Marco Merlin, Mosse per la guerra dei talenti (2007)

Generazioni a confronto (1/3)

Generazioni a confronto
Convegno nazionale di Firenze (18 febbraio 2005)
a cura di Gianluca Didino

Parte Prima

Giuliano Ladolfi: Buon giorno a tutti e benvenuti al convegno Generazioni a confronto. Dopo poco più di un anno dall’organizzazione dell’incontro, svolto il 5 dicembre 2003 a Palazzo Vecchio sul tema Oltre il Novecento, i cui atti sono stati pubblicati sul n. 32 della nostra rivista, «Atelier» e l’Associazione «Sguardo e sogno» hanno avvertito l’esigenza di promuovere nel salone della Regione Toscana, grazie all’impegno di Paola Lucarini Poggi, un ulteriore dibattito.

L’incontro precedente aveva messo in luce una situazione magmatica, tesa tra spinte conservatrici, che bloccano in un epilogo infinito la letteratura postuma del Novecento e del Postmoderno, e nuove spinte sollecitate dall’esigenza di rifondare i principi di un lavoro critico che ritorni ad esprimere orientamenti e giudizi di valore, di valorizzare le giovani generazioni e di istituire un dialogo “onesto” tra poesia, narrativa e critica.

Non è un caso che in questi anni stiamo assistendo ad una serie di importanti iniziative editoriali che rivelano un fervore incredibile nella poesia contemporanea. Si pensi alla duplice uscita mondadoriana (Poeti italiani del secondo Novecento, curata da Cucchi e Giovanardi, e Nuovissima poesia italiana, dedicata a poeti under 35 e curata dallo stesso Cucchi e da Riccardi), che sposta decisamente l’attenzione sui poeti giovani. Se la prima opera una riflessione su libri importanti come quelli di Riccardi, di Dal Bianco, di Benedetti, di Pusterla, di Rondoni e di tanti altri che rendono necessaria una prima storicizzazione di queste voci, che del resto la critica comincia a compiere, a partire da studi come Dopo la poesia (Fazi) di Roberto Galaverni o Poeti nel limbo (Interlinea) di Marco Merlin, la seconda, invece, si pone precocemente all’attenzione, sulla scorta di una serie ampia e tuttora in corso di repertori dedicati ai poeti nati negli Anni Settanta, di cui si cominciano ad additare anche convincenti esordi con libri autonomi. È uscita in questi giorni l’antologia Trent’anni di Novecento (Book 2005), realizzata da Alberto Bertoni e costruita non su autori o su percorsi, ma sui libri, secondo una scansione annalistica, un’opera che adotta un diverso criterio organizzativo in mezzo a tante antologie, criticate a partire dal loro impianto metodologico, spesso appiattito su un implicito disegno polemico più o meno evidente: si pensi al Pensiero dominante di Loi e Rondoni (Garzanti 2001) o alla Poesia italiana oggi di Giorgio Manacorda (Castelvecchi 2004), senza dimenticare la vasta costellazione di titoli editorialmente minori, ma comunque significativi in quest’ottica (risalgono al 2003 Parole di passo, Aragno, e l’Antologia della poesia italiana contemporanea di Ciro Vitiello, Pironti).

Tutto questo fervore stimola, a ritroso, anche le generazioni che rappresentano il nucleo fondante del Secondo Novecento sia a livello poetico sia a livello critico, come testimonia la riedizione della storica antologia di Berardinelli e Cordelli Il pubblico della poesia. Trent’anni dopo (Castelvecchi 2004). E non vanno dimenticati, in tale contesto, gli altri contributi finalizzati a scandagliare il sommerso (la miscellanea di saggi Sotto la superficie, a cura di Gabriela Fantato; Compendio di Eresia di Sandro Montalto) o l’attività di tante riviste e i resoconti dell’«Annuario» curato da Manacorda e da Febbraro.

Ci si chiede che cosa nasconda, in definitiva, tutto questo fervore: la semplice ansia di voltare pagina, chiudendo il Novecento e sancendone il canone per andare alla ricerca del nuovo che sta pulsando oppure il sottile tentativo di coprire, in questo passaggio, nodi irrisolti e rimuovere il problema della molteplicità di voci che diventa motivo di paralisi per la critica e di riflusso della stessa tradizione poetica.

Abbiamo voluto mettere a confronto su questo tema le diverse generazioni protagoniste della letteratura contemporanea, attraverso un dibattito capace di coinvolgere alcune fra le figure più rappresentative della poesia, ma anche della critica, della narrativa e dell’editoria attuale.

Marco Merlin: Abbiamo scelto di parlare di Generazioni (al plurale) a confronto, per sottolineare la problematicità virtuosa che ci pare di intravedere nella sigla, perché in una tradizione convivono (secondo dinamiche molteplici e controverse) diverse generazioni, fino a confondersi, a riverberarsi l’una nell’altra come moti ondosi diversi. Abbiamo poi ulteriormente complicato tale compresenza di generazioni, sfumanti l’una sull’altra, l’una nell’altra, aprendo il confronto a diversi sguardi conoscitivi: tant’è vero che tra i relatori trovate sia poeti sia narratori sia critici, di diversa appartenenza anagrafica, appunto. Approfittando di una situazione di apparente fervore, se non addirittura di frenesia, a livello editoriale, che si registra nel mondo della poesia – improvvisamente proiettatasi a braccia aperte (ancora con iniziative misurate, ma già significative) verso “nuove generazioni”, quasi a smentire la terribile “stretta editoriale” degli ultimi decenni e forse in qualche modo ricalcando tardivamente certi movimenti avvenuti nella narrativa –, l’intento sarebbe quello di guardarci intorno e interpretare le tensioni più forti che si avvertono nel farsi della letteratura contemporanea.

Tuttavia, credo più importante del tema e dell’organizzazione di un convegno siano sempre le persone, con la loro reale apertura al confronto e la voglia di offrire la loro passione: per questo, comincerei subito con un primo giro di riflessioni, lasciando i convenuti liberi di interpretare e di usare il tema-pretesto che ci siamo dati per proporre il loro contributo. Mi permetto anche per questo di introdurre i relatori in modo quasi informale, con poche indicazioni. Cominciamo con Andrea Cortellessa.

Andrea Cortellessa è nato a Roma nel 1968. Ha pubblicato saggi su riviste letterarie, ma anche di arte e di cinema, su diversi libri collettivi. Nel 1998 ha curato il volume Le notti chiare erano tutte un’alba, un’antologia di poeti italiani della Prima Guerra Mondiale, edita da Bruno Mondadori, nel 2000 ha curato la monografia a Ungaretti, corredata anche da un video, per gli Einaudi Rai Educational, collabora ad «Alias», supplemento del «Manifesto», a «Stilos», all’«Indice dei libri», alla «Rivista dei libri» e ha esercitato varie curatele e lavori in corso che gli permetteranno di entrare nel merito di alcuni titoli e delle tante antologie che sono state citate.

Andrea Cortellessa: Il primo problema che emergeva dalle preoccupazioni di Marco Merlin è quello del contesto al quale ci rivolgiamo. Molti dei testi citati sono titoli oggetto di dibatto, sono già stati discussi e sono all’attenzione dei cosiddetti addetti ai lavori (eppure non tutti; e questo dice già quanto la loro circolazione sia difficoltosa all’interno del mondo della poesia contemporanea). Ma, se ci poniamo il problema della visibilità e della percezione di questi stessi lavori e di questo stesso mondo che a noi pare così vivo e vitale, all’esterno del circuito degli addetti ai lavori – come può essere una platea di studenti, magari anche appassionati di poesia ma che non hanno confidenza con questo tipo di pubblicazioni –, il bilancio all’improvviso si capovolge, tutto diventa più oscuro. L’interrogativo è proprio quello del posto – del luogo e della fruibilità nell’orizzonte mediatico o meglio di quello che i filosofi chiamano doxastico, dell’opinione pubblica insomma in questo Paese – della poesia di oggi, dei poeti dell’ultima generazione in particolare.

Da questo punto di vista molti critici e saggisti (penso a Guido Mazzoni e a Giulio Ferroni per esempio) hanno insistito, negli ultimi anni, sulla marginalità della poesia contemporanea, sulla sua condizione di assoluta mancanza di ascolto da parte dell’editoria, che continua a pubblicare collane di poesia e antologie, sì, ma come mantenendo in vita un residuo, una memoria dell’antica e perenta importanza della poesia. Altri critici, altri saggisti hanno approfondito il discorso e ampliato questo bilancio negativo alle ultime generazioni; non si tratterebbe cioè di un problema solo del presente ma, nello specifico, della poesia delle ultime generazioni.

Nel 2004 Romano Luperini avviò su «l’Unità» una polemica molto serrata sulla mancanza di incidenza del discorso degli scrittori in generale, e dei poeti in particolare, nell’orizzonte civile del nostro Paese. Nel 1975, esattamente trenta anni fa, la morte di un poeta come Pier Paolo Pasolini poteva essere vissuta come un evento storico, che riguardava tutta la comunità nazionale e la faceva interrogare sulle proprie condizioni, sui propri limiti; se oggi dovesse accadere una cosa del genere avrebbe sicuramente un’eco molto più limitata. Lo dimostra il fatto che gli stessi interventi giornalistici dello scrittore potevano essere parte integrante del dibattito politico dei primi Anni Settanta, mentre oggi gli interventi su temi politici degli scrittori contemporanei hanno un orizzonte molto più limitato e un’attesa di ascolto da parte dell’opinione pubblica infinitamente più ridotta.

Assistiamo insomma a una strana dissimmetria, discrasia. All’interno del mondo della poesia contemporanea non è giusto dire, secondo me, che viviamo un’illusione di vitalità; penso che quello presente sia effettivamente un momento di grande vitalità. Ma, se ci spostiamo su una considerazione fenomenologicamente più allargata, il responso si complica e finisce per capovolgersi. E tuttavia a queste diagnosi così sconfortanti si può provare a rispondere. È vero che la poesia o, più in generale, la letteratura nella Società dello spettacolo (come era stata definita da Guy Debord già negli Anni Sessanta) ha un ruolo infinitamente ridotto; la sua parola contribuisce anzi in modo molto marginale al frastuono di chiacchiere che ci sommergono da tutte le parti. (Anche se esistono delle eccezioni. L’impatto politico sull’opinione pubblica degli interventi di Oriana Fallaci, per esempio, è dovuto proprio al fatto che il suo più che uno stile giornalistico è uno stile letterario: molto riconoscibile, molto codificato, retoricamente molto attrezzato, seppur semplificato).

Va sfumata una diagnosi che complessivamente è corretta: il discorso poetico e letterario è un discorso merceologicamente di nicchia; osserva un codice particolarmente selezionato e non sembra avere punti di contatto col dibattito complessivo. Ma il punto è che a questa diagnosi è necessario rispondere in termini positivi. Nel tempo della spettacolarizzazione dell’informazione, della parola, dell’immagine e di tutti i mezzi di comunicazione, nel momento in cui questa spettacolarizzazione diventa un problema politico non solo in Italia (dove il fenomeno è particolarmente evidente) ma a livello mondiale (perché ognuno vede che è l’informazione, in Occidente, la leva principale del potere politico), il fatto che la letteratura e la poesia da tutto ciò siano sostanzialmente escluse, non è un fattore in sé negativo. È vero; stiamo parlando di un discorso residuale, ma non nel senso che questo qualcosa vada a spegnersi. La letteratura ha raggiunto una condizione di resto, un resto che si isola da questo coro babelico e dissonante (ma così efficiente nel condizionarci) proprio perché osserva logiche diverse. Forse possiamo rimpiangere i tempi, in cui un poeta poteva dire la sua su un problema storico o politico ed essere ascoltato dai grandi della terra, però quella stagione è terminata. E forse non è del tutto un male.

Vengo a un problema più specifico: il titolo del nostro convegno è Generazioni a confronto. Il tema delle generazioni è stato posto, secondo una scadenza appunto generazionale, più o meno ogni venti o trent’anni. Dovendo identificare il ruolo della rivista «Atelier» e delle pubblicazioni che essa ha promosso, direi che questa insistenza sul tema delle generazioni – sulla difficoltà di isolarne una con caratteristiche che non siano soltanto anagrafiche ma di comunità di linguaggi e di intenti – è stato il vostro sforzo principale. E credo che si inizi a intravedere un carattere di un certo interesse. Nel 2000 Giovanni Raboni recensì sul «Corriere della Sera» due antologie di giovani poeti: L’opera comune, curata da Giuliano Ladolfi, e I poeti di vent’anni curata da Mario Santagostini. Disse più o meno (cito a memoria): «Questa è la prima generazione postmoderna». Era una provocazione, perché proprio in quegli anni si discuteva con grandi strumenti analitici, interpretativi e storici sul momento in cui si potesse far datare una soluzione di continuità epocale, tra la modernità e ciò che alla modernità segue (le posizioni principali dicevano l’una gli Anni Settanta, l’altra gli Anni Cinquanta). Ma il senso del discorso di Raboni era più o meno questo: questa è la prima generazione non condizionata dagli eventi degli Anni Sessanta, da quella grande lacerazione che nel tessuto della letteratura italiana ha rappresentato la Neoavanguardia, con tutto ciò che alla Neoavanguardia è seguito e con tutto ciò che alla Neoavanguardia negli anni successivi si è contrapposto. La Neoavanguardia ha condizionato nel bene e nel male, in positivo e in negativo, i dibattiti letterari fino ad oggi. Ancora oggi, in forma residuale (questa volta in senso negativo), si continua a combattere una guerriglia cominciata quarantaquattro anni fa e che non ha più alcun senso, perché nel frattempo sono cambiate le coordinate storiche, ed è ovviamente cambiato il linguaggio degli scrittori. Eppure sia i protagonisti di quella stagione sia – ciò che fa ancora più specie – i giovani scrittori in quella stagione non ancora nati continuano a proseguire queste guerriglie immaginarie (un poeta di sicuro talento fra i nati negli anni Settanta, Flavio Santi, si è distinto in tal senso, di recente, per virulenza a freddo). Ciò che si rende ora possibile – e Raboni, uno che quella stagione di contrapposizioni invece l’aveva vissuta sulla propria pelle, scommetteva proprio su questa possibilità – è che la generazione dei nati nella seconda metà degli Anni Sessanta e nella prima metà degli Anni Settanta si liberi finalmente da questo condizionamento, che possa finalmente discutere di più tradizioni novecentesche, uscendo dalle demonizzazioni, dai tabù, dalle identità immaginarie. Quella dell’invenzione delle tradizioni non a caso è una tipologia del discorso politico nata negli Anni Ottanta, nell’ambito del discorso sul postmoderno negli USA, ma si applica benissimo anche alla letteratura: ci sono appartenenze che sono del tutto virtuali e non rispondono ai valori poetici e letterari realmente prodotti negli ultimi anni. Nel 1974, nel pieno della nascita di quella che si può considerare una consapevolezza postmoderna nel panorama letterario italiano, uscì un doppio numero del «Verri»; tra gli altri c’erano due interventi molto interessanti: uno di Luciano Anceschi, direttore della rivista, il quale diceva che la situazione della poesia contemporanea era simile a quella di un corpo astrale che, dopo tanto tempo in cui aveva gravitato ordinatamente intorno ad un sistema di coordinate ben preciso, improvvisamente fosse esploso e i suoi frammenti stessero volando da tutte le parti, senza che fosse possibile prevederne la direzione. Concludeva ottimisticamente: quei frammenti forse avrebbero formato nuove costellazioni, nuovi corpi astrali. Nello stesso numero Andrea Zanzotto pubblicava un intervento intitolato Poesia?, in cui diceva che la poesia viveva un «tempo di nessuno» nel quale aveva perso qualsiasi forma di appartenenza. Ora, se è vero che queste ipotesi sono state poi smentite in qualche modo dagli eventi – e cioè dal fatto che, come ho detto, il successivo dibattito è rimasto fino ai giorni nostri bloccato su categorie preesistenti –, la conclusione di Zanzotto è una conclusione che dobbiamo fare nostra, oggi: questa mancanza di appartenenza e di identità della poesia non è qualcosa che dobbiamo compiangere.

Quello della poesia è costituzionalmente tempo di nessuno (una zona «non giurisdizionale », per dirla con Caproni) perché appunto è un resto rispetto al panorama della contemporaneità, un resto che deve restare privo di indirizzi precisi, consentendo a chi lo segue o lo coltiva di non fissare segni precisi sulla carta astrale, limitandosi a intravedere delle possibilità. Questo senso di libertà è anche paralizzante, può essere minaccioso per poeti e critici e per tutti coloro che si occupano di questa branca tanto limitata dell’ingegno umano contemporaneo, ma è dal mio punto di vista l’occasione per cominciare una nuova epoca in cui finalmente si dia quello che merita al passato ma, al contempo, si cominci a costruire il futuro.

Marco Merlin: Ringrazio Andrea. Suppongo che torneremo su diversi spunti lanciati da questa prima riflessione. Al di là del tema generazionale, su cui si potrebbe dire tantissimo, ho colto due aspetti che mi sembrano interessanti, proficui e stimolanti anche perché contraddittori. Alludo a quella forbice che da una parte vede il baccano mediatico, il potere che si istituzionalizza nell’informazione, che fa sì che la poesia sia un ambito preservato dalla retorica, dall’eccesso e da tutte le deformazioni che esso produce, che quindi paradossalmente trasforma la povertà della poesia in valore; dall’altra la difficoltà della poesia ad uscire da un sistema troppo chiuso, un sistema autoreferenziale. Il problema si può porre in altri termini: se nel piccolo mondo della poesia notiamo tutto questo fervore, come riuscire a far sì che entri in circolo il valore che la poesia trasmette? Anche per questo l’intento di questo convegno è quello di aprire la questione anche a persone come Christian Raimo o Giulio Mozzi, che non appartengono strettamente al mondo della poesia. E, pertanto, il confronto tra i poeti e i narratori contemporanei può essere uno di quei solchi da tracciare per far sì che la poesia sfugga da questo piccolo mondo autoreferenziale e possa rimettersi in circolo e ritrovare, non dico forme di visibilità eccessive che forse non le competono, ma una sua residuale (fino a che punto?) voce in capitolo. Nel frattempo chiedo a Roberto Galaverni di prendere la parola.

Galaverni è nato a Modena nel 1964, scrive di letteratura contemporanea su vari periodici e quotidiani. Ricordiamo due pubblicazioni in particolare: l’antologia pubblicata nel 1996 per Guaraldi, Nuovi poeti italiani, opera pionieristica, e il suo ultimo importante volume di saggi intitolato Dopo la poesia, edito da Fazi nel 2002.

Roberto Galaverni: C’è una generazione di poeti giovani (dai 26 ai 32 anni) che si è raggruppata attorno alla rivista «Atelier», che ha cominciato a lavorare sulla poesia: sono tutti poeti e critici, scrivono sui libri che escono, pubblicano le loro composizioni, portando avanti qualcosa che forse appartiene soltanto a lei: la poesia ha tante altre cose, ma generazionalmente aveva una spinta comune (L’opera comune credo che sia la prima antologia nata attorno a questo gruppo di poeti). Le vie della poesia poi sono lunghe, ciascuno deciderà per sé nell’evoluzione delle cose, credo però che in genere una presenza generazionale ci sia quasi sempre, se guardo ai grandi libri del Novecento, a partire da Montale e Ungaretti, al di là del fatto che poi loro condividessero come questi poeti amicizie e tendenze letterarie. Però c’è sempre, più che lo spirito della generazione, direi, lo spirito della giovinezza nei libri dei veri scrittori. C’è qualcosa che si sente. È una forza, un’energia ruvida, brutale. Dei poeti che amo, io amo soprattutto il primo libro, perché spesso questi libri, che non sono ancora perfetti, sono pieni di ricchezze, contraddizioni, snodi irrisolti, non sono compiuti. Luperini, il critico che ha nominato prima Cortellessa, disse una volta che Ossi di seppia è un libro fecondamente contraddittorio, cioè che le contraddizioni, le possibilità che poi Montale ha rinnegato, approfondito, seguito, erano feconde, cioè producevano vitalità. Vi si sente il ragazzo che dà i calci ai ciottoli sul mare. La poesia realizza anche questo. Poi è vero che tante cose si bruciano, per cui un taglio generazionale di interrogazione sulla poesia credo sia legittimo. E dico questa parola, “legittimo”, perché Merlin ha litigato molto sulla sua rivista, sostenendo giustamente che ci sia questa possibilità che non esaurisce la lettura di nessun libro, ma c’è qualcosa di comune.

Così voglio parlare di un racconto, di quello che è stato per la mia generazione. Io sono del ‘64 e l’autore è del ‘55; da ragazzo leggevo le sue cose: non un poeta, ma un narratore della mia terra, dell’Emilia, di Correggio, Pier Vittorio Tondelli. Non so se lui sia un grande scrittore, comunque, se riprendete i suoi romanzi o le sue cronache (racconti che stanno a metà tra racconto e descrizione delle mode, dei vestiti, dei giovani), in Tondelli c’è tantissimo degli Anni Ottanta. Poi lui muore, destino tragico, nel ‘90 o nel ‘91 di Aids, il marchio più terribile di quel periodo. In Tondelli c’è tutto. Se andate alla Feltrinelli di Bologna trovate anche, in una delle sale, una bellissima foto: Tondelli, con i capelli lunghi (è il 1980), con i jeans e il passo lungo degli Anni Settanta, è seduto sui gradini proprio della Feltrinelli e ha in mano il suo primo libro di racconti, che si chiama Altri libertini: fece un po’ scandalo per le parolacce e le bestemmie. Non è un grande libro, ma è un libro importante da un punto di vista generazionale, sociologico, che inaugurò molte cose. Ma Tondelli come si era realizzato come scrittore? Lui soprattutto pubblicava su riviste per i giovani: riviste di musica rock o di moda. E soprattutto aveva questa velleità di voler vivere come scrittore, di vivere della sua scrittura e quindi pubblicando di qua e di là, prendendo piccoli compensi, riusciva a vivere. Da Correggio era passato all’università di Bologna; era stato per un breve periodo a Roma, poi era andato a vivere a Milano e, quando si era scoperto malato, era tornato a Bologna, nella sua Emilia. In Tondelli c’è tutto di quegli anni: la riviera adriatica, le discoteche quando diventano qualcosa di diverso dalla balera degli Anni Sessanta; ci sono tutte le mode giovanili bolognesi, la new wave, il punk. Lui è uno scrittore straordinario di queste cose. È, quindi, uno che si nutre fin troppo di un afflato generazionale, fin troppo perché non so quanto lui sia un grande e compiuto scrittore, e cioè quanto questa benzina, che è esplosiva, poi venisse trasfusa, messa a frutto completamente. E credo che lui avesse un piccolo cruccio riguardo a questo: voleva essere uno scrittore totale e non solo generazionale e forse aveva il senso di una propria incapacità di arrivare ad un gradino massimo di scrittura.

La parabola di cui vi volevo parlare è questa. Nel 1990 lui scrive un racconto che è, a mio parere, la cosa più bella che abbia scritto, almeno emozionalmente è quella che mi ha toccato sempre di più. Si intitola Viaggio a Grasse. Grasse è una cittadina della Costa Azzurra dove Tondelli aveva deciso di andare ad intervistare un grande scrittore del Novecento, Frederic Prokosch, che però era morto nelle settimane immediatamente precedenti. Ci va lo stesso, vuole vedere dove era vissuto. Questo scrittore era stato per eccellenza non un grande, ma uno che aveva conosciuto tutti. Era stato forse il più grande scrittore generazionale del secolo scorso, aveva conosciuto tutti i grandi del Novecento, li aveva toccati, aveva vissuto con loro e aveva raccontato di queste cose. E Tondelli va là. In questo racconto incredibile lui arriva la sera, andrà poi alla villa di Prokosch in preda ad un’emozione terribile, si sa già malato (è raccontato in prima persona) e alla sera passeggia in questa cittadina della Riviera e descrive nuovamente i giovani (a quel tempo Tondelli aveva trentacinque anni) che aveva descritto per tutta la vita: i loro visi, i loro corpi, il loro chiacchiericcio, la musica che viene dai locali, dalle discoteche, e sente che non gli appartiene più. Sente che è bellissima, ma non è la musica della sua generazione, della sua letteratura. E ad un certo punto arriva ai limiti del paese, vede un treno passare e si accorge che è pieno di giovani che stanno andando in Spagna, tutti ai finestrini, vocianti, cantanti. Si ricorda che c’era stato anche lui su quel treno e si dice: «Quanto ci credevo a questa giovinezza, a questa vita!». E lì si congeda, salutando con lo sguardo questi giovani su questo treno che sprofonda nel buio e poi nel silenzio: qui c’è un grande taglio in quella che era stata la sua letteratura fino a quel momento. Il giorno dopo va a visitare la villa. Rivede il fantasma di Prokosch che esce dalla piscina, lo rivede nella sua fantasia e si accorge che il senso della letteratura e della sua letteratura (il senso di questo suo pellegrinaggio che l’ha portato sulle tracce di uno scrittore generazionale che non c’è più) è una grande interrogazione sulla solitudine e quindi anche sulla morte. E qui scrive una pagina davvero straordinaria su quello che dovrebbe essere la letteratura e su ciò che rimane nella letteratura al di là delle generazioni. Ecco, questa può essere, secondo me, una parabola (perché la letteratura fa un salto su sé stessa: Tondelli non sta parlando della morte, ma di una letteratura che deve scavalcarla e parlare oltre) di quello che può essere la misura generazionale dentro il confronto delle generazioni per un giovane scrittore. Qualcosa di imprescindibile, credo. Non è pensabile immaginare uno scrittore che nasce senza sentire, anche magari negandola, una certa specie di appartenenza. E nemmeno pensare ad un grande scrittore compiuto che non ha il senso della solitudine e di un destino soltanto suo e non condivisibile con altri. Mi viene in mente che Andrea Gibellini scrisse un pezzo qualche anno fa su Tondelli, che si chiamava in inglese The boys are dead e stava dicendo qualcosa di terribile, simile a quello che dico io: i ragazzi non possono nutrire sempre e fino in fondo la letteratura.

 

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