La sfida delle ultime generazioni del ‘900 (Piccini)
Dalle strettoie polemiche ad una difficile nuova libertà: la sfida delle ultime generazioni poetiche del Novecento
di Daniele Piccini
È almeno a partire dagli Anni Settanta che gli autori di poesia in Italia si trovano a gestire, dopo la crisi rappresentata dal fenomeno dell’Avanguardia, una sorta di estrema difficoltà nel reperire una via propria, autonoma e individuale, nel quadro delle poetiche costituite. Questi, mentre sono chiamati a far proprio il corso vincente del Novecento italiano, devono anche metabolizzare la sua messa in questione e la sua contestazione da più punti di vista.
Il periodo di rottura e di estrema vitalità costituito dalla metà del secolo (da una parte «Officina», dall’altra il perdurare del lavoro della Terza Generazione di derivazione ermetica, ormai lanciata verso rotte affatto nuove, e ancora il sorgere della radicale contestazione sanguinetiana con infine gli strascichi di una proposta neorealistica e populista) ha prodotto una selva di possibilità operative, ha mescolato le carte delle opzioni formali, creando una situazione di contrapposizione fra poetiche “forti” (si pensi alla polemica Luzi-Sanguineti del ’54 o a quella Sanguineti-Pasolini del ’57). Mentre la temperie neoavanguardistica non sembra aver influito più di tanto (se non a livello di una intensificazione a ventaglio delle possibilità stilistico-percettive) sull’opera degli autori già maturi (penso alla generazione di Luzi, ma anche a quella di Erba e Zanzotto, così come a individui significativi di quella successiva quali Raboni e Giudici), essa ha invece costituito una specie di scandalo, cioè di pietra d’inciampo per le generazioni allora in via di formazione. La forza inibitoria di quella proposta dissolutiva e insieme formalistica, tecnica (come per una riduzione della poesia a téchne linguistico-ideologica) ha in una misura non trascurabile influenzato i poeti che si sono trovati ad operare dopo quel fatto scardinante. Da una parte c’è stata l’adesione a quella accademizzazione antigrammaticale (il proliferante epigonismo neoavanguardista fotografato dall’antologia Il pubblico della poesia nel 1975), dall’altra l’inevitabile reazione ad essa. Come tutte le “reazioni”, anche quella degli avversari della Neoavanguardia ha finito per lasciarsi coinvolgere dalla polemica e dall’idiosincrasia, a volte eccedendo nella sua contro-proposta. Si spiega così la costituzione, ad esempio, di quella matrice insieme simbolistica e antimoderna che si è coagulata nella rivista «Niebo» (1977-1980), luogo di incontro da cui si sono dipartite diverse delle carriere più rilevanti dei nati negli Anni Cinquanta, così come da un innesto di Pasolini nell’alveo della linea lombarda sono scaturite altre posizioni, pure ugualmente “di nicchia” e assestate in una posizione difensiva, al limite conservativa, di contro all’appiattimento della poesia sull’azione ideologica come propagandata da una certa parte del movimento neoavanguardistico.
La poesia di un De Angelis non meno che di un Mussapi, di un Conte o di un Ceni (ma bisognerebbe dire anche di un Cucchi) non si capirebbe appieno se non nel rapporto di tesi-antitesi con quel che ha preceduto, insomma nel raffronto con il tentativo di dogmatizzare e normalizzare il corso poetico compiuto dalla linea vincente che essi debbono affrontare. Così, mentre i grandi “vecchi” del Novecento continuano ad esplorare ogni possibile risorsa conoscitiva e stilistica, i più giovani operatori sono in qualche misura inibiti nella propria libertà di manovra dai feticci polemici che inevitabilmente portano con sé e dalle pastoie di un dibattito ideologico pieno di inciampi. I poeti nati negli Anni Sessanta si sono trovati a compiere la propria maturazione nel clima generale di una frammentazione forse mai prima sperimentata e, insieme, sotto la comune cappa di una forte sfiducia nella poesia, nella sua capacità conoscitiva e comunicativa insieme. Direi che le sorti di questa generazione si giocano nella capacità di assorbire e smaltire la crisi di ogni assestato punto di riferimento e d’altra parte di mettersi in rapporto vitale con tutta o la più ampia fetta possibile della tradizione, conditio sine qua non per cercare di farla rivivere in nuove forme, di spingerla ad altri esiti, non patendo le partigianerie ereditate dai fratelli maggiori.
I poeti della leva immediatamente successiva, nati negli Anni Settanta, hanno rispetto ai loro compagni di strada appena più maturi qualche vantaggio e qualche mutata condizione di fondo, che può spiegarne gli orientamenti. Il clima delle contrapposizioni fra poetiche è in buona misura estinto. Direi che si fa strada un procedere pragmatico, definitivamente antideologico e antidogmatico. Viene meno anche un altro contrassegno a lungo marchiante l’esperienza poetica dei decenni precedenti: la vergogna o, per contraddizione ad essa, l’esibizione della propria condizione di “poeti”. Una sorta di nuova naturalezza entra nei versi di questa generazione, che non deve più sorpassare fili spinati e ostacoli per giungere a provare la sonorità della propria voce. Resta intatta la frammentazione delle ipotesi operative, delle molteplici concezioni possibili di tradizione, mentre addirittura si intensifica la percezione della crisi epocale dello strumento poetico.
In questa prospettiva si sviluppano alcune delle più interessanti di queste giovinezze poetiche, in cui vorrei cogliere un ulteriore dato in comune (sia pure in negativo): l’assenza quasi totale di un fenomeno altrove dilagante, sotto svariate forme, quello del postmoderno o ancora del revival o della mercificazione (penso ai problemi dei nuovi narratori coinvolti nella strettoia del “genere” o nella problematica del mercato e della vendibilità, che provoca artefazione e prodotti “di fabbrica”). In questa difficile ed esaltante nuova libertà, sulla quale neanche i più grandi maestri del secolo (da Montale a Luzi a Bertolucci) possono fare aggio in modo castrante e schiacciante, si gioca il destino della nostra generazione.
(da “Atelier” 34)
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