Moti di nostalgia (4)
Moti di nostalgia nella de/generazione. Lettera aperta a Roberto Galaverni (4/4)
E allora tanto vale prenderla per quella che è, questa repubblica di poeti, e buttarsi nella mischia soprattutto per sguazzare nei pettegolezzi, nelle schermaglie, nel gioco tagliente degli sguardi. Qui avrei un racconto di Parcopoesia da passarti sottotraccia. Te ne offro qualche palpitante ritaglio, con tutti gli umori, anche maligni e acidi, degni di una storia.
Dopo dieci anni di esilio, la prima persona a riconoscermi e a salutarmi con viva simpatia è stata la mamma di Isabella, la quale, invece, mi ha accolto… diciamo con qualche titubanza. Ma come, tutta questa voglia di rivedersi, questo invito imprevisto dopo dieci anni e poi un sorriso formale, un benvenuto insipido? Mi sono rassicurato immaginando che tale freddezza fosse dovuta alla situazione: gestire l’evento dev’essere particolarmente stressante, malgrado i molti anni di esperienza, e tra mille dettagli da toccare e avviare, avrei dovuto attendere il mio momento. Poi però ho sempre visto Isabella passarmi davanti puntando ogni volta oltre di me: o ero insignificante (e sia: magari alla fine stringi stringi sono stato invitato perché occorreva qualcuno che riempisse, gratis, un buco nel programma) o c’era qualcos’altro. Ho pensato che non si trattasse di indifferenza, ma di timore. Colpa mia, che non ho mai nascosto di sentirmi ben combattivo, nella mia tana.
Infatti anche tanti giovani redattori di Atelier mi guardavano in tralice, tra timidezza e diffidenza. Ma mi era parso di intuire in qualcuna anche una punta di cortese disprezzo. Ma se non li avevo mai incontrati prima, la maggior parte di loro! Forse, anche questa volta, la causa erano certe mie provocazioni (già, perché l’opera comune è inevitabile, e quindi io vivo così la letteratura). Fatto sta che domenica al ristorante (io non me ne ero nemmeno accorto, anche perché molti di questi giovani non li identificavo proprio), qualcuno mi ammoniva: “Attento, dietro di te c’è in corso una riunione di Atelier…”, come se dovessi guardarmi le spalle da quella che fu la mia rivista. È la giusta legge del contrappasso, ho pensato; qualche anno prima i ruoli sarebbero stati invertiti. (E invece che bello sarebbe, un giorno, trovare su quelle pagine una lettura negativa, ma profonda e ben argomentata, dei miei lavori: sarebbe per me un premio, il riconoscimento che il dono è stato accolto davvero…)
Sai anche tu come i pettegolezzi e le maldicenze siano moneta corrente, in questo mondo. Qualche volta si tratta anche di bonaria goliardia, ma spesso decadono a cerimonia che incanta. Recitiamo un po’ tutti il ruolo di intellettuali (non di poeti, di intellettuali) e parliamo di responsabilità, di onestà. Finché arriva Andrea Ponso a suggerirci che siamo persi in un compiacimento perverso, di cui non ci rendiamo conto. Anche i miei contorcimenti in Atelier contro questa de/generazione, dicevo, gli erano parsi frutti dello stesso incantamento – e chissà che non abbia ragione: in me il dubbio non fa altro che aumentare lo sprofondamento nella Terramadre:
Anche il monaco, senti
(«Odio dio io o
lo amo?»)
fino a ridurlo a zero
nel buio della cella si avvita
attorno al proprio io.
Già, Andrea: quanto avrei voluto riabbracciarlo, nella sua fragilità feroce. Ma accoppio la sua voce al borbottio di Milo come un dono prezioso. Anche lui, certo, è tra quelli che nell’ombra ha preso il mio libro d’esordio per una lapide definitiva piantata su una prestigiosa collana (due menti cosi eccelse che concordano mi lasciano supporre che abbiano ragione: ma io sono un cretino e ho bisogno di qualcuno che mi apra gli occhi). Da parte mia sono stato, come al solito, più cattivo, e non ho mancato di fissare nero su bianco le mie perplessità sul suo “specchietto”. Ma come ribadirgli, senza un contatto vero, che la mia sincerità era ed è un atto d’amore? La sua poesia, infatti, continua a essere una delle poche che mi interessa perché mi provoca (nella radicale differenza con la mia!), dal momento che la sento estranea alla “petrarchizzazione del Novecento”. Ci sono infatti poeti giovani sulla cui carriera io stesso scommetterei, avessi qualche soldo in tasca, perché rappresentano la forma più alta e vincente di quella melassa che confonde un po’ tutti i versificatori di oggi. Poeti che non sbaglieranno mai un colpo, che giocano su un terreno ben coltivato. Ma Andrea no, è uno che rischia (e il suo rischio, al mio orecchio, è la rarefazione), e quindi la sua voce agisce sulla mia, per farmi stonare o intonare su un’altra modulazione. Come quella di Davide Brullo, il più assoluto e intransigente di tutti, quindi il meno assimilabile, sempre escluso, infatti, da ogni rassegna (devo a lui una preziosa carezza: un sms che mi ha raggiunto, dopo il dibattito: “che requiem… ma come si fa a non capire che il tuo è un palpito di gioia dal pulpito della vita?”).
Ma ci sono altre voci e gesti inaspettati che ho raccolto con piacere. La fragilità dickinsoniana di Francesca Serragnoli, che ha squarci di sapienza profonda e disarmata. Penso (guarda un po’ la cellula staminale della letteratura a chi mi avvicina) persino ai due campioni del poetry slam (non me ne vogliano gli altri), il bislacco agitatore che risponde al nome di Dome Bulfaro, con cui mi sono trovato in sintonia su più fronti, e quel Luigi Socci capace di divertirmi, mentre mi inietta il veleno nascosto nei suoi versi. O la tenerezza di Clery Celeste, così ancora perfetta e incompiuta nella sua giovinezza, che avevo incontrato anzitutto dove per me è importante incontrarsi: sui testi. Ma anche la medesima trasparenza di Federica Bologna, che dopo il mio intervento è venuta a incoraggiarmi: “non essere così pessimista…” (io, così pacificato in questa lotta solitaria e connessa a tutto; io, il più ottimista…). Chissà se capiranno, chissà che cosa sapranno diventare, queste due creature ancora così fragranti e impalpabili. Si perderanno, a furia di incoraggiamenti e ammiccamenti? Crederanno agli incanti della cerimonia?
E mi porto a casa anche tante altre fugaci strette di mano, di giovani e di meno giovani. Due però, risultano per me preziose più delle altre. Mi riferisco a quelle di poeti molto diversi da me, come Giampiero Neri, che non avevo mai conosciuto prima, così lucido e arzillo più di tanti noi, dall’alto dei suoi novant’anni; e come Davide Rondoni, che è addirittura venuto a testimoniarmi che gli era piaciuta la lettura dei miei versi: chapeau. Compiuto da lui, con il quale sono apertamente entrato in contrasto su talune faccende, il gesto ha un valore triplo, e mi spinge a credere che forse, alla fine, ci si possa capire, senza bisogno di scendere a compromessi di fronte alla coscienza di ciascuno, ma restando capaci di essere leali l’un con l’altro.
Non c’è storia, in qualsiasi lavoro umano la differenza è decretata dalla qualità delle relazioni. Non è una questione di rubriche sulle pagine di un periodico. Non è un problema di formula nell’organizzazione di un festival. Non è il titolo a decretare il valore di un convegno. Tutto dipende dalla qualità delle persone, dalla luce dei loro gesti e delle loro parole, dalla capacità di mettersi in rapporto e attraverso di esso di andare un poco oltre di sé, prima di tornare da soli sulla propria strada, ma con uno sguardo sul mondo più vivido e più ricco. Non è questione di poetica la fondazione di una società letteraria più vera: è questione di etica.
Il mondo sta vorticosamente cambiando, Roberto. I giovani abitano già su questa terra con un passo diverso dal nostro, senza radicamento in una casa, proiettati oltre ogni patria. Masticano scrittori di tutto il mondo e il più delle volte, ahinoi, come è stato detto, li leggono solo in traduzione: e c’è del giusto anche in questo. Presto avranno sulla scrivania stampanti 3D, mentre nelle periferie più disagiate alcuni, musulmani solo ai nostri occhi, si radicalizzano in poche ore attraverso il loro smartphone. Quest’estate undici miei studenti erano a Nizza, a trecento metri dal camion della strage. C’è un Novecento che si ostina a non finire, come dimostrano le vicende della Turchia. Si fondano stati integralisti e si compiono stragi in nome di dio, come anche noi europei abbiamo fatto per secoli. Il convegno di giovani poeti che organizzai nel 2001 era già bruciato da queste immani tragedie. Nell’arco dei vent’anni coperto dal percorso di Atelier, non siamo andati da nessuna parte, abbiamo galleggiato nel vuoto. E noi, di fronte a tutto questo, perdiamo ancora tempo a chiederci come mai non ci siano più libri decisivi o ci dilettiamo a ricordarci con quali mestieri campavano Sereni, Caproni, Sinisgalli, Giudici, mentre contestualmente trasformiamo la nostra attività poetica in una carriera redditizia (responsabile e onesta, ovviamente), invece di viverla per quello che è: una grazia e una dannazione.
Per questo ribadisco di non provare alcuna nostalgia e se mi sono permesso di riprendere il discorso e di completarlo è per rispetto del vostro invito. Ma le parole che ti ho rivolto sono le ultime con cui racconto quelle vicende. Dell’opera comune non parlerò più.
Rientro nella mia profezia privata, ma sappiate che voglio bene a tutti, in questa solitudine. Non ho nemici, anche se vivo la letteratura come un amoroso combattimento, persino con me stesso. Qui non mi sto sottraendo a nulla, semmai creo una soglia da abitare, in cui sono convocati anche Andrea Ponso, Milo De Angelis, Davide Rondoni, i nuovi redattori di Atelier e chiunque altro. È questo il mio gesto decisivo: tagliare i ponti con il vuoto della mia epoca in crisi per rovesciarla in dolorosa pienezza, mentre continuo a recidere in me ogni forma di ipocrisia.
Se ho usato espressioni offensive, se sono stato poco accorto con qualcuno per vanità, rimediate voi, senza indugi. Ve ne sarò grato. Io sono ormai impegnato in questo aldilà, sprofondato nel mio lavoro straordinario, precario, a tempo indeterminato.
Mi dispiace che gli eventuali commenti ai miei articoli finiscano in Facebook, che frequento decisamente poco e sempre con molte difficoltà. Capisco sia ormai più comodo e abituale, per i più. Tuttavia, siccome considero questa lettera aperta un testo per me importante, definitivo, mi prendo la briga di ricopiarne qualcuno qui, anche per offrire al lettore punti di vista alternativi.
ISABELLA LEARDINI: Marco mi dispiace davvero che tu abbia avuto un’impressione così tanto sbagliata e questa sì, davvero crudele. Chissà in quanti penseranno la stessa cosa, prenderanno come una distanza personale o un sorriso formale qualcosa di cui neanche lontanamente mi accorgo. Attento, te lo dico da amica fraterna, attento alla paranoia che traluce qua e là in diversi punti tra cui questo, l’ombra che getti è tua e non nel sorriso degli altri. Io a parco poesia sono in un altrove, non serve il fatto che lo faccia da quattordici anni a calmare la tensione e la concentrazione del pensare a tutto da sola, a mille cose pratiche che accadono dietro, alla persona che mi ha chiesto di risolvere qualcosa a quella che mi stava cercando e al problema che devo risolvere prima che qualcuno se ne accorga… e di cui non vi accorgete mentre fate caso a quanto sia formale il mio sorriso o a quanto è lungo il mio sguardo. Sai che invece in molti neppure mi salutano, ne quando arrivano e molto più spesso quando se ne vanno. E ti sei chiesto invece quanto espansivo sia stato il tuo saluto, quanto amichevoli le tue risposte all’invito entusiasta che adesso metti in dubbio e ti chiedi se fosse solo un posto da riempire gratis? Ti ho invitato, non perché mai fossimo stati grandi amici, ma perché ci tenevo a raccontare la storia di quegli anni, perché credevo che tu ne fossi un protagonista fondamentale di quella esperienza e il motore, cosa che ho detto anche pubblicamente, e non ricordandomi solo all’ultimo momento il tuo libro, ma volutamente citandolo per ultimo nel mio intervento, a sottolineare che proprio quel libro, uscito NON per il piccolo editore coraggioso tanto osannato nei nostri convegni, ma invece per Einaudi, non fosse stato riconosciuto infine dai compagni di strada come prevedibilmente sarebbe dovuto accadere. Io marco ho fatto esattamente ciò che ho promesso, e credo che dedicare un intero pomeriggio a questo incontro, affidandolo completamente alla cura di Roberto, di cui io ho una grandissima stima e che credo sia un critico di grande autorevolezza, sia stato un gesto più eloquente di tanti sorrisi. O almeno questo era sinceramente nelle mie intenzioni e ci tenevo a chiarirlo. Non sono abituata ad aspettarmi amicizia e sono abituata invece a ricevere schiaffi e diffidenza. Ma credo di avere almeno la libertà di vivere anche io il mio malessere a parco poesia, di guardare dove mi pare, girare freneticamente per fermare la tensione, e sorridere come riesco.
LA MIA RISPOSTA: Mi dispiace che tu ti sia offesa. Non era mia intenzione. Ma questo è il racconto che posso fare. Dove trapela anche il mio sforzo di obiettività e autoanalisi, spero. Se invece sono solo paranoie mie, fai bene a dirlo e a testimoniarlo. Anzi ti inviterei a trascrivere il tuo commento anche sul sito.
REPLICA DI ISABELLA: Ora sono in viaggio non riuscirei prima di lunedì. Come ti ho detto nel mio commento dell’altro giorno ho apprezzato la lettera, alcune sue riflessioni e anche alcune critiche. Ma non l’esordio di questa, il confronto implicito con mia madre e il ritratto che tracci di me. Offendersi è una cosa inutile ma non replicare sarebbe stato come annuire a un’impressione ingiusta e lasciarla passare come verità.
BRUNO BARTOLETTI: Grazie Isabella per tutto quello che stai facendo per la poesia. Purtroppo anche questo è un prezzo da pagare. Solo chi non fa non nuove ma resta anche nella sua indifferenza. E grazie anche a marco che ha il coraggio di provocare. Non sono mai stato presente a parco poesia e me ne dispiace, ma vengo da un periodo difficile. Tuttavia vi seguo e seguo ogni dibattito con molto interesse. Grazie a tutti voi.
ANDREA PONSO: Caro Marco, ancora una volta non posso che essere in sintonia … peccato averla persa per tanto tempo – anzi, era giusto così. Hai ragione sul mio “specchietto”, davvero, sul rischio, ma qui importa poco. La sensazione che descrivi di quei giorni la posso immaginare, ma ormai sono anni che non esco più per letture pubbliche e quindi anche questo ha per me poca importanza, cosa vuoi che ti dica, è così. Nemmeno io ho nostalgia, per niente: traduco dall’ebraico con una gioia immensa, leggo la Parola ogni giorno, mi immergo nei Padri con fervore e umiltà, prego e a volte grido, per quello che posso amo. E sto imparando a quietare, cioè a portare nella quiete e non nella dispersione dei pensieri e delle parole, anche la mia ira: e magari anche con questo sarò a rischio “rarefazione”, chi lo può sapere, o disperazione, si vedrà. Penso che a volte, quando la solitudine è buona (e anche questa cosa è una lotta continua), essa non è altro che un desiderio di relazione più pieno e vero, con Dio e con gli uomini, con la parola e con le parole. E sono ben consapevole che la mia dissipazione su facebook, ad esempio, è tale: ma ci si può dissipare anche per fare silenzio. Un detto dei padri del deserto mi perseguita continuamente e non mi dà pace: “Abba Poimen disse: Vi è un uomo che sembra tacere, e il suo cuore giudica gli altri; costui parla sempre. E ce n’è un altro che parla da mattina a sera e conserva il silenzio, cioè non dice niente che non sia utile”.
JULIAN ZHARA: Ho letto con interesse le lettere aperte indirizzate a Galaverni. Anzi, devo ammettere che trasudano umanità e dolore, deserto e ponti. Stranamente, rispetto a lettere di questo tipo, le ho lette con piacere, e grande. L’impressione di uno che non vi ha visti “in azione” all’epoca di Atelier è: oltre alla condivisione umana, alle simpatie, alle guerre intestine, alle delusioni, dov’è la ricerca letteraria? Cosa rimane, a livello di ricerca, nel dilatare i confini letterari in quegli anni? Sembra più un ritrovo tra ex amici che devono risolvere questioni personali, che poeti pronti a discutere di letteratura. Ed è strano perché dall’altra parte, rimangono gli articoli imbarazzanti di Brullo sulla poesia; tutti sugli ex amici del periodo Atelier.
MIA RISPOSTA: Se hai voglia di conoscere il nostro lavoro puoi trovare sul mio sito tutti i numeri di Atelier. Se intendi misurare la voce e la specificità di ciascuno, non ci sono guide, devi curiosare, approfondire, esplorare in tutta libertà. Come per tutte le generazioni e tutta la letteratura, potresti scoprire molte perle magari nascoste
JULIAN ZHARA: Vi ho già letti, proprio per ricostruire il vostro lavoro negli anni ’00. Ho i vostri libri, almeno quei libri che ritenevo interessanti. Pure le antologie le ho lette e ho invitato Ladolfi a parlarne all’università. L’unica perla, anche perché ha una luce che brilla tuttora, ritengo essere Tiziana. Per il resto, e non sono l’unico a pensarla così nel mondo della poesia, vedo ex amici che si sono fatti la guerra fredda per anni.
MIA REPLICA: Apprezzo la tua sincerità. Non avrei proprio nulla da ribattere. Se permetti, solo una domanda: hai letto anche il mio ‘Terramadre’?
JULIAN ZHARA: No, se la distribuzione di Ponte del Sale non facesse lo schifo che fa… non avrei nemmeno Love&Peace e pure il tuo romanzo (lì non mi permetto di dire nulla delll’editore, che poco conosco), se non fosse, per una libreria veneziana. Di tuo, in poesia, ho solo il libro per cui hai pagato tutti questi anni. Tu sei uno tosto, uno che ha tatuato il deserto negli occhi e nelle parole. È per quello che ti leggo sempre con viva attenzione. Il guaio purtroppo, e frequento il mondo della poesia da pochi anni, è che tutta la vostra generazione, non ha lasciato nemmeno un libro fondamentale ai posteri, a quelli della mia generazione. E nel ritorno a un tempo che non conosco eppure seguo per amor di ricostruzione storica, non posso che affidarmi alle parole di Tiziana e ai tuoi scritti. In entrambi arde qualcosa che tradisce un passato ma odora di futuro.
TIZIANA CERA ROSCO: Ad ogni modo, io avevo proposto una riunione privata per atelier. Cose senza show. Cose che sono testimonianza di presenza. E poi emanazione. Proprio di questi giorni. Che come sapete non sono giorni qualsiasi. Avevo declinato l’invito di Isabella in una mail comune a tutti e non perché voglia giudicare Isabella. Ma perché il lavoro per me inizia sempre da un’altra parte altrimenti l’esposizione diventa voglia esibizione, di vedere chi ci conosce e ci ha letto, l’effetto di liberazione e presunzione nel dire quanto si è diversi dagli altri e bla bla bla. Il mio invito è morto nella mail in cui comunque l’unica a rispondere è stata Isabella, anche di fronte ad una certa mia durezza. E tu? Voi? A tutti va di essere pavoni. C’è che mostra il sedere, la faccia, o altre parti. C’è chi alza la voce per dire di fare silenzio e chi lamenta il decesso di un corpo del quale è cadavere e non fa altro che propinare un odore mortifero come fosse chanel.Essere una persona severa non vuol dire per forza essere una persona seria. Lo dico per me, per te, per tutti. Sono stanca di parole aguzze e intelligenti ma che si accompagnano a cose loffie, a riscatti personali. Al mettere il dito nella piaga degli altri. Tutto qui.
Di soglie Andrea ci sono. Ma bisogna lasciare indietro qualcosa per abitarle. Non servono un mese o 10 anni. Bisogna essere scorzati dalla propria parola. Altrimenti è un talento senza dono. Ti abbraccio
MIA RISPOSTA: Concordo. E pago, pagherò tutte le mie parole fino in fondo. E’ proprio il mio programma. Sono grato a chi mi inchioderà ad esse, senza pietà. Riguardo al trovarsi privatamente, rivedrei tutti voi, a uno a uno, qualora la vita decidesse di creare occasioni. Ma di ritrovi collettivi organizzati non ne sento il bisogno. Non ho mai partecipato neanche alle cene dei coscritti. Lo show è finito da molto tempo. Forse non era mai neanche cominciato. Sebbene per decenni abbia dato a qualcuno, forse, l’idea di essere un organizzatore, quasi un agitatore “di classe”. Ormai sono ingombrante a me stesso. Ho colto l’occasione di Rimini per un ultimo, fraintendibile, chiarimento. Detto altrimenti: forse un ritrovo privato potrebbe servire, potrebbe essere bello. Ma a patto che non ci sia io. Eppure, sia detto: mi mancate tutti. Vi voglio bene. Siete il mio amore di gioventù, perfetto dannato incompiuto. Vi dico addio per amore.
REPLICA DI TIZIANA: Non puoi dire di cercare una soglia e poi fare quello che la manca. Sono sentimentalismi. Roba si fa festival di periferia.