Moti di nostalgia (2)
Moti di nostalgia nella de/generazione. Lettera aperta a Roberto Galaverni (2/4)
Siamo così giunti alla petrarchizzazione del Novecento. L’ho detto e lo ripeto: quanti poeti bravi, persino belli e disinibiti sul palco, ho ascoltato in questi giorni! Me ne torno infatti a casa con una certa confusione: sono tutti replicanti di una stessa figura. Quante schiette poesie piene di sentimento, ma mica sbrodolose; sempre argute e profonde, dalla geometria magrelliana, dallo spunto deangelisiano, dal piglio buffoniano, e via dicendo. Tutti ben innestati nella salda matrice montaliana (ma del Montale neutralizzato, ovviamente, sia dal punto di vista ideologico sia dal punto di vista linguistico), tutti capaci di mostrare anche un lato sottilmente sperimentale e civile, all’occorrenza.
Ammettilo, non è per questa ragione che ti è bastato trovare qualche stravaganza in Santi per sentirlo emergere rispetto agli altri? Vedi, mescolo anche le generazioni, chiamo ancora una volta in causa la mia (anche a costo di stizzire un amico, il cui libro peraltro anch’io considero fra i cinque o due determinanti all’interno del nostro lavoro, ma per altre ragioni). Forse anche noi eravamo (siamo) così. Mi pare almeno che questa sia la tua sensazione. E qui mi rassegno. Anzi, mi lancio nella rassegna. Penso infatti che i versi di Brullo, di Ielmini, di Rivali, di Ponso, di Cattaneo, di Serragnoli, di Italiano e via dicendo manifestino personalità forti, ben connotate e diverse tra loro. “Sì, però” ti sento constatare, “nessuno ha scritto un libro decisivo”. Il problema è stato in parte abbozzato, a voce, nella discussione. Non esistono libri decisivi, ho osato dire, perché non c’è capacità di ricezione, perché questi libri cadono nel vuoto, perché non c’è più “opera comune”. Non ho avuto modo di chiamarti in causa direttamente intorno a questo tema, ma più volte altri hanno ripremuto l’annoso tasto della mancanza di un discorso critico… Guarda, io a suo tempo avevo apprezzato l’idea che stava alla base del tuo lavoro: Dopo la poesia. C’è un senso di umiltà, in quel riconoscersi un interprete che può parlare solo se esiste la poesia, solo risalendo al meglio l’onda che essa produce, e di avviare un discorso alto solo se alta è la spinta creativa alle spalle. Ma non ti ho mai nascosto anche qualche perplessità, specie quando pretendi che una generazione che ha smesso di dialogare e di combattere (pensa al diverso clima sociale al tempo, invece, degli ultimi libri emblematici dei poeti nuovi) scelga da sé i propri titoli di riferimento. L’onda della poesia deve essere riconosciuta, dal critico, senza attendere che si storicizzi da sé; deve essere compresa ben al di là delle dinamiche sociologiche che potrebbero anche annullarne la portata (del resto, in un mondo così volto ad altro…). Da parte mia, se ardisco credere di essere stato un critico, lo sono stato proprio con un’altra tempra: ho sempre inteso la lettura come un gesto che accompagnava la poesia nel suo farsi, che non viene dopo, ma insieme. Anzi, a tratti ho pensato addirittura che il discorso critico avesse pure una funzione maieutica (soprattutto nei confronti dei miei coetanei, verso i quali non ho intenzione di propormi come l’esperto che li valuta). Ma forse questa è la prova definitiva che sono sempre stato solo un poeta, anche quando mi travestivo da filologo, quindi mi conviene cambiare esempio. E ti ripropongo quello di Contini e di Montale. È stato Montale, in definitiva, a rendere grande Contini, o è accaduto il contrario? (Detto tra parentesi: io conservo il carteggio Eusebio e Trabucco sugli scaffali dei libri che salverei con me, qualora fossi costretto a fuggire con una valigia leggera). In ogni caso, ti invito a rileggere l’introduzione del critico a Ossi di seppia. Nel suo distinguere nei versi del poeta una fase descrittiva e una fase assertiva, lo stava spingendo verso la svolta delle Occasioni, spiegata da Montale nelle celebri parole della sua intervista immaginaria: «sapevo anche allora distinguere tra descrizione e poesia, ma ero consapevole che la poesia non può macinare a vuoto e che non può aversi concentrazione se non dopo diffusione. Non ho detto spreco. […] Temevo che nelle mie vecchie prove quel dualismo fra lirica e commento, fra poesia e preparazione o spinta alla poesia (contrasto che, con sicumera giovanile, un tempo avevo avvertito anche in un Leopardi) persistesse gravemente in me. Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa poi ebbe anche da noi, a un giuoco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta». E riguarda come Contini, nella sua introduzione, interviene in partenza per liberare Montale da un equivoco interpretativo, senza temere di soffermarsi poi nei confronti del poeta stesso, additandogli alcuni pericoli («Pericoli? Ma li diremmo piuttosto: errori»), quasi a indicare una graduatoria, se non fra le singole poesie, fra le sezioni del libro.
In tempi recenti, mi ha colpito un intervento di Cortellessa che si esponeva radicalmente nell’indicare quello che per lui sarebbe un libro decisivo per i nostri anni, Maria di Aldo Nove.
Rieccoci al problema dei libri “decisivi”: questione che hai sollevato proprio tu, se non erro. Questione noiosa, che prenderei volentieri, da poeta, nel suo schietto valore di provocazione. Tuttavia, ragionando criticamente, mi sembra molto mal posta. Intanto, che cos’è un libro decisivo, e quando la decisività di un libro si mostra? La seconda domanda ha una risposta facile: l’importanza di un libro si palesa quando il contesto è in grado di recepirlo e, siccome scoprire l’acqua calda non è un fattore determinante, è quasi scontato ammettere che un libro veramente decisivo non si presenti subito come tale: per essere ri-conosciuto da tutti, per essere assorbito nella sua novità, occorre tempo. Altrimenti, potrebbe essere un bluff, un’opera clamorosamente alla moda. Un libro decisivo in principio sarà capito solo da pochi lungimiranti lettori. Io a Rimini ho detto: i libri decisivi oggi non ci possono essere perché cadono nel vuoto, ovvero perché anche quei pochi lettori lungimiranti non hanno modo di agire sul contesto, non hanno modo di lavorare per permettere all’opera di generare i propri effetti. Così certi potenziali capolavori passeranno inosservati, si disinnescheranno per omertà della critica, sprofonderanno nel sottobosco editoriale, persi anche alla futura memoria. Abortiti dalla tradizione. Persino il motore storico della rancura si è inceppato.
Mi sono poi commosso, e se permetti anche un po’ inorgoglito, quando la stessa Isabella ha abbozzato un elenco dei libri che sono stati importanti, citando praticamente i titoli che ho pubblicato nelle collane della rivista. Recuperando poi, con un colpo di coda, anche Il cielo di Marte, la raccolta che, al di là del suo opinabile valore, ha deciso molte cose: la fine di quella stagione, il mio stesso esilio dalla generazione… Lo so, non è elegante parlare di sé, ma il vuoto intorno ci costringe anche a questo, e resta sempre la legge per cui le autovalutazioni valgono alla fine zero, davanti al testo. Hai mai riflettuto sullo strano caso di quella raccolta? Certi elementi che potevano portarla di per sé all’attenzione generale c’erano: pensa alla sua forma, che mi sembra ancora adesso piuttosto felice nel mostrarsi aperta mentre è perfettamente chiusa, senza lasciarsi catturare dal neometricismo in voga; o pensa alla sua spinta (non so se compiuta) per andare oltre al “male di vivere”, ovvero all’asse portante degli ultimi due secoli, da Leopardi a Montale, ma senza fughe nell’ironia o in rimozioni o ritorni al passato (come nella poetica di certa linea romana). Un libro tanto difficile da etichettare, che veniva appunto additato fin dalla quarta di copertina come un posizionamento sempre intermedio fra tutte le classificazioni in auge… Ma l’aspetto più interessante non è nemmeno legato alla qualità dell’opera. Contestualizza: era l’esordio di un autore che aveva attraversato, primo fra tutti, la misconosciuta generazione precedente (centinaia di autori sommersi letti e studiati libro per libro!), e aveva aperto la frattura generativa dei poeti nati negli anni Settanta; eppure quell’esordio, scritto nei primi anni del Duemila e uscito nel pieno del fervore generazionale, per soprammercato licenziato da un editore importante, viene completamente ignorato… Nessuno ne ha parlato. I pochi che lo hanno fatto si relegano necessariamente nell’angolo delle eccezioni. Il libro è letteralmente caduto nel vuoto. Ecco, questa rimozione è un fatto interessante, comunque lo si prenda, e ti assicuro che mi sto usando oggettivamente come cavia per capire gli eventi letterari. Sarò più esplicito: io come poeta sono convinto del valore di quel testo a tal punto da non preoccuparmi troppo della sua sottovalutazione. Fai dunque tranquillamente la tara con la mia superbia e vanità, e valuta i dati restanti. Fosse pure un libro mediocre, il silenzio resterebbe assordante. Si trattasse invece di un libro francamente brutto, meglio ancora: perché non c’è stata voce che ha colto al volo l’occasione per rimarcarlo (non è questo scontro, questa “sacrosanta rissa”, il motore stesso della letteratura?). Ti ho dato la risposta al convegno: quel libro ha rivelato che la mia generazione, e non solo la mia generazione, non era all’altezza degli ideali dell’opera comune. Diversi “coetanei” mi hanno poi confessato, viso a viso, che quel libro è stato colto come un balzo troppo in avanti, un tradimento. Così l’equivoco di intendere le tensioni creative interne al “gruppo” come una mera lotta per il canone, un meccanismo di riconoscimento di un vincitore a discapito di tutti gli altri (che mostruosa, colossale e cancerogena fesseria!), ha innescato la de/generazione. E oso sostenere invece che quel libro (ne è convenuto persino Massimo Gezzi, con cui ho scambiato quattro ulteriori chiacchiere in merito), ancora al di là del suo stesso valore, avrebbe potuto aprire una strada, dare il via al lavoro (reso finalmente visibile a livelli più degni) dei miei coetanei, mentre invece il fuggi fuggi ha sancito esattamente l’opposto: la chiusura definitiva di ogni spazio storico di verifica. Così adesso, dopo vent’anni di Atelier, ci ritroviamo al punto di partenza.
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