Giovanni Raboni

Giovanni Raboni

Il 16 settembre 2004 moriva Giovanni Raboni, poeta fra i più importanti del Secondo Novecento. Non ho avuto modo di conoscerlo, l’ho incrociato solo in alcune circostanze, ma ho frequentato bene la sua poesia. Ripropongo nella ricorrenza un saggio che inclusi nella raccolta Nel foco che li affina.

Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.

A. Manzoni, Storia della colonna infame

ANACRONISMO E REALTÀ. LA POESIA DI GIOVANNI RABONI

Se l’autoantologia del 1988, A tanto caro sangue, si apriva con Portale, una poesia inclusa nella raccolta Le case della Vetra, l’attuale volume di Tutte le poesie (1951-1993) ci introduce nel vasto paesaggio dell’opera raboniana attraverso i resti della prima raccolta dell’autore, Gesta Romanorum, «premiata a un concorso per inediti ma mai pubblicata e, a un certo punto, andata perduta». L’effetto per il lettore è pressoché identico; semmai, il restauro compiuto utilizzando materiali già accolti sia in appendice a Le case della Vetra sia all’ingresso dell’antologia citata, definisce in modo più chiaro il portale allegorico che idealmente ci immette in uno spazio scenico dalla potenza figurativa non comune. La metafora del restauro suggerisce la direzione e la chiave interpretativa della poesia di Raboni: la volta che si è invitati a leggere inizialmente non rappresenta la soglia di un luogo poetico raccolto e pervaso dalla presenza del sacro, ma il monito che incombe dietro il capo di chi esce da un’immaginaria cattedrale per accedere alla piazza, soffermandosi magari a registrare le prime ‘notizie’ di una città ferita e fervorosa. Come a dire: lo spazio in cui la poesia di Raboni viene concepita è costitutivamente politico (in senso lato); il linguaggio attinge abbondantemente sia al parlato sia al lessico burocratico ed economico; i ragionamenti che si intrecciano nei capannelli sono grevi di memorie cittadine e di imperativi etici. La città naturalmente è Milano, offesa dalla guerra e politicamente tormentata, in cui il tragico si manifesta spogliato dai riflessi sublimi o dalle nebbie dell’indicibile, per mostrarsi nella «svenante, tiepida cacciata / dal paradiso». Gli interlocutori privilegiati sono i poeti con i quali la critica ha subito riconosciuto affinità d’intenti e di percorsi letterari: gli esponenti della cosiddetta “linea lombarda”, Sereni anzitutto, modello supremo, ed Erba; poi Fortini, poeta di differente contesto, eppur ideologicamente prossimo; altri autori della «quarta generazione», come il meno noto Bartolo Cattafi, cui Raboni dedicherà una poesia d’impianto montaliano [1], o Risi, con la sua «poesia non metaforica» [2] che si rifà ancor più scopertamente a una “tradizione milanese”, dalla “vocazione morale” laica di ascendenza illuminista (si vedano i richiami pariniani e manzoniani, che in Raboni emergono fin nei titoli L’insalubrità dell’aria, Le case della Vetra e A tanto caro sangue), e soprattutto Giudici, intellettuale anch’egli dall’‘educazione cattolica’, profonda e fermentante, «riletta da sinistra» (Mengaldo), che muoverà in ultimo su posizioni analoghe alla tendenza raboniana verso la ricerca «di un ‘iperpoetico’ apparente, quasi ostentato» [3]; e, ancora, i coetanei Neri, Majorino, Cesarano e i poeti, come Pagliarani e Porta, meno omologabili entro una sperimentalità programmata di marca avanguardista.

Che cosa suggeriva la scelta di introdurre A tanto caro sangue con Portale? «Difficile dire»: l’incipit plastico (per la compattezza fonica data dall’allitterazione e la risolutezza assertiva) manteneva potenzialmente nel testo un’ambivalenza tonale. Soltanto nei versi successivi, con l’elenco dettagliato della scena che si delinea agli occhi del lettore, la poesia acquista un’incisività barocca per mezzo della scansione dei tempi, dettata sia dalla triplice alternanza di versi brevi e versi lunghi (i primi mai superiori al settenario, i secondi sempre maggiori all’endecasillabo), che generano evidenti parallelismi, sia dalla divisione in tre strofe, o più precisamente in due strofe quasi speculari intermezzate dal distico centrale:

Difficile dire
quante spade, quante lance, quanti elmi di cuoio
su profili romani,
quanti fabbri e pescatori col cappelluccio a cono
e le orecchie puntute,
quante facce di porco o di drago, quanti piedi
con cinque dita

e ruote e focacce sbilenche e proiezioni
di tavole imbandite

nella ressa, nel fuoco, nella gioia
della neve che approssima, del vino
bevuto in gioventù,
della folla irta e viva, di un’intera nazione
che pesca caccia ecc. e prepara
l’acre festa sul legno.

Il poeta prolunga allo stremo l’unico, lungo periodo, per tendere l’attenzione del lettore. Così Portale si presta a una doppia lettura: con intonazione disadorna e dubitante o con voce accalorata, per accrescere nel lettore l’effetto di spasmo da sciogliere poi nell’ultima, tragica allusione. I dislivelli metrici, le accumulazioni, le scelte lessicali e l’ampio giro d’immagini sembrerebbero richiedere un’esasperazione dei contrasti, ma a dominare l’intero componimento resta quel «Difficile dire», che si proietta sulla pagina e, idealmente, lungo tutta l’opera del poeta. Eppure, senza riprendere l’etichetta di espressionismo, che pure fu utilizzata per le prime prove poetiche di Raboni, serve riscontrare subito il vigore virtuale che connota la pronuncia raboniana, anche nei punti più bassi, vicini alla prosa e al parlato, come un fermento profondo nella scrittura, vigore che si paleserà nella tensione formale delle ultime opere, come un nervo uscito allo scoperto per l’elaborazione «in levare» dell’autore.

Anche l’ouverture dell’antologia che ci viene attualmente proposta, che riproduce il quarantennale percorso del poeta senza interventi ristrutturativi (A tanto caro sangue non rappresentò solo una selezione, ma un ripensamento e al limite una riscrittura dei libri precedenti), evidenzia la stessa energia, non ancora completamente “affondata” nelle tonalità che in seguito prevarranno, ma esibita nella pur alienata tensione teatrale di questi testi: «Silenzio. Udite. Io annuncio la sua morte». A parlare è Giovanni Battista e sia nel titolo (Il rimorso di san Giovanni Battista) sia nel primo verso («annuncio la sua morte») è palese il colpo a effetto che rovescia il punto di vista scontato. Il poeta inscena una sorta di sacra rappresentazione, seppure a parte Romanorum: in un ritmo concitato, tra comparse e referti cronachistici da un metafisico reportage (cfr. Altre interviste) prende corpo un’inchiesta sul mistero. Al centro dell’evento è la morte del dio presunto, registrata attraverso i protagonisti indiretti. Il taglio complessivo dell’opera, anche per i titoli dei singoli “passaggi” o inquadrature, potrebbe essere definito caproniano ante litteram, ma più genericamente vi si può rintracciare l’impronta di esperienze anglosassoni e segnatamente di Eliot e di Pound. Il vertice drammatico viene preso d’assedio da più angolazioni, mai direttamente enunciato; e proprio in questa obliquità di riferimento, di natura non simbolica ma dettata da una disposizione etica di discrezione, risiede la forza coesiva dell’opera. Si tratta di una lezione capitale per molti poeti delle generazioni successive.

In questo caso, poi, il motivo della poesia annoda i temi della morte e della memoria, i più cari all’autore:

Silenzio. Udite. Io annuncio la sua morte
perché sono di fronte a voi l’autore
della sua venuta e dei suoi giorni
disastrosi. Oh fossi morto prima,
nel deserto, come muoiono i cammelli
che si fidano troppo del proprio gozzo! io così
della mia memoria, della memoria
che Dio mi concede sulle cose future.
Io non volevo ucciderlo
ma la mia fede si è tramutata in pietra o coltello, il mio battesimo
in violento scorpione. Mi perdoni
se troppo poco ho peccato! Io fiorisco di colpa
come la Vergine è fiorita di lui
nel grembo involontario.

La dizione risulta qui ancora retoricamente scolpita, ma all’eloquenza dei personaggi principali in Gesta Romanorum, si accompagna il tono più basso che contraddistingue i personaggi sullo sfondo, anonimi. Qui il poeta sembra toccare corde più congeniali, che smorzano l’epigrammaticità in un registro disadorno, assumendo piuttosto il punto di vista della gente attraverso i luoghi comuni («Chi cerca / trova»), connotato da una betocchiana «tristezza popolare» (Garboli); il poeta si avvicina insomma al registro espressivo, già riconoscibile, della silloge successiva:

C’è colpo e colpo. Ci sono ferite di striscio
che nessuno può guarire
e uomini che muoiono a ottant’anni
di coltellate prese in gioventù.
Non c’è regola. Qualcuno si salva
e si fa prete. A qualcuno la vista
s’indebolisce. A volte
i coltelli rispuntano dal cuore
nel senso della lama.

* * *

Le case della Vetra si aprono con un’epigrafe di La Fontaine, «Parler de loin, ou bien se taire», che assume il valore di una dichiarazione di poetica, ma che parrebbe applicarsi meglio alla figuratività di Gesta Romanorum, punto di origine dell’opera di Raboni ora non più riassumibile in questa raccolta.

Ciò non significa che non si possano rinvenire sovrapposizioni e sfumature fra le due opere, in particolare nella prima sezione delle Case della Vetra (cui peraltro andrebbe più precisamente riferita la stessa citazione) che raggruppa i versi più remoti, del periodo 1955-1959. Portale, che abbiamo sopra funzionalmente parificato all’intera prima plaquette, è inclusa nella seconda silloge, insieme a Ponzio P., che pure componeva, con testi della prima, La piccola passione (dove si indicavano i passi evangelici cui rimandano i singoli pezzi) pubblicata in A tanto caro sangue subito dopo Portale. Eppure, la cornice allegorica delle poesie d’esordio, in cui si assume un punto di vista impersonale (attraverso una maschera che si esprime in prima persona) ricco di implicazioni culturali e rinvii ad altre fonti, si distingue dall’accentuata portata referenziale delle Case della Vetra. A una poesia imperniata sulla costruzione di universi secondari, Raboni preferisce un’ottica aderente al contesto storico ed esistenziale, senza rovesciare tuttavia l’impersonalità in lirismo; l’ideale di suavitas espresso da La Fontaine continua ad applicarsi al «discorso coperto e indiretto» (Mengaldo) che si va delineando. L’indagine si sposta dal piano metafisico al piano dell’esperienza concreta (anche se l’esile membrana che separa questi ambiti è osmotica, a tenuta ideologica), per cui egli stesso si dovrà annoverare fra i testimoni, nel coro della storia. All’allegoria subentra il «luogo non trasfigurato»; il problema non è più di giungere alla realtà partendo dalla letteratura, ma viceversa di fare della letteratura a partire dalla realtà.

Il termine realtà non sembri pretestuoso: è lo stesso poeta a suggerirne l’uso, addirittura isolandolo al centro della terza poesia (in tutto il libro solo in un altro paio di casi spezzerà al mezzo un verso) con un “a capo” che divide l’endecasillabo, risolvendo il betocchiano confronto fra sogno e realtà nel ricordo del gesto più emblematico di Pilato:

.                                               Realtà
è lo squallore dei viaggi, la carriera mal digerita,
le raccomandazioni che non servono a niente
o arrivano in ritardo; è avere, invece
dello stagno grigio e mattutino, pieno
di pigra cacciagione,
questo sporco catino dove mi lavo le mani.

Del resto, a indicare istanze postbelliche non ancora assopite, Raboni registra la persistenza, fra gli appartenenti alla sua generazione, di una divaricazione tra un “fronte” di ricerca che prosegue l’elaborazione delle poetiche precedenti (bipartito fra Ermetismo e Neorealismo) e un fronte rivolto verso suggestioni sperimentaliste.

Non a caso la raccolta viene presentata subito come il resoconto delle vicende politiche e personali di un intellettuale consapevole del mandato della società. Il titolo della prima poesia è una parola chiave, Notizia: «Solo qualche parola, / solo una notizia sul rovescio del conto / sbagliato dal padrone». La nuova inchiesta poetica non può che partire dall’ammissione di un dislivello fra attese (della società) e possibilità (del poeta); solo muovendo dal credito di onestà aperto dall’intellettuale si tenterà l’impresa senza declamazione, ma per mezzo di frequenti attenuazioni: «Solo… solo», «qualche parola», «Forse… può darsi». La Stimmung raboniana è a questa altezza definita da alcune coordinate montaliane: il tipico no saber, il “tu” che avvia a un dettato colloquiale («E tu invece, gomme di bicicletta / o antenne, cosa credi che sia / questo ronzio che sale dalla nebbia…», «Cosa vuoi che ti dica. Più tardi / può darsi che la maschera si tagli e tu riesca / a vederli con gli occhi veri, / i santi moti del tuo cuore…»), la poetica degli oggetti, specie in sequenza cumulativa, che trascolora però verso tinte neorealiste [4], e così via. Ma, al di là di queste minime indicazioni, identico è l’atteggiamento di fondo che contraddistingue un clima di “caduta delle certezze”: la «fede» per cui il poeta non ha voce è la stessa di cui rende testimonianza Montale col suo Piccolo testamento. Tale atteggiamento di perplessità innanzi alle vicissitudini storiche si traduce nella volontaria ricerca di un registro minore, o di un continuo contrappunto per abbassare il tono: alle «Conclusioni provvisorie» (così come al «Piccolo testamento») dell’uno corrisponde la «Notizia» dell’altro, allo «smeriglio di vetro calpestato» i «frantumi» che «diventano poltiglia», alla «sardana infernale» ecc. una sequenza omologa di «occhi squartati, teste di cavallo, / bei tempi di Guernica», senza nemmeno ricordare l’identico avverbio limitativo: «Solo quest’iride posso / lasciarti», «Solo qualche parola». Ma, se Montale poteva ancora giustapporre la “persistenza” del mito personale “oltre la cenere” col Sogno del prigioniero, far leva cioè sul personaggio-poeta che era riuscito a ricreare, Raboni (e con lui altri), perduta la cornice del canzoniere metafisico, si trova a parlare da un «luogo non trasfigurato», delineando semmai un ideale romanzo familiare o addirittura una piccola commedia umana (Commediola), in cui, seppure il paese che viene a definirsi sia baudelarianamente «orrido» e popolato da sordide figure, burocrati o uomini d’affari, “poveracci”, “poliziotti”, “ingegneri”, “operai”, non compaiono angeli o epifanie salvifiche. Semmai, a essere sotteso è il dibattito politico: già in Notizia constatiamo il ricorso a una terminologia fortemente connotata («padrone»). Raboni anzi, dottore in legge, apre la terza sezione delle Case della Vetra con la citazione di un articolo, svelando l’intenzione di dar voce a futura memoria ai testimoni della sua causa.

C’è la consapevolezza, in questo programma, di aderire a una poetica più ampia, a un sentire comune: «anch’io» dice in Notizia – sottintendendo un “come altri” – «non ho frasi da dirti». Si tratta del “clima culturale” che contraddistingue la “generazione del ‘56” (comprendente i poeti nati negli Anni Trenta):

raggruppando in altro modo gli autori solitamente ripartiti fra «quarta» e «quinta» generazione, propongo, come data emblematica cui intitolare la generazione successiva a quella che ho chiamata «del ‘45», il 1956, anno reso cruciale da avvenimenti come il XX Congresso del Partito comunista sovietico e la repressione della rivolta di Budapest.

Avere vent’anni (o, si capisce, qualcuno di più o qualcuno di meno) nel 1956 ha voluto dire, credo, formarsi e crescere in un clima fortemente segnato dalla caduta delle certezze ideologiche e delle speranze di mutamento sociale che avevano caratterizzato il primo decennio post-bellico e, d’altra parte, dall’affiorare di nuove, diversissime certezze e speranze – quelle nel progresso tecnologico e nell’internazionalizzazione della cultura – che avranno il loro più tipico rigoglio all’inizio degli anni Sessanta con i fasti, al tempo stesso divaricati e simmetrici, del neocapitalismo e della neoavanguardia.

Sul piano dello specifico letterario, è in questi anni e su molti di questi poeti che produce i suoi maggiori effetti l’assimilazione (iniziata nel decennio precedente) di modelli stranieri ignorati o poco frequentati nell’entre-deux-guerres; decisivo, per quanto riguarda la poesia, è il passaggio da un’area d’influenza francese e spagnola (ancora prevalente per la maggior parte dei poeti della generazione del ’45) ad una d’influenza anglosassone (l’asse Eliot-Pound e, più tardi, soprattutto Pound). Prosegue, parallelamente, la ricerca di riferimenti o autorizzazioni nella tradizione italiana pre-ermetica e pre-rondista; ma mentre, da parte della generazione del ’45, la zona più mirata era quella compresa in un ideale triangolo Pascoli-crepuscolari-vociani, ora l’interesse è indirizzato soprattutto verso un’area di confine e interazione tra simbolismo e futurismo (significativa la riscoperta, promossa da Sanguineti, di Gian Pietro Lucini). [5]

Istintivamente e montalianamente teso a cogliere il baluginìo della verità nelle occasioni piuttosto che per fascinazioni surreali, perfettamente inserito nel solco di quella «lombardità»

fatta da un lato di attenzione alle cose, al paesaggio, a una quotidianità dimessa e pungente, e di una vocazione morale (di matrice cattolica in alcuni, laica e progressista in altri) che ha i suoi antecedenti e i suoi numi sin troppo palesi in Parini e in Manzoni e un riferimento più recente, sostanzioso e quasi segreto in Clemente Rebora; dall’altro, di una pronuncia in sottile e sempre affabile equilibrio fra tenerezza elegiaca e ironia, fra precisione e understatement [6],

Raboni si trova a definire con la sua poesia un punto mediano fra retroguardia e avanguardia, contribuendo, con Sereni e gli altri, a sfumare la stessa linea lombarda in orientamento generale, e in fine vincente, della poesia del secondo Novecento. Pur muovendo da istanze contestative analoghe a quelle dei movimenti di sperimentazione programmata, egli supera gli steccati del lirismo in altra direzione, volgendosi a un codice espressivo contaminato con la prosa, senza ripristinare maschere letterarie fittizie, con le relative “arie” neocrepuscolari o parodistiche. L’io che prende voce nel testo tende alla trasparenza, mimetizzandosi e smarrendosi nella geografia, a tratti straniata, della città, confondendosi fra le figure che la popolano, cogliendone il degrado morale senza volontà di giudizio, con pietas nemmeno esibita. In Cinema di pomeriggio, ad esempio, non si denuncia la perversione, ma si porta il lettore in medias res, lasciando che sia lui a provare lo squallore della scena («Li guardo per sapere / che storia è la loro, chi li caccia»); nel Catalogo è questo non si nomina la prostituzione:

E poi, se vai in giro a piedi finisci
col conoscerle tutte: le vecchione
di via Lazzaretto, vispe
e a gruppi come comari; le borghesi
modeste, appena lugubri, in attesa
tra Ponte Vetero e l’Arena;
la bionda delle Cinque vie
con la sua faccia gonfia, lapidata. Dunque vedi
che è tutto diverso dai viali
dove le ragazze sono sane e sottili
e salgono ridendo con gente incappucciata
nelle chiare autoblindo…

Ma non si tratta né di acquiescenza intellettuale (come poi sarà nel Montale postremo) né di rimozione («Certo, è il momento di parlare / come c’è stato quello di tacere»), poiché viene affrontato qualsiasi tema, ma dall’interno. Ne è una riprova la funzionalità dei deittici (Il catalogo è questo, Una città come questa), a indicare la prossimità di un lettore ideale che condivida il contesto.

Se il tono rimane prevalentemente pervaso dalla perplessità e da una grigia discorsività («Una volta le colpe dei padroni / erano così semplici! Il padrone / d’oggi, consiglio d’amministrazione / o gruppo di maggioranza, è un peccatore / un po’ troppo sui generis per me…»), non mancano repentini moti di sereniano risentimento, nemmeno trattenuti da una preoccupazione di decoro stilistico:

Non si va avanti né indietro.
Non si guarda né a destra né a sinistra,
né in basso né in alto. Tutto, ormai,
filerebbe secondo le istruzioni
se non fosse per questi apostoli di merda,
per queste incredibili dodici persone
che fra essere morti e essere vivi
trovano sempre qualche differenza.

Anche quando l’io tenderà a opacizzarsi, a rendersi visibile nell’opera in cui si disseminano i frammenti biografici, l’unico spazio vitale del soggetto risulta provato dalle presenze ossessive delle figure familiari, dalla schiera dei morti, dal premere della storia (personale e sociale), che determinano un’esistenza contrastata e a tratti nevrotica («sarà stato / una specie di tic, accenni di nevrosi…»), al limite di un autoannullamento, solitamente interpretato come l’espressione dell’autocoscienza borghese nell’epoca del neocapitalismo e della cultura di massa. Ne deriva un discorso profondo, franto e continuamente ripreso, talvolta sfuocato e involuto, in cui giocano un ruolo mimetico importante i luoghi comuni e gli umori dello stesso soggetto disgregato: in una poesia, che si intitola addirittura e significativamente Romanzo, nell’esordio ci si interroga: «Ma  in casa dell’impiccato se di corda / non si deve parlare / di cosa mai parleremo?», attribuendo poi questo pensiero a un non identificato «giovane uomo» (quantomeno un alter ego del poeta), «del quale però per il momento / non ho tempo né voglia di occuparmi»: questa è la chiusa. È come se all’autore, che volge l’attenzione ai temi impoetici della quotidianità, mancassero ancora gli strumenti espressivi per riuscire a dare forma letteraria ai propri motivi e, non volendo per questo cedere alle sirene del soggettivismo, procrastinasse «la parola che squadra da ogni lato» alla pagina successiva, compiendo minimi spostamenti a ogni poesia, a ogni inquadratura che accoglie un dettaglio del vasto poema dell’esistenza.

Il margine di sopravvivenza dell’identità psichica, minacciata dalle convulse dinamiche sociali del progresso, si tramuta in un residuo di fede nella letteratura. Letteraria, infatti, sarà essenzialmente la determinazione di quella sorta di limbo esistenziale in cui avviene il confronto, a tinte talvolta infernali talvolta più languide, fra vivi e morti, che attraversa tanto le opere di Montale quanto quelle di Sereni e di Raboni; tinte spettrali che non risparmiano nemmeno il sereniano e fortiniano coro di amici, in cui tende comunque a trapelare il dissidio e la segregazione morale del soggetto.

Tuttavia in Raboni, rispetto a Sereni, il tenore poetico si approssima ancor più alla prosa, sulle variazioni del ritmo libero che, pur evocando costantemente le misure auree del settenario, dell’endecasillabo e del doppio settenario, tende a perdere l’unità del verso in una dizione troppo fluida, priva delle torsioni sintattiche, dei pensosi rallentamenti imposti dal poeta di Luino. Un testo come Annata cattiva può veramente dirsi un brano di prosa, non fosse, più che per i versi regolari pur numerosi e frequenti soprattutto nella prima parte, per il ripiegamento, con gli ultimi periodi, sull’indeterminatezza della sera presa all’inizio a metafora di una condizione di sospensione esistenziale, di amorevole attenzione alle cose. Il vigore potenziale della pronuncia poetica del primo Raboni cede il posto a una varietà di registri espressivi che, fra continue smorzature timbriche, diventa amalgama di elementi indistinti, che trovano una realistica omogeneità psicologica nella mimesi del linguaggio interiore del soggetto “discreto” portato sulla pagina. I punti, anzi, di maggior infrazione al dettato volgono ancora in direzione di avvicinamento alla prosa: oltre alla varietà delle misure versali e la ricorrenza dei versi lunghi, si tengano presenti: il caratteristico uso dell’ecc. – quasi a riprodurre una calibrata smagliatura del testo [7] –, cui si può forse accostare una singolare tmesi («L’ombra dei cingoli nel / l’asfalto»); la congiunzione e in fondo al verso (in pochi casi); i corsivi e persino i maiuscoli che, accoppiati, tradiscono il modello sereniano (Cfr. Intervista a un suicida), attivo anche nel gusto per le citazioni in lingua straniera; le parentetiche, le inserzioni di frasi dirette (che in quegli anni trovano la massima esecuzione nel dialogato luziano), l’agglutinazione del verso per mezzo dei numerali e delle abbreviazioni («Alta cm 105 ma / in grado di far rotolare»).

Le case della Vetra restano così il poema di una perdita interna al patrimonio della città e l’uomo, perdita che lascia una cicatrice sottile: «Di tutto questo / non c’è più niente […] Eh sì, il Naviglio / è a due passi, la nebbia era più forte / prima che lo coprissero…».

 

* * *

Paradossalmente, compiendo un passo ulteriore in direzione della prosa, emerge l’ipotesi di un canzoniere: i temi esclusivi dell’amore (pronto a trascolorare in erotismo) e della morte, si accumulano attorno a un “io” protagonista. Cadenza d’inganno è un libro meno compatto, scandito in capitoli composti da sequenze di minimi episodi o squarci riflessivi. Il dettato si fa più elusivo, “mortificando” il soggetto proprio quando è costretto a mostrarsi. A complicare la struttura della raccolta intervengono sia pagine in prosa e numerosi passi di dialogo che tentano ellitticamente di determinare la situazione, sia il contrasto fra i motivi privati a quelli pubblici raggruppati nella seconda parte del volume. Ma, se lo scarto fra vicende personali e vicende politiche rispecchia la scissione del soggetto preso nelle dinamiche ingovernabili della dimensione interpersonale, andrà con Luzzi riconosciuto, pur senza tentare con questo di ricomporre la frattura dell’opera,

il carattere anche “politicamente” rilevante di queste situazioni del privato in anni di intensa discussione […] sulla centralità del corpo e sulla liberazione delle possibilità sessuali all’interno del progetto di vita. Credo che la lettura più corretta del filone “cortese” in Raboni, fino alle lasse scandalosamente pure e oltranzistiche delle Canzonette mortali, sia da raccordare all’occhio del testimone disponibile a registrare i mutamenti di costume veramente significativi, soprattutto se rivelatori di un clima sociale e di attitudini antropologiche innovativi e diffusi [8]

D’altronde, l’arco temporale su cui si dispiega l’opera si pone a cavallo di due decenni, abbracciando anni anche traumatici per la storia del Paese: la frattura è in re.

Soltanto Parti di requiem abbraccia limiti cronologici più ampi e sposta a ritroso di dieci anni la data di elaborazione complessiva della raccolta, che risulta così globalmente composta fra il 1957 e 1974, sovrapponendosi in parte con Le case della Vetra [9]. Né mancano testi che palesano una caratura vicina alle precedenti “maniere”: Cadenza d’inganno prosegue sulla stessa lunghezza d’onda del volume precedente, frastagliando semmai il discorso in nuovi grumi tematici, in continuità con la combattuta autocoscienza del poeta e la progressiva determinazione di spazi vitali da difendere.

Attraverso il ricordo della madre nelle dodici Parti di requiem, il poeta riscopre uno spaccato della propria storia, un’origine “altra”, accolta non senza contrasti in seno alla famiglia: «In casa della nonna (di tua suocera) eri / un po’ un pesce fuor d’acqua. […] / Di nascosto ridevano / dei tuoi parenti, nobili in malora / o venditori di dolciumi». Il poeta oggettiva il conflitto «tra autocompassione e fastidio di sé, attaccamento alla propria condizione e disagio morale»:

Apparentandosi con quella borghesia decaduta, Raboni sceglie il filone improduttivo ma anche meno responsabile del sistema di sfruttamento. […] Per non essere complice della realtà, il poeta adotta un’ottica mortuaria. [10]

Certo Parti di requiem, con un pasoliniano riconoscimento di sé “dalla parte della madre”, sopporta agevolmente anche una lettura ideologica. Ma non si dovrà comunque perdere in questa, che rappresenta una delle sezioni più significative di tutta l’opera raboniana, il valore anche prettamente letterario che affiora nei diversi flashes in omaggio alla madre, attraverso il pudico ricordo delle funzioni pratiche da svolgere in occasioni dei funerali (la sepoltura, l’accoglienza dei parenti, il trasloco del feretro ecc.), oscillante fra elegia (la madre «che vicina a morire, ancora / vuol sapere com’era la mia cena…») e misurati livori («Chi piscia sangue, chi ha / troppi globuli bianchi nelle vene / […] non aver fretta, non volere / che il conto sia saldato»).

La morte ha sempre reso bene in moneta lirica. Né la tradizione italiana fa eccezione, sia che i Sepolcri Accendano l’Animo a Egregie Cose, sia soprattutto nel senso del Lungo Colloquio coi Poveri Morti. In ultima analisi, è nel culto dei morti il fondamento della solidarietà famigliare, per secoli e fino all’altrieri quasi unica legge e religione del nostro popolo. Se questi valori celebrano il loro estremo trionfo con Pascoli in un’Italia rurale e cattolica, essi sopravvivono a lungo alla crisi delle strutture che li esprimevano (sintomi del carattere distorto del nostro sviluppo economico-sociale). [11]

Ma Raboni non indugia troppo su questo tema e le sprezzature con cui incrina il decoro sono il sintomo del rifiuto della finzione, della posa letteraria. Soprattutto, egli chiude la serie dei testi con un brano che, con compunta dolcezza, rompe ogni indugio: il pensiero che la bara della madre non ha fortunatamente trovato problemi nel trasporto, per la spaziosità della «casa vecchia», mentre in appartamento sarebbero sorte difficoltà logistiche, è un bell’esempio dell’attenzione alle cose minime con cui il poeta affronta temi alti e, insieme, dell’attenzione a non insistere nell’elegia. Così egli compie un decisivo scatto epigrammatico finale e, riconosciuto che nella morte non c’è dignità o bellezza da salvaguardare, pensa: «Scendi al pianterreno / come ti pare […] scatola di scarpe / o cassa d’imballaggio, orizzontale / o verticale, sola o in compagnia, / liberaci dall’estetica e così sia». Una “lezione” poetica nei nostri anni sicuramente determinante per il primo Cucchi, ma più viva nel contegno del Profitto domestico di Riccardi (animato dallo stesso progetto di «fare / i conti con i morti», combinando come qui il gergo contabile con l’evocazione “lirica” dei propri defunti) che nel Requiem per il padre di Valduga, troppo sentimentale e diretto[12].

A Parti di requiem seguono le tre prose raccolte sotto il titolo di Economia della paura. Con esse si apre il ciclo delle poesie d’amore, che tuttavia non segue una prospettiva usuale. I tre brani di Economia della paura infatti inscenano la conversazione telefonica fra due amanti e il ritmo concitato, per mezzo di periodi fulminei, dai passaggi ellittici e dalle numerose ripetizioni, mima la paura imposta dal segreto dell’adulterio. Il timore dell’intercettazione o dell’involontaria confessione sotto l’effetto dell’anestetico dettano una scrittura ossessiva, nevrotica. L’intoppo, invece, reca una citazione introduttiva di Petrarca, suggerendo l’idea di un microcanzoniere che racconta i piccoli disguidi o disagi di un rapporto di coppia, con pungente leggerezza, e con una sensualità controllata e schietta, senza effusioni eccessive eppure senza reticenze:

Dei rimproveri che mi fai (certi
non li discuto)
ce n’è uno quando arriva che fa
male come il freddo sulle dita – quando
commenti soave «che brutto amore abbiam fatto» o peggio «stavolta
l’amore l’hai fatto solo tu: come un ragazzino». Morde
dal basso, asciuga saliva come se portasse
via tutte le volte buone. E dire che tengo
più alla tua gioia che alla mia; a momenti vorrei
essere una donna per toccarti meglio, con più dolcezza…

Ma, se nell’ultima poesia dell’Intoppo prende consistenza, seppure ipotetica, un «lui» da scongiurare con un pensiero affettuoso d’amore, il componimento successivo sembra rimuovere il motivo spostando l’attenzione sulla gatta domestica e la sua forzata Luna di miele; la situazione però si colora di tinte metaforiche: «ecco il nero convoglio, la portiera / che sbatte, l’autista-sicario di profilo, / […] verso il passo innevato verso il tiepido / bunker // Col nastro isolante ti legheranno le caviglie».

Con le successive sequenze il filo che a questo punto si sarebbe tentati di seguire per leggere il dissimulato canzoniere, si smarrisce nell’intrico delle vicende alluse, dei dialoghi concisi («“Dai, mettiamo / a posto il letto, non devono capire / che anche oggi, mi secca”. Con il palmo / della mano si normalizza il lenzuolo si rettifica si / sciolgono umide impronte. “Stamattina / ai telefoni, ti giuro, non posso, non posso, io / non posso raccontare delle balle a mia figlia”»), degli strani testimoni evocati («“Un medico di Auschwitz” ci era parso / la prima volta») in una cornice di affiorante squallore: «Guardarsi col sorriso / di chi vorrebbe non esserci o vomitare». Il poeta è consapevole della tragica discesa agli inferi che porta velatamente sulla pagina. Con Le storie giunge anzi a difendersi nervosamente dal giudizio altrui [13], consapevole di essere condannato al più duro giudizio della propria coscienza, col rischio dell’autocommiserazione: «Le mie storie. Eh. Mi piacerebbe. Ti piacerebbe / eh? Davvero, grazie. Lasciatemi giù»; «Lasciami giù esattamente nel punto dove / mi hai trovato, usami, ti prego, questa precisione». Margine estremo di difesa e di tormento non è soltanto il colloquio con i morti, ma anche, come già in Sereni, l’ambito degli altri affetti familiari, in particolare il rapporto-confronto con i giudici privilegiati, puri e crudeli, del mondo degli adulti: i figli, da guardare dunque con «sospettosa tenerezza»:

Siano con selvaggia compunzione accese
le tre candele. Saltino sui coperchi con fragore i due
compari di spada compiuti uno
sei anni e mezzo, l’altro cinque
e io trentaquattro e la mamma trentadue
e la nonna, se non sbaglio, sessantotto.
Questa scena non verrà ripetuta.
La scena non viene diversamente effigiata. E chi
si sentisse esule o in qualche
percentuale risulta ingrugnato
parli prima o domani.
Accogli, streghina di marzapane, la nostra sospettosa tenerezza.
Seguano come a caso stridi
di vagoni piombati, raffiche di mitragliatrice…

La prosa che segue a questa poesia, dal titolo Partendo da boulevard Berthier, in cui si descrivono i funerali dello studente francese Gilles Tautin, demarca il passaggio a una serie di testi dai motivi ancor più occasionali e anche formalmente molto vari: si passa, da una riscrittura-imitazione di una poesia di Christopher Smart alle dieci quartine dell’Alibi del morto, scritte dopo l’assassinio di Giuseppe Pinelli, che sembrano riattivare la tensione espressiva delle prime plaquettes, fino alle amarissime riflessioni su una tragica stagione politica delle quattro parti di Notizie false e tendenziose, scritte dopo l’assassinio di Feltrinelli («la lezione è servita. / Se la nostra leggerezza è scritta sugli alberi / la cancelleremo con i denti, / trangugeremo insieme nomi e scorza. / A nessuno, a nessuno venga più in mente di mettersi a strillare / che a bruciare il Reichstag non sono stati i comunisti»), per chiudere il libro con la struggente sequenza Per C., morta di parto all’età di un anno e undici mesi, che riconduce il violento moto di estroversione della raccolta sulla cronaca del tempo al flusso dei tempi interiori: «è (diceva il mio amore) mia sorella / morta dieci anni fa. La riconosco / dagli occhi di mirtillo… / Io le credevo. E adesso ci chiediamo / dove ti incontreremo un’altra volta, / in quale pesciolino, albero, odore».

Anche se in quest’ultima poesia si può avvertire un «calo di tensione» [14] e se la giustapposizione fra questi frammenti e le precedenti composizioni è piuttosto forte, proprio da un simile attrito (che può ricordare Il dolore di Ungaretti) si sprigiona la scintilla vitale per l’io ormai dissolto («Mi vedo perdere colpi, avere pietà / del questore giudiziario, del carabiniere in salita»; «Mi sveglio per te, non per la luce»), in grado di sopravvivere solo al confine fra interno ed esterno, fra memoria e presenza, nell’esiguo spazio di una soglia onirica di coscienza. Anche tutte queste caratterizzazioni fanno di Raboni uno dei poeti che anticipano «modi che saranno propri della generazione del ’68»: si pensi in particolare alla poesia di Cucchi, nuovamente, ma anche ai paesaggi metropolitani di De Angelis con i sordidi e drammatici dialoghi, all’io disgregato teorizzato da Viviani, e così via.

 

* * *

Siamo così alla raccolta Nel grave sogno, per certi versi speculare alla precedente. Se Cadenza d’inganno si apriva e si chiudeva con testi d’occasione funebre, anche Nel grave sogno inizia e termina con l’ormai consueto gong funereo. Nel primo caso ci si riferisce a Celeste (dedicata a Giorgio Cesarano), poesia che con Sogno di via dei Serpenti e Interni clinica compone una specie di trittico per amici poeti (nel secondo caso tuttavia, l’omaggio a Giudici fortunatamente non commemora il lutto dello scrittore; mentre il terzo destinatario, già menzionato, è Cattafi), quasi a fissare con la raccolta l’intenso percorso di una generazione di scrittori animati da profonde consonanze. Il testo di chiusura, invece, nonostante il titolo (Le nozze), sancisce «il carattere mortuario dell’eros» (Luzzi) [15] e prende spunto dal quadro di Jan van Eyck: I coniugi Arnolfini (1434) e da un altro quadro dello stesso pittore, andato smarrito. Le poesie comprese in questa cornice, come per Cadenza d’inganno, si muovono in ripetuti scorci fra interno ed esterno, fra lo spazio kafkiano dell’«appartamento», altrettanto desolante quanto un’immagine della città, e «l’infantile disastro del mondo». Soltanto le varie sequenze, però, riescono, per quanto il titolo del libro racchiuda un’indicazione opposta, a sollevare l’angoscia che gravava sul soggetto in una maggiore levità musicale (un titolo emblematico in tal senso è Cassazione), che certo nulla sottrae al dolore d’esistere, ma lo scioglie in un dettato più fluido ed essenziale, in immagini spesso meno soffocate dall’allusione alla realtà (il contesto storico, d’altronde, è già mutato e meno pressante). Questa sospensione, non priva di tensione drammatica, non più debordante, appare magari magistralmente orchestrata in una sequenza metaforica, come in Zona Cesarini, dove il gusto per l’eccesso si fa a tratti divertito, o come nella (zanzottiana) Fiaba che comincia: «Ucci ucci / orme di lupi, di cornacchie / storie di cristianucci…» [16].

Ci sono repentini moti di commozione per la vita che sembrano fulmineamente distrarre il poeta dalle proprie ossessioni e ne sono un indizio minimo ma certo l’uso dei diminutivi: cuoricino, personcina, nonnina, alucce, agnellino, gattini, assicelle ecc. Sono rapide comparse a portare una ventata di novità improvvisa: «stiri le giovani membra / come un gatto in buona salute / o la sorella di Gregorio Samsa / o se niente importasse tranne i tuoi / grilli, le tue passioni». È come se il poeta, dopo aver fissato lungamente sé stesso attraverso la specola della morte, riscoprisse il gusto per la nominazione degli oggetti di una quotidianità illuminata da un taglio di luce inusuale. La versificazione si fa più agile, riaccostandosi alle misure brevi e persino a una sequenza di distici. Anche la morte sembra ormai riflettere un bagliore di inaspettata tenerezza: «Quanta vita / nel tuo farcela appena, / nella ghiaia,  nelle spine del tuo fiato…». Certo, il grave sogno resta, incombe sulla notte («tendo l’orecchio: è mai / possibile? Il sibilo acido, strappato / di mia madre che muore… […] Ma no, / è la mia gatta che dorme»: non sfuggano le movenze e il timbro sereniani di questi versi), ma nasce in seno al dolore una distensione che rivela il lato meno amaro della memoria: «La piccola folla degli animali che prego / prima che il sonno cancelli la forma delle croci / […] il Fort Apache del mio coraggio, / così che di piume, cartilagini e artigli / […] / è fatta la mia compagnia».

La tristezza che affianca questo sentimento non è assoluta, ma pronta a sciogliersi di fronte a un’epifania di «copiosa letizia»; la condizione esistenziale, prima monocorde e ossessiva, si fa ambivalente: «mi sento giovane e stanco / come mio padre / anche lui passeggiando per Milano / tre quattro mesi dopo l’infarto progettava / di togliersi qualche sfizio». Per quanto potesse rivelarsi isolata, in chiusura della raccolta precedente, la ricordata Per C., morta di parto all’età di un anno e undici mesi anticipa con esattezza il tono meno cupo del Grave sogno, avverte il monito di essere oltre quella minima soglia di vita. Anche il titolo più minaccioso della raccolta: Il più freddo anno di grazia, racchiude implicitamente tale ambivalenza (freddo vs grazia), a suggerire, seppur con una distanza ironica, una sorta di “allegria di naufragio”. Vale la pena allora rilevare un’altra interessante concomitanza con il sempre attivo modello di Sereni: proprio il passo iniziale di questa sezione parla di «gatti siberiani» nascosti «nella pelliccia, socchiusa come una ferita», che paiono omologhi alla «volpe rubata che il ragazzo / celava sotto i panni e il fianco gli strizzava» dell’Appuntamento a ora insolita, per cui la «ferita» raboniana diventa anch’essa la «gioia», «l’ora di settembre in me repressa / per tutto un anno» di sereniana memoria. La specola mortuaria sta per essere attraversata e ora il poeta può talvolta già contemplare la vita da un luogo di straniata, caproniana («Mi cercano, tanto per cambiare, / dove non sono») euforia: «Io pulitore di specole / a ventimila millimetri d’altezza nel vuoto siderale / spio l’abbandonata bolla di luce, lo scafandro / svuotato della testa […] / la mia vita è lì. È quella che è. Non posso / qui, da questo aggetto, mutarla. Da lontano / mi colma, mi raggela…».

 

* * *

Si tratta, probabilmente, dei primi timidi accenni di una quasi prodigiosa rinascita poetica, che manterrà viva l’ambivalenza sostanziale fra morte e amore (da intendere anche in senso lato come amore per la vita), lo scontro delle pulsioni che ridefiniscono il corpo testuale della scrittura; ambivalenza che in un certo qual modo detterà (ogni coincidenza è poeticamente significativa) la struttura dei libri composti durante il passaggio dal primo o dal secondo Raboni [17]: Canzonette mortali e A tanto caro sangue, che sono infatti entrambi bipartiti.

La divisione del primo in Canzonette mortali e Lista di Spagna corrisponde a una diversità di registro espressivo, anche se il libro intero celebra l’avvento della nuova musa ispiratrice del poeta. Tema unico, dunque, è l’amore, o ancor meglio l’eros, il desiderio che divampa in tarda età. Il contrasto fra impulso vitale alla gioia (da intendere anche in senso provenzale) e sentimento della vecchiaia, detta una collana di strofe che via via diminuiscono regolarmente di numero fino a ridursi a unico verso, in una sorta di count down che non drammatizza ma sfuma la conclusione. Qui l’autore, come se, trovandosi su un punto discriminante, volesse giustificare tutta la sua esperienza poetica e spiegare ancora una volta, ma in una prospettiva stravolgente, il motivo della morte che ormai ossessivamente lo accompagna, rovescia le coordinate temporali dell’esistenza: «Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro / e solo del futuro, di nient’altro / ho qualche volta nostalgia»… Si passa in questi versi da un alessandrino, che concentra virtualmente una fioritura di significati – dall’io che si pronuncia decisamente, all’adorazione che unisce passione e senso del sacro, alle spoglie che riattivano le infinite variazioni sul tema della morte, fino a giungere al futuro che si ripercuote a ritroso sui termini precedenti, quasi a svegliare le braci sotto il manto apparente del già noto –, a un endecasillabo che, con un indugio, ribadisce il tema paradossale delle canzonette mortali, ovvero il futuro, per chiudere la premessa rappresentata da questi primi versi con un novenario, e precisamente con una parola, «nostalgia», che (come una nuova, definitiva vittoria della cenere sulla fiamma [18]) mette a nudo il sentimento che dà forma a questo nuovo capitolo raboniano. C’è già tutto in nuce in questi primi versi, persino la struttura in diminuendo delle intere canzonette (il titolo ammicca alle Canzonette morali del Chiabrera?).

Rovesciata la prospettiva (le spoglie appartengono al futuro, non al passato), il poeta può già dire di ricordare qualcosa che deve ancora avvenire: «quando alle mie carezze smetterai di bagnarti»: ecco l’eros prorompe, candido e sfacciato. Non è un caso che Garboli veda un antecedente importante di queste poesie nientemeno che in Penna: ma non è ancora sereniano il variato e insistito ricamo sulla figura del polittoto? Ciò che più conta in ogni caso evidenziare è il non sospetto omaggio agli istituti metrici: struttura complessiva dei versi a parte, il titolo richiama, seppure ancora per mezzo di un camuffamento – un ennesimo abbassamento di tono – il “canto”. Si veda la prima, schiva comparsa della rima: piacere : godere e bellezza : dolcezza nella strofe iniziale, soltanto : intanto : incanto nella terza, paura : sventura nella sesta. Attraverso questa trama leggera di canto, la nostalgia del futuro, per le rinnovate pulsioni dell’eros, conduce alla progressiva dissoluzione dell’Io, che apriva la serie, nella contemplazione dell’altra persona: «Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce» (enunciato fintamente piatto, se si noterà il riferimento a una strofe precedente: «Ti muovi nel sonno. Non girarti, / non vedermi vicino e senza luce! / Occhio per occhio, parola per parola, / sto ripassando la parte della vita»).

Nella Lista di Spagna domina invece un tono ben più licenzioso. L’esibizione pornografica, anzi, sembra a tal punto insistita da assumere il valore di una “vendetta d’amore”, per la voluttà a tratti perfino rabbiosa (già nelle canzonette: «Le volte che è con furia / che nel tuo ventre cerco la mia gioia…»). Lo sfondo per gli amanti, «tra cari fantasmi» letterari, è la città di Venezia, relegata però a richiamo decorativo, che rende la lussuria ancor più elegantemente, manieristicamente teatrale (questa volta è una citazione dal Don Giovanni a introdurre le poesie e a spiegare il titolo). Non mancano moti di dolcezza e di triste pensosità, poiché è sempre la “nostalgia” di sottofondo a rendere “furiosa” la ricerca dell’eccesso; moti pronti tuttavia a perdere l’abituale contegno e dar spazio a disinibite effusioni: «Ah mia bianca ragazza, mia candida puttana, / mia esangue ultima figlia, / bel muso infarinato, madonnina / della fortuna, / giglio di cera in una / grotta d’henné». Mentre le canzonette, restando esplicite, evitavano la volgarità, ora la lotta poetica consiste proprio nella costante infrazione di questo limite. Se in qualche occasione le varianti potrebbero essere interpretate in funzione di una dizione più pudica («come un intruso basta il tuo bisbiglio / docile e spudorato / – Vuoi che…? – a farmi invisibile e beato» < «il tuo bisbiglio spudorato, / docile, rauco: Vuoi che te lo succhi?»), esse andranno per lo più intese come un ritocco vòlto a correggere l’eccesso di aggettivazione, approfittando per calcare con assonanze e rime la “cantabilità” del testo. Anzi, si potrà riscontrare un ipercorrettismo in questa direzione. Così, ad esempio, la strofa che inizia con la citazione di una delle più celebri scene del Don Giovanni:

No, non ne ho avute mille e tre – nemmeno
seicento e quaranta, o novantuna.
E tu quanti? Di colpo, lunga o corta
che sia la lista, il cuore s’accartoccia,
fa male. Eppure so che non importa

nella versione definitiva (appena citata) si rende troppo esplicito il riferimento all’opera teatrale, con una pesante aggiunta di precisazioni in funzioni di zeppe pour la rhyme, mentre la versione precedente:

No, non ne ho avute mille e tre – nemmeno
seicento e quaranta, o novantuna.
E tu, tesoro?
Dio, che male allo stomaco. Ma in fondo
lo sai, lo so che non importa

aveva il pregio di non accentuare la musicalità e mantenere il ben più allusivo spazio bianco dopo la domanda nel mezzo della poesia, spazio che lasciava precipitare sul verso seguente più sfumature di significato, con uno scatto non consequenziale, brusco come il dolore stesso, che suggeriva senza spiegare la risposta taciuta.

Dunque, le varianti non sono mirate ad attenuare la volgarità: infatti nella strofa, pure molto ritoccata, che segue quella appena citata, non muta sostanzialmente la chiusa: «preferivi il mio cazzo, la mia mano».

 

* * *

L’ambivalenza che dà forma alla sezione relativa alla precedente antologia A tanto caro sangue è invece meramente strutturale (indice comunque di una volontà di revisione complessiva e insieme di rilancio). Essa infatti si divide fra cose Ultime (1983-1987) e Disperse (1956-1960). Nella prima, troviamo il vertice della produzione del poeta, con i sei testi (alcuni, al solito, composti da più parti) che più nitidamente si stagliano nella memoria del lettore. Né parrà strano che proprio nelle opere di transizione il primo Raboni giunga all’apice: è esattamente per la controspinta interna, derivante dalle nuove istanze espressive che si vanno maturando, che i temi e le figure consuete (poiché le Ultime nulla aggiungono ai motivi già consolidati) hanno un improvviso balzo, si sollevano dal flusso discorsivo tendente all’indistinto (al poematico o, come si è pure detto, al romanzesco), come increspature, onde che portano a sintesi un vasto immaginario. Se infatti Le case della Vetra rappresentavano fino a ora il punto maggiormente coeso dell’opera raboniana, ciò era dovuto al macrotema della città; nei libri successivi, e soprattutto in Cadenza d’inganno, il dissidio del soggetto che si autorappresentava e insieme si autoannullava sulla pagina, perdendo sempre più i margini della poesia nella prosa – come li perdeva il soggetto nella realtà storica –, non trovava situazioni memorabili, montaliane occasioni, effigi o comunque scene capaci, senza perdere aderenza al reale, di ritagliarsi margini precisi entro il discorso complessivo del libro, acquistando con l’obliquità metafisica un surplus di senso. Se negli Strumenti umani Sereni giustapponeva, seppure con un ritmo intricato, una serie di testi autonomi, Raboni si trovava a disperdere eccessivamente il discorso indiretto e coperto in brani colloquiali, su sfondi indefiniti, per di più frammentando in microsequenze anche le occasioni che gli si presentavano nitidamente (il funerale della madre, gli incontri ecc.), rischiando il “qualunquismo formale” da cui prenderà successivamente le distanze, e proprio a partire da Canzonette mortali e A tanto caro sangue (antologia che tenta, infatti, di ridefinire una “forma” complessiva della sua produzione). La controspinta, in questi testi, si palesa, più ancora che nell’andamento complessivo del dettato e delle strutture metriche adottate (per cui pure si dovrebbe citare almeno Anagramma), nella rima (cfr. Scongiuri vespertini I e soprattutto Anagramma I) e nel controllato abbandono ai toni elegiaci. Il soggetto, inoltre, si offre senza dissimulazioni, ha ormai alle spalle una storia, anche poetica, che ne rafforza l’identità, anche quando questa viene rimessa in discussione. Al ritrovarsi dell’io, senza pesante volontà di autoderminazione ma per naturale sviluppo poetico (il soggetto, anzi, si offre esattamente nell’atto di ritrarsi, di lasciar spazio al dolore dell’amata piuttosto che al proprio «novero dei morti» o al pensiero che non importa essere oggetto della preghiera dei figli), riprendono levità di forma anche le figure essenziali con cui interagisce: l’amata («mio affamato, tremante, altero amore!»), i morti, il padre e i figli, la madre. Riemerge anche, ma come un leggero soffio di ironia, non di sarcasmo, il tema politico («mi guardi», dice rivolgendosi all’amata, «come, ma sì, come un nemico di classe»; «Mangiarsi il capitale – strana, buffa espressione / di quando gente come me, borghese / per vizio o per condanna, s’ostinava / a vivere di rendita»). A prevalere infine non sono i toni risentiti, ma un senso di rasserenata accettazione della vita: «Ma no, sbaglio. Non io, tu sei l’erede / d’una sacra penuria», «Ma subito, contraddicendomi, mi dico / che no, che ci mancherebbe altro», «Ma poi, vedi, più niente / è chiaro, tutto, senti, si confonde», «Ma che importa / se mi sono pagato la dolcezza / di vivere con te, / di morire, mia vita, accanto a te?»; e l’accettazione della vita sgorga nel momento dell’accettazione della morte:

mi cade goccia a goccia nelle vene
l’illusione soave
d’essere meglio che immortale
perché ormai io lo so come si muore,
con che opaca dolcezza,
con che mite, domestico dolore…
O padre, padre tante volte
scongiurato a sproposito, ficcato
in tutte le salse delle mie seduzioni,
fa’ che sia vero anche la volta vera
e che sia stato vero anche la volta
che si è rotto il tuo cuore.

* * *

La spinta al superamento del “qualunquismo formale” si fa pienamente visibile nei Versi guerrieri e amorosi. Ricordiamo, a vantaggio del lettore, la nota di quarta con cui si presentava l’edizione einaudiana:

Scrive l’autore di questa sua raccolta: «Da molto tempo pensavo di scrivere qualcosa sulla guerra: la guerra, s’intende, come rovescio, intreccio di riflessi e di nomi, quale può essere apparsa a un ragazzo di dieci dodici anni fra città e campagna, bombardamenti e sfollamento; ma ogni volta urtavo contro un clima e un linguaggio che non volevo, che addirittura mi ripugnavano, quelli della memoria (ossia, rispetto al presente, della smemoratezza) elegiaca. A mettermi su una strada diversa e che mi è sembrata più fruttuosa sono state una frase di Goethe (“Bisogna confessare che ogni poesia converte i soggetti che tratta in anacronismi”) e più ancora, forse, la richiesta di riconoscibilità formale che sempre più la poesia mi sembra rivolgere oggi ai poeti per poter continuare o ricominciare ad esistere, oltre che nella loro volontà e nell’orecchio dei lettori. Il piccolo canzoniere che sta al centro di questo libro è nato così, credo, dall’intersezione di due tentativi o desideri: il primo di non perdita, l’altro di ritrovamento».

Il primo libro della nuova stagione poetica di Raboni si pone ancora sotto il segno dell’ambivalenza, visibile già nel titolo. La novità più rilevante che viene indicata è il progressivo recupero delle forme chiuse: la svolta, quindi, sarebbe essenzialmente formale. In realtà, essa rappresenta la conseguenza di una intuizione prioritaria, secondo cui la poesia recupera lo sfasamento temporale rispetto alla storia: essa trasforma i propri soggetti in anacronismi. Il poeta non cerca più delle terze persone cui affidare l’espressione, come accadeva in Gesta Romanorum, eppure adotta una visuale temporalmente straniata. L’io che si definisce nella scrittura esce dal presente, ne prende le distanze per poterlo misurare con maggiore lucidità.

La nostalgia del futuro si traduce nell’oltrepassamento dell’hic et nunc, sempre più vuoto e desolante quando non soffocato nei margini dell’esperienza individuale. La svolta formalistica non va dunque interpretata come un appel à l’ordre, poiché le forme chiuse non hanno valore in sé, in quanto tali, ma in quanto anacronistiche, puro medium per accedere al presente da «un’ottica mortuaria», da un punto esterno e non compromesso con il presente stesso. Alle strutture metriche non si attribuisce un senso letterario che non sia la garanzia di una libertà rispetto agli automatismi del pensiero e al qualunquismo storico e poetico del presente. La radice dunque va rintracciata ancora nella volontà di parlare da lontano o tacere: anche quando è il soggetto biografico a dominare sulla pagina, l’io rappresentato risulta “fuori tempo”: il poeta si autocontempla da un terzo luogo (terzo rispetto alla colloquialità data dall’asse privilegiato io-tu), ovvero da un terzo pensiero che subentra nel momento dell’attraversamento (accettazione) della morte.

Anacronistico significa anzitutto già determinato: attraverso la scrittura, il poeta sa di non poter intervenire nella vicenda (mentre nell’ipotesi engagé agiva sul presente opponendovi il peso delle proprie intenzioni e, dunque, una sottile e contrastata volontà di autoaffermazione). In questo senso, Raboni prende coscienza di un clic che già scattava, a tratti, nella sua poesia: l’intera prima silloge ne era una precoce attuazione, così come lo straniamento sotteso nelle Case della Vetra (già l’evocazione di luoghi manzoniani è significativa, seppure ridotta ad allusione), per esempio in Città vista dall’alto, poesia in cui la topografia urbana trasfigurava la città contemporanea in una città medievale: «lì, tra quattrocento anni / impiantano la ghigliottina». Anacronistico è l’amore, dal futuro scontato, delle canzonette (dette mortali, appunto) e l’intero lavoro di A tanto caro sangue, con la ripresa e addirittura la riscrittura di vecchie cose.

Ma soprattutto, antecedenti a parte, a risultare fuori tempo è il padre ricordato, attraverso la luce bianca e fissa della morte («Sono passati quarantaquattro anni, un mese e un giorno. Non è passato neanche un minuto») nella prosa di Versi guerrieri e amorosi, strana scelta introduttiva per un libro con quel titolo. Così come anacronistici sono i ricordi della guerra, che si sovrappongono al tempo presente costruendo un originale canzoniere, e soprattutto la veste formale. Le poesie infatti si compongono per quartine (con l’unica eccezione di un sonetto con tre versi imperfetti delle terzine, o in rima a grado zero), al più dilatate con un distico finale; i metri adottati variano dall’endecasillabo al novenario, dall’ottonario al settenario, con un ritmo regolare ma una musicalità franta, più che per l’aggettivazione e l’effetto dei contrasti, per le rime, contraddistinte da una misurata tensione a infrangere la norma. Eccone un rapido catalogo: lunapark : varco, risolvere : povere, vergogna : calcagno, m’appaia : mattatoio : corridoio : obitorio, discerno : schermo, gelo : fievole, ebbra : intenebra, condensato : estratto, impiantito : allibiti : estinto. Non mancano tuttavia anche clamorose citazioni: «Troppi anni e mesi e giorni e notti e sogni», ma si osservi soprattutto il fatto che le poesie sono, tranne tre casi minimi, composte da un unico lungo periodo, certo indizio di un’esasperazione che esautora le strutture formali nel loro superamento ideale.

Anacronistica, infine, e rappresentativa della tradizione assunta come medium, è la terza sezione, Reliquie arnaldine, dove il poeta documenta il proprio lavoro di recupero e di esercizio formale attraverso libere variazioni su luoghi già dati, cioè frammenti di Arnaut Daniel. (Non andrebbe comunque dimenticata, nell’officina del poeta, il lavoro di traduzione: non è un caso che nelle canzonette, accanto alle quali comparvero a suo tempo le prime “reliquie”, si chiamasse esplicitamente in causa l’amato Proust).

Ma, oltre alla struttura e ai temi dei Versi guerrieri e amorosi, anacronistico è soprattutto il sentimento di vita di chi si inoltra nella vecchiaia, pure se rassicurato  dal fatto che «chi sta con Amore / di chi resta e chi va non si dà cura».

 

* * *

Non è dunque necessario trovare un personaggio o una storia diversa dalla propria per materializzare le trame di un pensiero “fuori tempo”. Con Ogni terzo pensiero [19] il poeta ci dà una fedele rappresentazione di sé che oltrepassa la mera volontà d’espressione realistica per stanziarsi coraggiosamente nel centro degli istituti letterari più evidenti. Triplice è anche e ancora la partizione del libro, che propone per i versi la forma esclusiva del sonetto. Oltre la poesia che funge da prologo, troviamo una prima sezione di nove Sonetti di infermità e convalescenza, ognuno composto da un solo periodo e da versi inferiori all’endecasillabo, cui seguono i nove brevi brani in prosa di Piccola passeggiata trionfale (ancora un primo aggettivo in funzione attenuativa), per chiudersi poi con i ventisette pezzi dal titolo Altri sonetti (in endecasillabi).

Anche la prima poesia si struttura in un unico ampio periodo che elegantemente si dispiega secondo l’architettura del sonetto, attraverso rime esatte e qualche lieve sprezzatura negli ictus (due endecasillabi in quinta), cui peraltro bisognerebbe aggiungere un dodecasillabo, che comunque darebbe un altro endecasillabo con accento in quinta («è già spento, divelte le imposte, pieni»). Il poeta invoca l’«ombra ferita», che zoppicando si approssima nell’«andirivieni // dei risvegli e degli incubi», di dargli tempo, perché possa «chiudere i tanti / conti vergognosi in sospeso con / loro prima di stendermi al tuo fianco».

Nei Sonetti di infermità e convalescenza la condizione temporale, «latitante il giorno», è tutta scandita dai pensieri e dagli umori della degenza ospedaliera; questa volta l’anacronismo è dato dalla coercizione del momento: il corpo «liberato sul più bello / dall’odiosa sincronia / di percezione ed evento // per l’interporsi del lento / flap della preanestesia / va spensierato al macello». A venire fortemente ribadita è la mancanza di onore e di bellezza nella morte, palese anche quando essa entra bruscamente a far parte del reale orizzonte dell’esperienza di sé. L’orrore del «disastro intestino» e delle condizioni disagevoli (fra «L’ordine di non avere / un solo pelo più in basso / del mento» e «le delizie / del pasto d’un riabilitato / a vivere appena svezzato / dalle protettive nequizie // dei fili e nuovamente in stato / eretto ai cautelosi sfizi / restituito […] del prosciutto tritato // fine, del soffice purè, della pasta soavemente / scotta») si trasfondono nella struttura del sonetto torcendola, soprattutto quando la poesia si dispiega in misure brevi – dalla musicalità meno riconoscibile –, per “liberare dall’estetica” la verità degli eventi:

Nel decomporsi chissà
che rumore fa il cervello
e che scintille se già
così assordante è il rovello

d’essere, ecco, la metà
dell’annegato, il fratello
siamese di chi non ha
più volto nel mulinello

insieme a precipizio vivi
travolti da un’atassia
divina e a un divino niente

centuplicata la mente
flottando morti nella scia
fulgida dei sedativi.

Allenta la tensione formale del libro, pur compatto e calibrato nella disposizione della materia, un intermezzo in prosa, composto da nove brevi riflessioni che a partire dagli elementi del paesaggio rafforzano lo sguardo retrospettivo sull’esistenza, in una dimensione di quotidianità in cui pure balugina un senso di trepida riscoperta delle cose (il corso, il circolo del dopolavoro dei ferrovieri, la strada del quartiere, il chiosco dei giornali e quello della benzina, la fontana, il semaforo). Posti dopo la sezione di Sonetti di infermità e convalescenza, questi brani diventano espressione della «lunga, lentissima rincorsa» con cui l’individuo si riabilita, rientra nelle coordinate spazio temporali della normalità. Dal punto di vista formale, invece, risultano una necessaria ripresa di contatto con la realtà per meglio scandire la temporalità alterata dei ritmi, delle rime, delle strutture chiuse dei testi. Se nelle opere precedenti la prosa si accostava per osmosi alla poesia, qui la prosa (anche se nell’ultimo frammento troviamo degli “a capo”) è una musica complementare ai versi per circuire la realtà.

Tanto più che in Altri sonetti il lavoro del poeta si concentra soprattutto sugli accenti. Non mancano anche qui rime talvolta sconcertanti (nella prima poesia: oblò : verità; o; ma si veda anche questi casi di rima per l’occhio: sera : povera, di libera varianza della vocale finale: speranze : anzi : avanzi: avanza, di raddoppiamento consonantico ulteriormente slittato a semplice rima visiva: febbre : latebre : lebbre : palpebre, di rima fra particelle atone: si : di, di anima che nel diciannovesimo testo rima solo con sé stessa, a suggerire il valore di parola chiave), ma la novità è rappresentata dall’estrema varietà di ritmi adottati, dall’abbattimento dei vincoli interni al verso: ancora una volta, Raboni utilizza gli istituti tradizionali ai propri fini, sembra anzi voler dimostrare che è ancora possibile scrivere sonetti in endecasillabi (misura precedentemente evitata) senza per questo scivolare nella musicalità gratuita. Si veda in particolare il primo componimento, che inizia con un inconsueto endecasillabo con accenti in prima e in settima sede (si considerano, ovviamente, gli accenti primari): «Sogno infaticabilmente da un po’», ma che poi ricorre anche ad accenti in quinta posizione: «del vero, rifletto, la verità; o», «della ritrovata solarità», «per farsi non dico intrepido ma» o, ancora, in seconda e settima: «invece nel deperibile ardore». Se a tutto ciò si aggiunge l’uso dell’enjambement, anche in sedi molto accentuate («chi mi fa cenno di / là »), il gioco delle allitterazioni e delle paronomasie: «sogno… segno», «persi, presi perdutamente», «nessun rombo rompe», del polittoto ecc., si avrà ben chiaro il fatto che il sonetto raboniano non ha la misura classica nello svolgimento, l’ordine interno di sviluppo del pensiero, ma si riduce ad apparenza tipografica, a gabbia per tenere insieme un’unica colata verbale, non priva nemmeno delle consuete movenze prosaiche e colloquiali.

Il poeta con questi mezzi domina la materia incandescente, a tratti onirica, dei pensieri, in una condizione ambigua «di troppa vita o che manca», in cui si insinua il dubbio che la «verità» si ritragga, per maggior ritegno, dalla stessa realtà, per cui serva maggior perspicuità per leggere negli avvenimenti della storia e della vita. Può tornare così a parlare poundianamente di stato e di capitale, della devozione per i morti e del mistero della resurrezione della carne, della città e ai suoi illustri antenati, dei propri ricordi e di degenze ospedaliere, di patria e di crimini, della consunzione del corpo e della salute dell’anima, di poveri untori e di regali di cartapesta, della felicità sua e dei morti. A trionfare, infine, è un sentimento di eclatante speranza, anzi, di «calma / radiosa» che nasce dalle stesse ceneri della speranza, grazie alla quale è possibile cogliere una verità semplice e perfetta: «Luce // da buio o luce da luce e per quanto / tempo d’anni o minuti e di che spine / irto soltanto loro, gli esiliati // dal tempo lo sapranno, io so soltanto / che le foglie crescono, che i malati / muoiono, che il mattino non ha fine». In questa irriducibile elementarità Raboni riassume tutti i motivi del proprio percorso con un esultante sincretismo, e ci indica infine le parole più nuove e forti della sua poesia, gioia e luce: «Gioia mite e ultima, mite febbre / d’ottobre»… Attraverso di esse riconquista il presente («Non di questo presente ora bisogna / vivere – ma in esso sì») e il senso della sua gratuità:

Niente può rovinamerla la festa
del mattino, quando il sole che dà
fiato alla sua raucedine ridesta
a dolori e crimini la città

che amo e nel cuore la felicità
d’esserle ancora complice. S’arresta
a questo confine la potestà
di numeri e fantasmi, qui la cresta

sbrindellata alza la vita e tace
l’arcangelo del rimorso. È la luce
la mia morfina. Su, mi dico, datti

da fare, mostra di che sei capace,
ficca mani e naso dove riluce
come un tesoro l’ovvietà dei fatti.

* * *

Si apre già con Ogni terzo pensiero, dunque, una vera e propria fase paradisiaca dell’opera raboniana, che già ci offre un ulteriore indizio di sé attraverso la plaquette dal titolo Nel libro della mente (edita nello stesso 1997 da Scheiwiller): «Tanto difficile da immaginare, / davvero, il paradiso? Ma se basta / chiudere gli occhi per vederlo». Qui il poeta prende anticipatamente commiato dai vivi, per ricongiungersi con il suo «reggimento» di «sfrattati // dal tempo, i clandestini, gli abbonati / fuori elenco a telefoni che hanno / numeri di cinque cifre soltanto». L’ironia con cui il poeta descrive la sua condizione esistenziale (per esempio scherzando su un errore malandrino della vista, che lo ha portato a leggere la scritta «Ricevitoria del lutto»: «Mi è successo davvero, un giorno, in via / della Scrofa, venendo da Ripetta») si veste di lieve malinconia, anzi, di “nostalgia del futuro”. Così, dice, sarà come abbandonarsi a un sogno quando l’anima e la mente, «la più urgente delle volte […] una / per volta passerete dalla cruna». Ma tutto questo non significa ricusare il presente, che rientra ancora nella sua ottica anacronistica per mezzo di una patente eco luziana (al poeta fiorentino si possono forse addebitare altre suggestioni paradisiache): «e forse è grazia / che sia così, grazia per chi s’appresta // a lasciare la vita e ancora strazia / il moto che la consuma». Ben saldo infatti resta il moto di adesione al tempo: i giorni anzi rivelano proprio a partire dal sentimento della vanità delle cose la loro miracolosa sostanza: «Niente sarà mai vero come è / vero questo venticinque dicembre / millenovecentonovantatre / col suo tranquillo traffico d’ombre // per corsie e sale e camerate ingombre / di vuoto e il fiume dei ricordi che / rompe gli argini in silenzio».

è in virtù di tale esuberanza che per il poeta diventa ancora possibile assecondare gli uomini con il suo “canto” per «far festa qui, bruciare qui le scorte / di incenso e febbre al turno delle pene»: come se il presente fosse sempre e solo un anacronismo, rispetto all’eternità.

 

[1] Interni clinica riprende la Ballata scritta in una clinica, così come le prose inserite da Raboni in alcune raccolte hanno come antecedente esplicito le prose montaliane che seguono, nella Bufera e altri versi, la poesia ricordata.

[2] Giovanni Raboni, Poeti del secondo Novecento, in Storia della Letteratura Italiana, vol. IX: Il Novecento, t.2, Milano, Garzanti, p. 216 e sgg.; interessante in queste pagine è proprio il raffronto fra Risi ed Erba.

[3] La definizione è dello stesso Giovanni Giudici: cfr. Antologia della critica, in Giovanni Raboni, Tutte le poesie (1951-1993), Milano, Garzanti, 1997, pp. 354-357.

[4] Oltre a Notizia, poesia che abbiamo riportato, si consideri il testo che la segue, dal titolo Tovaglia: «A che serve parlare con gli amici? / quasi tutti s’arrabbiano, o ridendo / si picchiano la fronte. Si parla di dissesti, / di cantanti invecchiate o dimagrite. Fuori / la notte si gonfia come un gufo. / E siamo pochi, troppo pochi a patire / tanti capi d’accusa: / l’uovo, il pane, il bicchiere / posati sulla mensa / come parchi strumenti di tortura».

[5] Giovanni Raboni, Poeti del secondo Novecento, cit., p. 233.

[6] Ibidem, p. 216.

[7] Il riferimento è alle poesie Portale, Romanzo, Dal vecchio al nuovo, Dilazione seconda e, per il titolo, Bambino morto di fatica ecc.

[8] Giorgio Luzzi, «Poesia», a. X, luglio/agosto 1997, n. 108, p. 47.

[9] Vi è peraltro una sovrapposizione anche con la successiva raccolta, Nel grave sogno (1965-1981).

[10] Piergiorgio Bellocchio, L’itinerario poetico di Raboni, «Quaderni piacentini», a.XIV, n.57, novembre 1975, pp. 149 e 148 (ora nell’Antologia della critica in appendice a G. Raboni, Tutte le poesie, cit., pp. 317-327).

[11] Ibidem, p. 147.

[12] Patrizia Valduga, Requiem, Venezia, Marsilio, 1994.

[13] Motivo che riaffiora anche in altri luoghi: in Lista di Spagna: «Diranno: doveva capitare / qui, tra cari fantasmi, / tra specchi amari… / Ma se non uscivamo quasi mai, / se nemmeno aprivamo la finestra».

[14] «Il calo di tensione che vi avverto mi sembra determinato da un dominio della materia troppo perfetto, dall’assenza di quel contrappeso, resistenza, frizione (in definitiva, la storia) che fa la forza della migliore poesia di Raboni (una poesia un po’ eminentemente dialettica)» (Piergiorgio Bellocchio, cit., p.151).

[15] Giorgio Luzzi, cit. p. 47.

[16] Cfr. Andrea Zanzotto, Sì, ancora la neve («perché si è fatto bambucci-ucci, odore di cristianucci»), nella raccolta La beltà, del 1968.

[17] Si possono, è evidente, trovare più maniere all’interno dell’itinerario poetico del poeta, ma mi sembra siano da mettere in risalto i picchi di massima differenziazione. Considero dunque Gesta Romanorum un momento troppo esiguo per definire una stagione creativa autonoma (si tratterà, al più, dei resti della “preistoria” poetica del Nostro), Le case della Vetra, Cadenza d’inganno e Nel grave sogno il trittico di una prima maniera, Canzonette mortali e A tanto caro sangue (libri peraltro assai esili) i documenti dell’elaborazione di una nuova espressività, Versi guerrieri e amorosi il primo, e ancora ambivalente, libro della seconda stagione raboniana, che si definisce compiutamente con Ogni terzo pensiero.

[18] «Pensavo / polvere, non cenere; non / arso, pensavo, né centrifugato; / polvere: e diventarlo / a poco a poco, a poco a poco sperdere / il duro delle ossa», dirà  nei Codicilli di A tanto caro sangue.

[19] Il titolo deriva probabilmente da una massima di Mao Tse-Tung: cfr. Giovanni Raboni, Contraddetti, Milano, Scheiwiller 1998, p. 45.

 

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