Cesare Viviani

Una generazione di anarchici e di autolesionisti (di Cesare Viviani)

Con questo capitale articolo di Cesare Viviani, pubblicato sul tredicesimo fascicolo di Atelier, avvio un periodo a tema. Nell’arco di questa e della prossima settimana (con una piccola appendice anche su quella successiva) riprenderò infatti interventi relativi al tema della generazione. Il fatto è che domenica 24 luglio sarò coinvolto a Rimini in un incontro, nato per riconsiderare l’esperienza dell’opera comune, e mi si chiederà ragione anche della mia svolta, che mi ha portato a imboccare un lavoro più individuale.

Una generazione di anarchici e di autolesionisti
di Cesare Viviani

Una vocazione autentica, quella della nostra generazione.

Poeti, non intellettuali che cercano di combinare i vantaggi del sapere con gli effetti dell’inconoscibile o di far quadrare l’ispirazione con l’utile. Abbiamo pagato un costo alto: non ci siamo integrati nei comodi uffici, ricche consulenze o dirigenze, ambite giurie o trasmissioni.

Non voglio dire “maledetti”: ma certamente non benedetti.

Il primo segno della generazione è il libro di Dario Bellezza: Invettive e licenze, 1971. Un bel libro mal presentato: «Ecco il miglior poeta della nuova generazione» scriveva Pasolini nel risvolto di copertina. Sono affermazioni, queste sulle classifiche e sui primati, che servono di più a chi le scrive che a chi le riceve: il destinatario, infatti, viene sottratto a una condizione di maggior rigore, viene allontanato dalla grandezza della poesia e suggestionato dall’idea della propria grandezza.

Un altro episodio che mi è tornato più volte in mente, contatto inconsapevole con la generazione: appena arrivato a Milano, nel 1972, mi viene offerta una piacevole collaborazione, lettore di poesia presso una grande casa editrice. Uno dei pochissimi dattiloscritti di cui raccomandai con tutto l’ardore di venticinquenne la pubblicazione, di un autore allora a me sconosciuto, un testo di notevole qualità, era Fuoco celeste di Franco Cordelli. Negli anni seguenti mi sono chiesto spesso come accada che un autore di un bel libro di poesia smetta di scriverla.

L’unica spiegazione che sono riuscito a darmi è che Cordelli, il primo della generazione a confrontare coraggiosamente la poesia con la dimensione dello spettacolo – ricordiamo Castelporziano – spettacolo in quanto scommessa di un’attenzione più vasta per la scrittura – ne sia stato anche il primo sacrificato. Dunque una sfida perduta, più che un sottile autolesionismo.

Nel 1973 esce il mio libro L’ostrabismo cara: è subito amato da alcuni, odiato da altri – non ammette mezze misure e non mi procura nessun contatto diretto con la generazione.

Qualche anno dopo escono altri due testi, che appaiono fondamentali per la generazione e non solo: Il disperso di Maurizio Cucchi e Somiglianze di Milo De Angelis, due libri che amo, in particolar modo il primo, folgoranti esordi e immediate sicure acquisizioni. E poi si manifestano altri fior di poeti: Conte, Greppi, Cagnone, Scalise, Ortesta, Cavalli, Kemeny, Frabotta, Larocchi. Ma già lavoravano in quegli anni Lumelli, Orengo, Zeichen, Lolini, Carifi, Maugeri, Lamarque, Insana, Paris, Santagostini, Copioli, Valesio, Pecora, Minore, Ruffilli. Poco dopo sarebbero comparsi in modo organico D’Elia, Magrelli, Valduga, mentre lavorava in silenzio un coetaneo, finalmente oggi uscito allo scoperto, De Signoribus.

Ma in quel tempo ci furono anche i due convegni del Club Turati, le antologie, da quella di Cordelli e Berardinelli alla Parola innamorata, a quella di Porta. Credo di poterlo dire con convinzione: nel Novecento non c’è stata una generazione ricca di talenti poetici come la nostra, una concentrazione così alta di libri eccellenti e autonomi.

E un’altra cosa mi sento di sostenere: in questa seconda metà del secolo la nostra generazione è stata quella che ha dato più impulso al rinnovamento della poesia.

A questo punto se qualcuno continua a non accorgersi o addirittura a negare tanta ricchezza – e penso a Luperini, o a Sanguineti –, è persona, lo dico benevolmente, che presenta un’impressionante problema di percezione: come colui che per rafforzare la propria immagine tende a eliminare, ad annullare quelle diverse altrui.

Una generazione anarchica, e in qualche caso accusata di esserlo. Una volta che stavo per essere scelto per un riconoscimento importante, un anziano professore universitario imbrigliò i colleghi dicendo: «Ma vi rendete conto che è un sessantottino?». E la candidatura fu ritirata immediatamente.

Se c’è una derivazione dal Sessantotto è la migliore: la ricerca di una conoscenza nuova, che provenga più dall’esperienza che dal sapere. Ingenuità? No, rischio e coraggio: fiducia in una dimensione altra nella scrittura e nell’esistenza, fiducia in un’espressione autonoma.

La definizione che mi pare più pertinente alla nostra generazione è “autonomia”. È l’autonomia che, nel profondo, apre la scrittura, fuori del calligrafismo e del controllo, alla luce della contemplazione e all’oscurità della relazione. E, in questi anni, è l’autonomia che ci ha liberati dalla dipendenza dai padri, dalle scuole di estetica e di pensiero e dalle accademie.

Poesia e accademia, pensiero poetico e pensiero accademico sono, proprio per loro costituzione e struttura, antitetici, incompatibili, come il diavolo e l’acqua santa. Allora l’accademia può interessarsi alla poesia, ma la poesia non può cercare l’accademia. Noi siamo andati per la nostra strada ricevendo qualche bella attenzione universitaria (soprattutto la Lorenzini, e anche Barilli, Ferroni, Luti), ma senza cercare rapporti privilegiati. L’accademia ha diffidato e diffida ancora di noi, prova ne siano certi attacchi e risentimenti, come per un’espropriazione subita, in occasione dell’antologia molto ben curata da Cucchi e da Giovanardi.

Autonomia e autolesionismo sono due stanze attigue, ed è facile scivolare dall’una all’altra. In assenza di una legislazione esterna è facile cadere in un comportamento autoaggressivo.

Nella generazione c’è chi ha scelto la specialità del cecchino e, che sia autolesionismo l’aggressione per di più rivolta a coetanei compagni di strada è fuori discussione. A oggi potremmo definirli i “magnifici tre”.

Cominciò Vassalli, anni fa, a sparare a zero, prima di scoprire bei temi di attualità fruttuosi per i suoi romanzi. Ha continuato Berardinelli, in suggestiva coincidenza temporale con un mancato riconoscimento come poeta. Tanto che io, subendo per primo nel 1981 – ho il privilegio di poter dire: «Cominciò con me» – la sua immotivata aggressività, formulai un epigramma rimasto inedito e che qui mi pare opportuno ricordare:dice: «Niente è più avvelenato / di un poeta mancato». Poi ha preso il testimone Giorgio Manacorda, che è arrivato a forme di completa intolleranza che esprime mettendo semplicemente l’offesa al posto dell’annotazione critica.

Ma ci sono altre forme meno chiare di autolesionismo: quella, per esempio, di collocare certe proprie emozioni o immaginazioni nella marginalità perdente e povera dell’esistenza, come hanno sentito la necessità di fare a volte Cucchi e Zeichen. Oppure quella da cui è stato sfiorato – speriamo che sia passata, come un temporale – Giuseppe Conte, quando, con una malcelata mania di grandezza, qualche suo ammiratore ha visto in lui il protagonista della «poetica di fine millennio».

Poi c’è un altro autolesionismo ancora, che riguarda tutti i poeti, di ogni età: si esprime con il sostare nel luogo del rifiuto, insistendo per avere un’attenzione e una stima che non sono corrisposte. E non vi parlo poi del mio autolesionismo, perché ci vorrebbero pagine e pagine, ore e ore di ascolto.

Ultima nota. Due anni fa mi sono detto: «Va bene avere difficoltà nel ruolo paterno, ma non posso continuare ancora a non occuparmi dei più giovani di me, della nuova generazione». (E su questa carenza di vocazione alla paternità, che riguarda tutta la mia generazione, si potrebbe tornare a parlare ancora di desiderio, seppur malrisolto, di autonomia).

Così ho frequentato poeti più giovani e li ho trovati positivi, costruttivi, con l’ansia e l’aggressività ben controllate, e soprattutto capaci di reciproca ammirazione, di vicendevole elogio. Allora mi è venuto un dubbio: non è che, con l’evitare i nostri errori, penseranno di aver trovato il modo giusto di essere, il modo vero? Non è che finiranno per cadere nell’eccesso contrario?

 

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