Riflessi, di Giulietta Cavallotti, 2010, tecnica mista su tavola, cm 70x50

Il lavoro paziente del verso

(L’opera scelta come copertina è di Giulietta Cavallotti.
Cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa)

Non ho saputo amare
per questo lascio andare il tuo cuore modesto,
per idiozia e per volere meglio
la terra che ci chiama.
Brucia chiaramente
il fuoco dei tuoi fianchi, il seno eretto
non manca nulla, nulla
solo il mio cuore tace, macchinetta
stremata dalle lacrime.
E sperdimi di letizia,
sono solo l’untore, il passeggero
col biglietto sfondato del suo viaggio.

Daniele Piccini

Ci sono esperienze che uno scrittore giovane deve filtrare nella sua parola, perché fanno parte del suo orizzonte di vita. Sono gangli centrali, presenti anche laddove non vengono esibiti. Spesso, questi temi privilegiati risultano l’occasione stessa di innesto della sua voce all’interno del coro della tradizione, perché è la consonanza di fondo avvertita verso alcuni “maestri” intorno a questi nuclei a sancire un’affinità elettiva. Certe voci di scrittori agiscono in noi attraverso la condivisione del tono (dell’inclinazione emotiva) con cui ci chiariscono a noi stessi, in ciò che ci sta maggiormente a cuore.

È quanto accade a Daniele Piccini (del ’72, attivo ora a Milano come critico e giornalista ma originario di Sansepolcro, la città di Piero della Francesca), autore di una poesia già nota al pubblico per alcune comparse in plaquettes e in riviste e ora, in prossimità di un libro organico, leggibile nel volumetto Di nascita e morte uscito per Lietocolle. Affrontando il motivo “classico” dell’amore, anzi della fine di una storia d’amore, Piccini conferma la sua adesione al modello luziano (il Luzi ancora considerato migliore, quello della stagione post-bellica che decreta il superamento dell’ermetismo). Entro questa cornice, dal forte timbro esistenziale, l’esperienza prende vigore entro una cifra tragica, che fa coincidere la conoscenza col destino della perdita: «Solo da qui potevo dirti questo / e mi sembra una riprova terribile / di tutto il male che occorre patire / per conoscere un fiore, e abbandonarlo». Questo è il dato primario di un’affinità che si estende nelle campiture di una religiosità contadina entro cui la donna è, ancora, una “parca” custode dei ritmi domestici e della trafila delle generazioni, in virtù della sua «pazienza che cuce la vita / come un lavoro giusto di rammendo».

Attraverso oggetti-simboli di caproniana elementarità (il fiore, il bicchiere, il fuoco, il tavolo, il libro), Piccini cerca la simpatia del lettore insistendo su questo ron ron sentimentale di sottofondo, avvolgendo ogni cosa con una nebbia di dolore, nel tentativo insomma di far brillare l’aura letteraria dei suoi versi fino all’ardore poetico.

 

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