il corpo della poesia eccede il soggetto che l’ha creata, come pure il soggetto che la riceve. Eseguire un testo (magari in altra lingua), vuol dire semplicemente interpretarlo in un modo da rendere giustizia a quell’organismo, in modo da restituirgli vitalità e significanza.

Ogni volta che mettiamo in atto una buona esecuzione di un’opera, ci mettiamo idealmente a ballare, con l’opera finalmente restituita al movimento, sulla musica dei pensieri.

 

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