Nel nome del padre
(L’opera scelta come copertina è di Davide Maria Palusa.
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un corpo (non il tuo, ma questo corpo)
è radice del pensiero, ragione
e vanità di linee e di conteggi.
si dice: padre del padre, sostanza
di terra e sale. e a nominarsi forma
si pensa corpo, fibra del pensare
Alessandro Di Prima
Un altro grande tema della poesia è la figura del Padre, punto di fuga che raccoglie una vasta gamma di frequenze simboliche: il rapporto con la tradizione, il problema dell’origine, il senso della libertà dentro la norma, l’interrogazione della fede… Alla sua seconda raccolta poetica (dopo l’apprezzato esordio di Per luce residua), il catanese Alessandro Di Prima – formatosi però a Bologna – ci consegna un Atlante del padre (Book Editore), prendendo di petto questo nodo tematico in tutte le sue valenze.
La fisica approntata in queste pagine ci consegna entro una pronuncia liminare, celaniana: il discorso procede per schegge di dialoghi e di paesaggi, per barlumi mentali. Le parole escono dal bianco della pagina improvvisamente, spesso sotto forma di incisi, senza la maiuscola a fissare il punto esatto di emersione, come a definire un flusso costante, sotteso. I correlativi di tale dimensione sono la luce (spesso una «luce di iodio d’ospedale») e l’acqua (per sua natura tesa all’oltre di un’altra riva invisibile). La struttura di tali elementi è infatti fluida, imprendibile, insieme semplice e complessa, come il dire poetico: «mio padre è luce d’acqua marina / luce pietra che si sfalda e trema». La voce nuota entro questi elementi, cercando la naturalezza della verità («la coda turchese del pesce» colto sempre nell’attimo in cui ci sfugge), ma consapevole dell’insidia del viaggio: «“ogni parola in sé annegata, / o forma d’acqua che risposa, / conserva una grammatica di ghiaccio”».
Il ghiaccio, la neve, l’inverno: ecco gli emblemi, invece, della paralisi. Se il poeta muove i suoi passi sulla riva, si troverà piuttosto a suo agio sulla sabbia: «non mappabile, insidiosa, granulare: non-luogo dello spazio perché ne cancella i segni, e del tempo, a fasi alterne capovolto, come una clessidra che non lascia scampo», dice bene Sara Ventroni, cogliendo il dilemma fondativo della raccolta: «Un atlante in movimento è il paradosso di un atlante».
Lo sguardo del poeta è assetato di una luce residua, che è insieme ventre, caverna minacciosa, elemento in lotta con la chimica del corpo, del suo franare lento: «ancora vivo chiudere lo sguardo / […] / trattenersi sull’orlo della frase / […] / è la lingua comune, la prima stilla / di cecità assoluta».
L’elemento in cui nuota la voce del poeta è qui, ancora, la morte.
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