Nessuno è innocente
(L’opera scelta come copertina è di Francesco Manenti.
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La donna che amo non ama la vita.
Un’angoscia presente, il desiderio di un figlio, la casta
sfrontatezza di uno scroscio di vento
passano ferme al suo affanno, al mio tremito
di madre e di foglia. Siamo una nidiata di topi.
La donna che amo non è la vita che amo.
Cadono piano, interiori, balenanti cascate di gigli
sul chiamarla mia madre, mia doglia.
Andrea Raos
Vari spunti di riflessione accompagnano la lettura di Aspettami, dice. Poesie 1992-2002 (Pieraldo Editore 2003), raccolta di Andrea Raos. Anzitutto, si pensa alla pazienza che serve a un poeta, tanto più se giovane (Raos è nato nel 1968), per approdare a un’opera compiuta. Non è solo una questione di tempi di attesa imposti dagli editori, ma di esperienze di vita, di letture, di tentativi espressivi che si devono attraversare. Quante larve benedette si celano dietro a un libro! Finché la fatica diviene un addestramento al sacrificio, che costringe lo scrittore a un confronto con sé stesso al di là delle mode della sua epoca.
Un secondo aspetto si ricollega al primo. Se è vero che ogni scelta stilistica consapevole presuppone la verifica delle opzioni scartate, ogni cifra espressiva nasce da una fucina furibonda. Nel libro di cui ci occupiamo, la sperimentazione è esibita dalle varie forme adottate: si passa dalle strutture chiuse (il sonetto, la sestina!) a quelle più libere, fino alla sequenza di frammenti. Ma la regola dell’esercizio vale anche laddove si manifesta uno stile uniforme. Il primo desiderio di un autore è di qualificare la propria voce, di rendersi originale (ma già incombe il desiderio successivo, che Seamus Heaney definisce «inquietante ed eccitante: andare oltre se stesso»…).
Un altro spunto implicito nel libro lo raccolgo dall’introduzione di Franco Buffoni. Di fronte ai sonetti dedicati al dramma dell’ex Jugoslavia, s’impongono le forche caudine di due domande semplici e tremende: quale poeta, in quanto uomo, non avverte il proprio sdegno di fronte alla storia e l’impulso a esprimerlo? Ma anche: quale poeta non capirà il cinismo implicito nel volerne trarre un’opera d’arte? La conclusione è che tutti i poeti, volenti o nolenti, sono civili, ma qualcuno è tanto gigione che si compiace di esserlo; pochi invece sono scrittori testimoni in prima persona di fatti atroci: essi acquistano per ciò stesso autorevolezza, per quanto debbano fare i conti con i medesimi scrupoli degli altri.
«Dobbiamo distruggere o creare? tu che pensi?», recita un verso del libro. Io penso che non esista reale creazione che non comporti distruzione, che chi si sente innocente è destinato a non trovare lettori.
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