Generazioni a confronto (2/3)
Generazioni a confronto
Convegno nazionale di Firenze (18 febbraio 2005)
a cura di Gianluca Didino
Parte Seconda
Marco Merlin: Ringrazio Roberto e comincio a raccogliere un po’ di spunti dopo ogni relazione, che saranno poi fruttuosi in un secondo giro. Voglio raccogliere dalle parole sue questo senso che sembra inizialmente riduttivo e che invece io sento appropriato e proficuo: mi sembra utile non parlare strettamente di generazione, ma del modo in cui la giovinezza può diventare il punto d’origine, l’imprinting per molti scrittori, quel quid di formativo che essa contiene. E credo sia importante cogliere questo aspetto in riferimento alla sua conclusione. Se ha senso parlare di giovinezza come molla importante per la letteratura, è bene coltivarla, ma non fino all’eccesso: forse Tondelli doveva superare questo limite. La giovinezza deve anche essere sacrificata, superata. Il discorso generazionale è fruttuoso finché è pretestuoso, serve per poi andare oltre, perché, se si resta ancorati ad esso, diventa poi degradante, limitante come riferimento. E, per quanto riguarda l’editoria (pensiamo alle tante antologie uscite), c’è il sigillo del giovanilismo: il pericolo cioè che lo stimolo della giovinezza venga sfruttato come giovanilismo e che, quindi, nel fare un’antologia di giovani si cela il rischio, che va corso, di cadere sotto una marca editoriale per lanciare prodotti, facilmente smascherabile come operazione commerciale.
Abbiamo parlato su «Atelier» della necessità di tradire la giovinezza, per non incancrenirsi: la giovinezza deve finire, ad un certo punto, ed essere superata. E quindi le generazioni si distinguono in una prima fase proficua per poi potersi confrontare meglio e confluire nel dibattito di quella che è la letteratura in senso più ampio. Ho già accennato a un discorso editoriale, che può essere applicato anche alla narrativa e non solo alla poesia. E con questo introduco l’intervento di Christian Raimo. Nato a Roma nel 75, ha curato con Nicola Lagioia l’antologia La qualità dell’aria, ha avuto un esordio fortunato con una sigla editoriale di culto come Minimum Fax con una raccolta di racconti, Latte, nel 2001, seguita da un’altra raccolta Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro, pubblicata nel 2004.
Christian Raimo: Buongiorno a tutti. Provo a partire da quello che è stato detto, in modo che si crei un circolo. Provo a rispondere prima ad Andrea, quando parlava della funzione della letteratura come un resto che si isola, forma di un tempo di nessuno. E provo a rispondere in un modo non teorico, ma provando a raccontare la mia esperienza di scrittore.
Ci sono passaggi obbligati nel poter fare lo scrittore: prima gli amici, poi le piccole riviste, poi magari si viene a contatto con un gruppo un po’ più allargato, poi si comincia a conoscere quello che è il mondo della letteratura e, se va bene, si arriva anche ad un cosiddetto mercato. Credo che questo sia una forma di maturazione più o meno obbligata, nel senso che non è giusto, secondo me, fermarsi ad una forma di residualità: credo che soprattutto oggi, in cui in qualche modo sono meno influenti contesti autorevoli che in passato potevano essere l’università e la critica, ad un certo punto occorre confrontarsi in maniera quasi violenta con le leggi del mercato.
Prima Andrea ha citato come esempio di scrittore che riesce a raggiungere un pubblico vastissimo di lettori la Fallaci e mi viene in mente che c’è stato un deterioramento, in questo senso, del concetto di scrittura popolare. Abbiamo detto che cosa è significato per la generazione degli Anni Sessanta e Settanta uno scrittore come Pasolini, abbiamo detto che cosa ha significato per la generazione degli Anni Ottanta una figura come Tondelli: punti di riferimento che oggi in Italia mancano, di scrittori che facciano in un certo modo da fratelli maggiori, personalità così generose, così capaci di esibire se stessi come corpo, come persone capaci di darsi in tutto per tutto alla convinzione che con un mezzo come la letteratura si possa davvero incidere nel mondo delle idee e al paesaggio sociale italiano. Pertanto, rispondendo così in maniera molto grezza, ad Andrea, quando sento parlare di orgoglio della residualità, io un po’ freno, perché ad un certo punto ho smesso di scrivere poesia, perché mi sono accorto che la poesia non era letta. E uno scrittore vuole essere letto e deve ambire ad essere letto. Ho smesso di scrivere poesia e ho cercato di capire qual era la scrittura che poteva essere letta, che poteva arrivare a più persone possibili senza naturalmente tradirmi. Ho cominciato a capire quali erano i problemi della poesia. C’è un saggio del Novanta che ho letto qualche anno fa, di Dana Gioia, che faceva il punto sui problemi della poesia americana. E tracciava un quadro clinico che si poteva adattare ad ogni situazione della poesia nel mondo oggi: diceva che la poesia molto spesso è confinata a piccoli gruppi, a rivistine, alle università, non c’è confronto con un pubblico popolare, i libri vendono pochissimo.
Alla fine però abbozzava anche delle soluzioni, fondamentalmente le più ovvie che possono venire in mente: sforzarsi di far sì che la poesia, che non è un residuato culturale, che cioè non ha una funzione museale, abbia una sua forza di incidere. Diceva: «Proviamo a parlare delle cose che abbiamo intorno, senza crearci alibi di settarismo, proviamo a confrontarci con le tradizioni metriche che ci sono date, proviamo a fare letture pubbliche, a stimolare le università perché chi va all’università venga a contatto con la poesia contemporanea». Tutto ciò è molto banale come soluzione. Io lavoro anche alla Minimum Fax. Mi trovo dinanzi una persona che mi dice: «La poesia non la legge nessuno, voi non la pubblicate, siete insensibili alla poesia». Io rispondo: «Tu quanti libri di poesia italiana hai comprato l’anno scorso?» E spesso nessuno compra libri di poesia. «Per capire cosa si può fare oggi, prova a confrontarti con la tua generazione, prova a vedere cosa stanno facendo tutti gli altri, prova a capire se sta già facendo qualcuno la tua stessa cosa». Ad un certo punto ho cominciato a vedere che ci sono dei poeti oggi in Italia che cercano di fare un discorso non settario della poesia. E non soltanto in Italia.
Una figura per me fondamentale in questo senso, che è riuscita a fare una poesia popolare, che arriva sulle prime pagine dei giornali come ci arrivava la poesia di Pasolini, è Tony Harrison, poeta inglese, nato a Leeds nel 1936, che ha scritto sulla carta di identità proprio “poeta” e che viene chiamato come editorialista da vari giornali inglesi per scrivere poesie che possano parlare della diffusione dell’Aids a New York o della guerra dei Balcani, usando strutture metriche estremamente rigide, sonetti, quartine ecc. Quando ho letto per la prima volta Tony Harrison, mi sono trovato di fronte un tipo di poesia che faceva piazza pulita rispetto a tutte le forme di non ascolto da parte del pubblico popolare e non attenzione da parte della critica. E mi sono detto: «Si può fare». È come quando in una storia d’amore uno sta per due anni a parlare di problemi insolubili e poi ad un certo punto dice: «Basta, cambiamo e proviamo a fare qualcosa di nuovo». Da Tony Harrison ho cominciato a scoprire altri poeti, anglofoni, dove c’è una tradizione diversa, molto spesso antilirica, antiermetica, che pesa molto meno del concetto di lirica in Italia, dove, per come stanno le cose, c’è un mondo nel migliore dei casi accademico, elitario, ristretto a circoli e riviste, nel peggiore dei casi fatto dalle antologie a pagamento o dai libri di poesie di Licio Gelli o Carmine di Lauro. Quando, per esempio, lessi il libro di Galaverni, che diceva che ci sono due grandi poeti oggi in Europa, facendo il nome di Simon Armitage e Durs Grünbein, effettivamente partendo da lì capivo che tipo di rapporto avevano questi poeti con il mondo che stavano vivendo. Simon Armitage è un grandissimo poeta che per campare fa anche il copywriter: ha un’idea precisissima, analitica, del modo in cui funziona oggi la comunicazione, quali sono oggi le retoriche. E non è che piega la sua poesia a quelle retoriche per renderla vendibile, ma fa sua quelle retoriche, le introietta, le fa agire, le rielabora. E sono quelle retoriche che hanno una coerenza oggi molto precisa; il mondo dell’informazione ha una forma sistematica abbastanza definita, per cui ritagliarsi un ruolo da principio critico interno ha un suo valore. In Italia ci sono poeti che tentano di fare la stessa cosa, così fondamentali, così centrali per me. Per esempio, uno di questi poeti è sicuramente Aldo Nove. Nove fa sue, incarna quelle che sono le retoriche della comunicazione di massa e rompe, devasta il discorso poetico e la sua struttura, tentando di togliergli ogni forma dell’autodifesa dell’elitarismo e dell’autoritarietà. Per finire questo discorso sulla poesia: quando ho smesso di scrivere poesia, mi sono detto: «Io voglio scrivere una poesia che possa stare sulle prime pagine dei giornali, che possa avere la stessa valenza retorica di un libro di Oriana Fallaci o di un corsivo di Adriano Sofri, che possa avere la stessa forza cognitiva ed emozionale della letteratura, che non si privi di quei diritti che la letteratura ha e sono quelli di essere popolare ed arrivare a chiunque». E questo è quello che posso dire come risposta allo spunto.
Rispetto alle generazioni (e soprattutto per quanto riguarda la narrativa) ho notato questo. Nel 2004 ho curato un’antologia di narratori con Nicola Lagioia, in cui dicevamo con uno spirito un po’ tondelliano: raccogliamo quelli che, secondo noi, sono gli esempi migliori di quella generazione che arriva a quarant’anni, quindi non una generazione giovanilista, ma scrittori che sono tra l’essere affermato e l’essere promesse, certamente le voci più vitali, e proviamo a metterli in un’antologia in cui cerchino di parlarci di quello che è per loro l’Italia nel 2003 o nel 2004. Volevo insomma che gli scrittori provassero a fare un discorso di questo tipo. La risposta al nostro progetto è stata per me molto interessante, parlo delle reazioni di chi l’ha letto. La maggior parte dei critici della generazione precedente ha trovato i testi privi di una prospettiva storica, quindi in un certo modo li ha accusati di dilettantismo storico. Ora, questo giudizio è, secondo me, un grande abbaglio, innanzi tutto perché la generazione dei trentenni e quarantenni è la prima generazione che è nata con la televisione già in casa e quindi ha vissuto il suo tempo attraverso forme di rappresentazione spesso distorta o perversa: non ha vissuto la storia ma una rappresentazione della storia, così che la loro fedeltà al loro tempo è raccontare la rappresentazione della storia, mischiare il terrorismo con le pubblicità delle merendine o un immaginario di astronauti con la devastazione della droga degli Anni Ottanta. Questa cosa, che in questi scrittori si vede, è un dato che non si può tralasciare ed è, secondo me, la forza di questi autori. Ed è anche una forma di rielaborazione, rovesciamento di una filologia rispetto alla storia. In secondo luogo, parte della critica della generazione precedente, gli anziani, ha spesso stigmatizzato quegli scrittori trenta, quarantenni, proprio dal punto di vista della lingua, per esempio, l’articolo di Citati. In lui, se all’inizio vedevo della buona fede, insomma una sorta di intransigenza un po’ nazista per vedere quali scrittori si reggevano con le loro forze e quali no, dopo un po’ non vi ho più visto nemmeno buona fede. Dopo un po’ ho cominciato a vederci solo più la miopia dei critici che hanno più voce nel panorama italiano oggi (per esempio, nelle pagine di cultura dei grandi giornali), una grossa miopia pregna semplicemente della necessità di autolegittimarsi in un mercato culturale sempre più stretto, perché i fondi universitari sono sempre più esigui. Scrivere sui giornali liberamente e non su commissione degli uffici stampa è sempre più difficile. I soldi che vengono investiti nell’editoria sono sempre meno e quindi accreditarsi come voce autorevole ti permette di mantenerti il posto e al di là di questo, è a mio parere, il miglior modo di fare è capire quali sono le regole del mondo editoriale e cercare di rovesciarle.
Ho detto che bisogna cercare di fare poesia popolare e il mio tentativo di scrittore oggi, forse fallimentare, è di scrivere un best-seller in una lingua che non sia una lingua piatta: pensare che la letteratura di ricerca, di valore possa vendere milioni di copie e avere un’incisività che arrivi allo stesso pubblico a cui arriva la Fallaci. E dico questa cosa perché ad un certo punto mia madre s’è comprata Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci. Mia madre ha fatto l’insegnante di Lettere e mi ha trasmesso l’amore per la letteratura, è una persona di Sinistra e, quando le ho visto in mano il libro della Fallaci e ha detto a me: «In fondo non dice tutte cose sbagliate», io ho detto: «C’è un limite a questa cosa». Non posso essere elitario, ma devo far arrivare a mia madre altre cose, voglio che mia madre legga altri libri e, se avrò dei nipoti, non voglio che lei trasmetta loro l’amore per la letteratura attraverso Oriana Fallaci.
Marco Merlin: Ringrazio anche Christian, anche perché è arrivata la provocazione che mi aspettavo. Si parla cioè della maturazione che deve avere lo scrittore andando verso il mercato. E “mercato” è una parola pericolosa, un po’ scottante, che è stata richiamata e che può essere utile per mettere a confronto scrittori in poesia e scrittori in narrativa. Il “mercato” sembra essere il luogo sempre più deputato al farsi del canone, perché l’autorevolezza di altre voci va sempre più scemando. Si nota subito che quando un narratore pone questi problemi va a stuzzicare, giustamente, il poeta verso la dimensione dell’essere letto, dell’aprirsi al pubblico. Il narratore, invece, fa sempre riferimento a questo aspetto, molto interessante e proficuo, molto internazionale, molto americano. E qualche volta credo che il poeta senta in questo una difficoltà proprio linguistica, perché è inabissato nel linguaggio e nella sua stratificazione storica e per la nostra situazione italiana penso che questa non sia cosa da poco. L’Italia, che ha avuto Dante Alighieri, ha una lingua estremamente letteraria, congelata, libresca, soffre dentro questo confronto. Speriamo che sia una sofferenza produttiva, che porti a scrivere qualcosa di sempre più condivisibile. È l’annoso problema della visibilità della poesia, purché rimanga sempre poesia e non perda le sue radici profonde nel linguaggio. Noto peraltro che, se ci spostiamo dal termine “mercato” e parliamo della “popolarità”, andiamo a toccare un tema molto dibattuto in questi giorni.
Cedo ora la parola a Franco Buffoni, che ama far partire la sua bibliografia con i suoi ultimi libri, a partire da Suora carmelitana e altri racconti in versi, pubblicato da Guanda nel 1997, ai più recenti libri di poesia Il profilo del Rosa (Mondadori 2000), Theios (Interlinea 2001). Non possiamo non rammentare poi la sua funzione di lancio di giovani autori attraverso la serie di Quaderni di poesia contemporanea in questo caso italiana, anche se poi si occupa di comparatistica e, quindi, non guarda soltanto al nostro contesto: mi sembra, quindi, la persona adatta per entrare in queste dinamiche.
Franco Buffoni: Caro Marco, mi ero preparato un discorso in dialogo con il tuo libro sui Poeti nel limbo, ma le cose dette fino ad ora mi costringono a mutare registro. Mi hanno molto colpito i richiami a Pasolini e Tondelli, fatti rispettivamente da Cortellessa e Galaverni. Io non credo, Andrea, che la morte di Pasolini sia stata così eclatante perché Pasolini era poeta. Proviamo a pensare ad altri grandi poeti coetanei di Pasolini, a Zanzotto o a Giudici per esempio: se fossero venuti meno loro, la loro scomparsa non avrebbe avuto tutta quella eco. Pasolini era il potenziale di scandalo che si portava appresso: era il regista, il polemista, l’uomo a tutto tondo. Certo, era diventato tutto questo perché era poeta, ma questo lo sappiamo noi: la sua immagina pubblica non era quella del poeta.
La stessa cosa, è chiaro, vale per Tondelli, il quale scrisse poesie giovanili, poi si volse alla narrativa. E qui, ammetto, è stato molto poetico da parte di Galaverni vedere nella morte di Tondelli ciò a cui poi si è allacciato Marco e cioè se la poesia “entra” in una fase successiva a quella della giovinezza. Io fui molto amico di Tondelli nella sua fase milanese; lo conobbi poco dopo quella foto dell’‘80 alla quale Roberto faceva riferimento. Anche in Tondelli, la valenza letteraria in senso stretto era sostenuta da una forte potenzialità di scandalo. La parola omosessualità nessuno l’ha pronunciata fino ad ora, ma è chiaro che fa da denominatore comune a questi due personaggi, che avete menzionato voi in questo dibattito sulla poesia e non io. E quindi mi sento in obbligo di continuare la vostra riflessione. Credo che il discorso sulle tematiche sia fondamentale, cioè di che cosa parlavano. Questi due artisti avevano bisogno di parlare di una cosa che urgeva dentro di loro: la loro omosessualità, che era stato il filtro attraverso il quale da adolescenti erano stati costretti a conoscersi e a conoscere il mondo. Da artisti quali erano trasformarono questa loro ricerca in arte, ma l’omosessualità rimase sempre la loro grande tematica con la T maiuscola. Se non parliamo di omosessualità, non capiamo come mai siano diventati rispettivamente Pasolini e Tondelli. Poi, è evidente, sei un uomo intelligente, sei un artista, canalizzi questa necessità, la mimetizzi in tanti modi e dunque finisci con l’apparire intellettuale e scrittore e poeta a tutto tondo, in grado di occuparti anche di molte altri argomenti. Ma, se a distanza di tempo noi analizziamo questo “tutto tondo” scordandoci quella T maiuscola, credo che commettiamo un grave errore di impostazione interpretativa.
Per quanto invece riguarda Tony Harrison, citato da Raimo come termine di raffronto per i poeti italiani, vorrei riflettere un momento sulla questione della lingua. E questo vale anche per Seamus Heaney. Su Simon Armitage avrei invece qualche riserva. Per “questione della lingua” intendo riferirmi al vantaggio di possedere quella lingua madre, che rende inconfrontabile il lavoro, per esempio di Harrison, con quello dei poeti italiani. In breve, qual è l’incomparabile vantaggio che Tony Harrison si trova ad avere rispetto a noi? È l’estrema duttilità della lingua inglese che può essere usata in poesia come fosse prosa. Sapeste da quanti decenni ci sto provando con l’italiano! Ma il poeta italiano che tenta di usare allo stesso modo la lingua italiana si scontra con otto secoli di poesia letteraria scritta, cartacea. In sostanza si accorge di possedere una lingua che è tutto fuorché quel vettore diretto che invece è la lingua inglese. Parlo della mia esperienza e, quindi, di un poeta nato in area gallo-celtica: intravidi tre possibilità schiudermisi dinanzi durante la mia formazione, nella seconda metà degli Anni Sessanta e Settanta, quando cominciai a scrivere e a pubblicare. Avevo un’estrema povertà lessicale perché non ero toscano: i miei nonni erano totalmente dialettofoni; mia madre, pur essendo una maestra elementare, molto spesso traduceva dal dialetto parlando in italiano e dunque l’italiano che io appresi era legnoso e povero di lessico. Qual era la differenza tra me e dei ragazzi toscani miei coetanei? I ragazzi toscani non si rendevano conto di quando passavano dal registro del dialetto a quello dell’italiano, per la semplice ragione che essendo quei registri molto collimanti, quasi sovrapposti, il passaggio dall’uno all’altro per loro non era avvertibile. Tutte le metafore che hanno a che fare con il mondo contadino, con il tempo atmosferico, sono dialettali. Un lombardo distingue nettamente i due registri: sa bene che cosa può esprimere in dialetto e, per contro, quanto sia ristretto il suo lessico quando si trova a scrivere o a parlare in pubblico. Voglio dire che, se devo esprimermi su un tavolo, per dire che è sporco, io dico che è sporco, mentre un toscano potrà dire che è sudicio, sporco, o ricorrere anche a molti altri specifici aggettivi: è questo che arricchisce, che colora una lingua.
Ecco tre vie che io allora mi trovai dinanzi Il pastiche: sono povero di lessico e quindi devo far esplodere la lingua italiana. La mia prima tesi di laurea fu su Joyce, il mio scrittore preferito allora era Gadda, che appunto cercava di far esplodere l’italiano e qui torno al discorso di Raimo: ondeggiavo tra l’Arbasino dal Super Eliogabalo, Joyce rimasticato, Pound, Eliot e Gadda: modernismo e citazioni. Far esplodere il linguaggio con immissione di espressioni nelle lingue straniere. Sullo sfondo il “manifesto” di Giuliani, i cosiddetti Novissimi.
La seconda via era quella indicata da Franco Loi, consistente nel paziente recupero filologico della lingua materna, cioè del dialetto. Altri l’hanno seguita. Io ne ho lasciata qualche traccia nel mio quaderno di traduzioni Songs of Spring, uscito nel 1999, traducendo in dialetto milanese i poeti settecenteschi scozzesi Robert Fergusson e Alan Ramsay.
La terza via, che è poi quella che ho seguito, ma che non mi permetterà mai di usare l’italiano come Harrison usa l’inglese (commentando in poesia sui giornali i fatti di cronaca, argomentando e polemizzando in versi) è quella che ha scelto, per citare l’esempio più alto, Vittorio Sereni. Consistente nel ridurre ulteriormente lo spettro lessicale: provate a mettere nell’elaboratore tutta l’opera in versi di Sereni e scoprirete quanto è povero il suo lessico. Se egli deve descrivere la primavera che sta arrivando dice: «Sui tavoli le bevande si fanno più chiare, / l’inverno sta per andare di là». È chiaro che il vino rosso cede il posto al vino bianco: l’inverno sta per andare di là; il linguaggio è di una rozzezza e di una limitatezza lessicale insuperabili e pure l’immagine è indelebile, il verso si stampa per l’emozione nella memoria. Pensate a Luzi, a Bigongiari, a Parronchi, a quante quartine in perfetti endecasillabi avrebbero scritto per descrivere l’arrivo della primavera.
La scelta mia quasi obbligata dunque fu questa. Però, questo mio povero lessico vive e io povero poeta della lingua italiana confido nel sottotono e nel sopratono, ponendomi sempre un poco sopra o un poco sotto la partitura. Certo non posso avere la duttilità di Tony Harrison con la lingua inglese che gli permette di essere in prima pagina (in poesia) sui giornali. E questo è il limite di un poeta come me di estrazione galloceltica, ma che hanno anche molti altri poeti italiani, incapaci di scuotersi di dosso questi otto secoli di tradizione letteraria scritta. Chissà, ed è il mio auspicio, magari il figlio di un magrebino, che oggi frequenta le scuole in Italia e contemporaneamente in casa assorbe una cultura altra e suoni e sapori altri, ma intanto impara a leggere Tasso e Leopardi, chissà che non sia lui il poeta italiano in grado di farci uscire dall’impasse.
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