La città, Davide, Elisa
(L’opera scelta come copertina è di Montserrat Diaz.
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Confesso che rinunciare a questo brano del mio romanzo è stato un bel sacrificio…
Davide adorava girare per la città, specialmente a piedi. Non si sentiva affatto solo, ma in compagnia di tutti, della città intera. Sia che vagasse per il centro, sia che percorresse il Parco oppure prendesse via Cardarelli o provasse una serie di strade nuove, riconosceva volti abituali di individui ignari della sua presenza, anonimi, eppure a lui così intimi. A Davide pareva che ogni volto in cui si imbattesse non fosse altro che una diversa manifestazione di un unico, fraterno confidente. Studiava la fisionomia, l’andatura, i gesti di chiunque, e compartecipava ai sentimenti di tutti: soffriva la stanchezza della peruviana che oscillava seduta sul tram, si compiaceva con la ragazza che attraversava la piazza sentendosi ammirata, si incupiva agli sbuffi del cameriere che usciva dal retro del ristorante portando la spazzatura, si induriva al grido del cieco che pubblicizzava i biglietti della lotteria dal suo sgabuzzino, si confortava insieme al cliente abituale che finiva l’ultimo bicchiere prima di tornare a casa. Ma Davide non studiava solo le persone, sentiva la compagnia anche delle strade, dei palazzi, delle cose. Inoltrandosi in certe vie gli pareva persino che gli edifici gli venissero incontro e lo salutassero. Ne avvertiva i sentimenti: la stanchezza di quel vecchio stabile, la felicità di quella finestra addobbata di fiori, la frenesia infantile di quel condominio popolare, la noia di quella palazzina liberty. Soprattutto lo seducevano certe periferie tristi, dove gli pareva di scorgere con più chiarezza il disegno di confidenze e di perdite che ne tramava il respiro: ascoltava il silenzio delle auto vecchie, sporche, sempre parcheggiate al medesimo posto; attendeva che il trillo di una telefonata in un appartamento si zittisse; contemplava la sedia vuota, appena discosta, di un tavolino davanti al bar; fiutava come un cane gli odori quando uno, più intenso, emergeva fra gli altri. E si chiedeva per chi fosse tutta la bellezza che lo circondava, chi avesse mai avuto il potere di contrastarne l’emorragia, dove conducesse infine quella teoria di strade che non dimostrava nulla, ma che confutava molte cose.
Spesso rientrava da quelle sue avventure con un carico di voci sulle spalle, curvo come una contadina sotto la gerla, e riversava ogni immagine sul tavolo, accanto ai libri, e posava su quella superficie anche la sua testa, di lato, come per prolungare ulteriormente l’ascolto anche nel sonno, che arrivava presto.
Da quando aveva conosciuto Elisa, però, l’intrico delle case e dei volti e delle cose aveva trovato un nuovo orientamento. Ogni realtà veniva misurata a partire dalla distanza dal corpo di quella ragazza semplice, bella, inconsapevole.
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