Un passo oltre l’inizio
Chi soffre non è profondo
M. De Angelis
Ricapitoliamo, ancora una volta, la situazione.
I poeti non credono nella parola, ma nel prestigio editoriale.
Del resto, non li legge più nessuno, e non passa stagione senza sentire aria di chiusura di una delle residue collane prestigiose del Paese. I narratori, invece, siccome possono ambire al successo, scrivono per lo più pappette premasticate, genere per genere, attenti alle ultimissime tendenze. Nelle università non c’è ricerca sul contemporaneo, i pochi critici autorevoli nostrani non possiedono gli strumenti e la voglia per seguire le nuove proposte. E le nuove proposte sono legione, una schiera diversificata a 360 gradi: meglio liquidarla allora con ispezioni sommarie, con cataloghi e antologie; meglio addomesticarla nel giovanilismo. I direttori delle collane non hanno reali gusti e progetti, sanno che la poesia è una minima valvola di sfogo per qualche contentino: devono pur rendere conto anche loro alle ragioni del mercato, per quanto a malincuore. Se poi sono poeti, vedono nella poesia un orticello personale, buono per coltivare gli amici. Non ci sono battaglie da combattere, se non quelle che servono al bla bla giornalistico: scosse elettriche per rianimare il morente. Siamo saturi a tutti i livelli. È il tempo della povertà, si dice tra i poeti filosofi, perché non abbiamo nemmeno la spinta drammatica della storia a dettarci parole tremende e necessarie. È il tempo del benessere, a giudicare dagli inviti che ci riempiono l’account quotidianamente. Non siamo più in grado di capire il nostro stato di totale solitudine, inebetiti dall’elenco esorbitante che intasa le rubriche telefoniche. Del resto, l’Italia pullula di premi, manifestazioni, festival, letture, poetry slam, camminar poetando e quant’altro.
Il paesaggio, verrebbe da dire, è desolante, novecentesco. E invece no, è magnifico, come ogni tempo è insieme benedetto e maledetto, perché proprio qui si parrà la nostra nobilitate. Basta capirlo e, soprattutto, accettarlo. Verremo tutti beatamente falciati come erba secca dalla parola precisa che, vivaddio, prima o poi ci squadernerà l’anima (e magari è già stata pronunciata e non ce ne siamo accorti, persi nei nostri battibecchi, sordi ai reali accadimenti). Bisogna allora evitare ogni consolazione ed esporci alle contraddizioni dell’epoca, forti della nostra fragilità. Se il re è nudo, basterà ascoltare i semplici. Se le parole veritiere non trovano orecchi pronti, il deserto manterrà salda la voce.
Con questo atteggiamento guardingo, perciò, continuiamo a raccogliere, festosi, le prime gocce che stanno filtrando dalla diga. Le eccezioni esistono. Siamo all’inizio di tutto. Ciascuno riordini i talenti. Nulla verrà risparmiato dall’indifferenza del mondo. Consapevoli, cerchiamoci, guardiamoci negli occhi, stringiamoci l’un con l’altro dentro le nostre trincee per darci coraggio, ma al momento dell’assalto nessuna pietà dovrà frenarci. Ognuno sarà solo davanti al destino, senza ordini e mappe certe.
E il momento dell’assalto è sempre adesso, con questa pagina bianca qui davanti, sulla quale potremmo morire, perdere amici o custodire la vita di chi, altrove, ignaro di tutto, muove i primi passi sull’erba, apprende a compitare, studia la forma di una nuvola come fosse l’apparizione di un dio.
L’importante, tuttavia, è compiere il balzo, liberarci dalla paralisi del cominciamento infinito, per assumerci per davvero e fino in fondo le nostre responsabilità.
È terribile questo silenzio da illuminare, è solo nostro.
Questa consapevolezza non sarà mai un alibi.
Con chi fa i conti, dunque, il poeta?
Con la propria coscienza, come tutti gli uomini. Con il proprio/i propri interlocutore/i (quelli veri, i destinatari della sua parola, quelli che ne condividono il destino). Con l’assoluto.
Ci ho riflettuto.
A me pare che il poeta abbia come interlocutore la poesia stessa. Non mi riferisco a un atteggiamento solipsisitoco mi auguro. Provo a spiegarmi.
Quando si scrive ci si riferisce all’Altro che può eventualmente avere un nome cognome: ma anche quando così fosse a me pare sia un rivestimento necessario, ovvero un significante. Si parlava del padre ma quando parliamo del padre non è mai il padre reale, ma il suo simbolo, per esempio. Se è così, l’incontro con l’Altro è necessariamente impossibile: in fondo mi pare che una poesia, il suo farsi, sia un incontro con l’assenza, una sorta di lutto perpetuo: restare tesi sul bordo immangiabile, indigeribile dell’Altro. Si tratta di un fallimento inevitabile, un prodotto ineludibile del nostro essere uomini e quindi scissi. Il prodotto diacronico tra la propria storia personale e il linguaggio. Non credo a un processo unitario, a uno stato originale di partenza o meno ancora a uno stato unitario di arrivo. Solo in questo senso mi spiego che l’inizio, come ho trovato scritto, è irraggiungibile. Sulla pagina l’incontro è letteralmente impossibile esattamente come nell’inafferabilità che subiamo – e allo stesso modo infliggiamo ad altri, agli occhi dei quali incarniamo immagini che si sovrastano – quando cerchiamo di possedere l’Altro, o di sfamare una volta per tutte il desiderio.
Chiamamiomolo Assoluto, chiamiamola coscienza: l’oggetto sfugge inesorabile, rimane davanti a noi, in una sorta di vita tangenziale, ai bordi di una visione periferica ( se dovessi usare un’immagine userei il movimento dei fosfeni che galleggiano sulla retina: quei bastoncini vetrosi che fluttuano durante lo sguardo, i quali non impediscono la visione ma la disturbano: nel momento stesso in cui occludiamo la visione che sta al di là di questi per metterli a fuoco, questi si spostano, sincronicamente al movimento oculare, alla nostra volontà). Il desiderio di appetito viene costantemente rinviato, in un qualche modo tradito dalle premesse che lo generarono, chissà quando, forse da quando siamo diventati esseri desideranti…
Se così fosse, una poesia ( o il fare poesia, non saprei), scaturita dall’urgenza che spinge a dare ordine a delle parole che si calamitano ( Montale lo diceva più o meno così mi pare), una poesia dicevo è dialogo con la morte che ci sfugge sotto altra forma, non da significato a significato ( questo a conferma di quanto hai detto che una poesia non deve o non dovrebbe essere un pensiero poeticizzato) ma da significante a significante. Se arrivassimo a intrappolare “il senso ultimo” “l’ultima parola” la “legge definitiva” etc intrappoleremmo la morte, forse l’Altro per eccellenza, la realtà alla stato puro, e l’umano, in quel punto cessa perché cessa il linguaggio.
Il senso dunque mi pare migrare da un significante ad un altro, in una catena di rimandi pressoché infiniti o lunghi tanto quanto si riesca a stare al passo con la propria capacità di seguirne gli echi e le vie di fuga. Una poesia potrebbe essere la testimonianza di questo: un significante che sia appena stato sfiorato, vivificato da un senso, subito però evacuato, fuggito non appena il significante venga esaurito e formalizzato sulla pagina. Il senso di una poesia, come hai scritto a suo tempo per come io l’ho capito, magari travisando, ritengo risieda in questo: rileggendo una poesia (non so quale, alcune, non tutte, a volte e non sempre) non capiamo cosa l’abbia resa carica di senso, ma qualcosa di importante è accaduto, diciamo infatti se cerchiamo di spiegarla che il senso letterale ci sfugge, e quando qualcuno è in grado di farlo e ci prova, in un qualche modo la poesia viene svilita ( forse, o forse rimane incolume) e comunque mai e poi mai la poesia, ( quella o una silloge) viene completamente consumata. La spiegazione perde qualcosa per strada e quel che perde è proprio l’oggetto mancante che la poesia insegue… In fondo mi pare che questa inconsumabilità sia il segno specifico del nostro essere nel linguaggio, il quale pre esistendoci, fondandoci, nel prima e nel dopo, risulta, per quanto logicamente finito, per noi infinito. In questo infinto di linguaggio il poeta scrive. Il suo materiale ( oggetti, sostantivi, parti del corpo, alcuni verbi, alcune funzioni) che ha eletto a elementi che gli occorrono per potervisi orientare sono significanti. Teoricamente potrebbero essere altri e altri ancora.
Dunque: il poeta per me fa i conti con la catena dei significanti possibili e li segue, e qualora riuscisse a fissarne uno o più di uno, ( come una serie di trappole disposte da un cacciatore che abbia fame) il senso certamente sarà sfuggito, sfuggirà, ma magari ne viene intrappolato il suo fantasma: la sua impronta fossile, simile all’ombra delle persone rimaste stampate sui muri di Hiroshima nell’istante in cui il lampo sfolgorò.
Oppure come durante l’osservazione delle particelle subatomiche negli acceleratori: il poeta è in grado, diciamo, a un certo punto, ( il momento di urgenza) di fissare le traiettorie dei significanti e laddove questi collidono fotografare precisamente quanto però è già stato perduto e si trova irrimediabilmente altrove, già Altro. Cristallizza la forma di quanto è già mutato proprio nel momento in cui il nostro sguardo vi si è posato sopra.
Fare i conti con i significanti, non con i significati: per altro esclusi e quando presenti, e spiegati, solitamente banali e quasi ovvi, non capaci di soddisfare. Un mio amico, per nulla interessato alla poesia, mi disse: “max, quando una poesia la capisco è banale, se non la capisco non la capisco e basta” Del resto non è forse vero, anche senza dimostrazione scientifica, che se ci venissero spiegati tutti i segreti della natura resteremmo inappagati comunque e l’enigma della vita rimarrebbe tale ( questo concetto, per come l’ho capito io almeno, rappresenta l’unico e inaspettato tratto metafisico di Wittgenstein)
Allora la cosa si fa ardua e affascinante: da una parte so che la poesia è solo un tentativo: su un versante si deve abbandonare il bisogno narcisistico di dominare l’universo. Dall’altra, trascinati dal desiderio inappagato, che incessantemente si sposta ora su un significante e ora su un altro, non ci si può che prestare a questo gioco crudele di rinvio e di inseguimento perpetui…capita così con gli oggetti amorosi no?
Quando la lingua aderirà perfettamente al palato, stringendo un vuoto, e questo vuoto ci consegnerà una forma di pace? Forse la risposta è mai: ecco, mi dico che non dovrei averne paura, che il cammino è questo, perché a ben vedere è il cammino che contrassegna l’atto creativo. Al poeta non basta una poesia, al pittore un quadro, a un uomo un solo amore, una sola guerra, una sola meta raggiunta, una sola sconfitta…
Tutto questo, se dovessi – sempre intuitivamente e barbaramente – ridurlo, direi che una poesia non può che essere sempre una metafora: una sostituzione costante di un significante per un altro che dal precedente mutua un senso sfuggito che migra nel successivo che – pur “avvertendolo” COME maggiormente calzante ed esplicativo- a sua volta viene rinviato ancora una volta ( la similitudine, tecnicamente intesa per mezzo del “come” a mio avviso, in poesia, è un errore semantico o quanto meno una ridondanza oscena).
Parole e termini sicuramente sono sbagliati o usati impropriamente, forse. Sono certamente andato “fuori tema” …se c’è qualcosa qui dentro che abbia un minimo di senso bene, se no si cancella, che è uguale. Grazie.
Non mi sembra che tu sia andato fuori tema, anche se, ovviamente, su molti termini bisognerebbe intendersi. Ma direi che concordo in tutto.
Sottolineo che questo ragionamento è valido per l’uomo in generale, per tutti gli aspetti della sua vita. La poesia (l’arte) sono solo l’intensificazione, la consapevolezza cantata di questa dimensione.