Le ali dell'incomprensibile, di Silvia Pastano, acrilico e sabbia, tela, 2012 (qui uno degli elementi del dittico), 50 cm x 100 cm x 4 cm

Il poeta oscuro e il lettore smarrito

(L’opera scelta come copertina è di Silvia Pastano.
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Di tanto in tanto, il fantomatico lettore di poesia si materializza. L’ultima volta che ne ho incontrato uno è stato durante un incontro in cui si discuteva intorno alla mia generazione. Quando ha preso il microfono e si è messo, con buone maniere, a lamentarsi per il nostro incomprensibile e stucchevole parlarci addosso, intorno a questioni varie (“menate”) che finiscono sempre per annoiare e allontanare anche i pochi lettori rimasti, si è sollevata dalla platea una sacrosanta ovazione. Ho applaudito anch’io, consapevole delle sue ragioni, ma anche dispiaciuto di non potergli rispondere a dovere.

Intanto, quando si parla nello specifico di determinate questioni non si sta facendo (o non si dovrebbe fare) spettacolo, né quello era un incontro con un intento divulgativo, per cui non sono sorpreso del suo senso di estraneità rispetto agli avvitamenti intellettualistici (spesso francamente eccessivi) di tanti poeti. Io non sono immune al rischio, consapevole che ogni parola autentica ha in sé una direzione: in quel contesto per esempio anch’io mi rivolgevo direttamente ad altri, indubbiamente, perdendo di vista il “lettore generico”, quello che non scrive versi (una sparuta minoranza, che in una sala gremita si contava su una mano, stando al rapido sondaggio improvvisato).

Ora, non credo di dover dimostrare quanto la divulgazione della poesia mi stia a cuore, non solo come poeta, ma anche come insegnante. Più volte mi sono prestato persino all’imbarazzante analisi dei miei versi, di fronte sia a studenti disorientati sia a “colleghi” di mestiere e d’arte. E, anche grazie all’esperienza della scrittura di un romanzo, ho espressamente provocato i poeti a non perdere di vista il “pubblico”. Il pubblico: entità misteriosa su cui mi sono sempre interrogato.

Non è mia intenzione, ora, argomentare teoricamente intorno all’annoso nodo della mancanza di lettori di versi altrui, ma lasciare semplicemente la mia testimonianza di poeta. Per quel che vale.

Ora, potendo dar per scontata l’esistenza di tale lettore di poesia, avendolo visto di persona e potendo contare su parecchi testimoni, bisognerebbe cominciare a capire che cosa veramente legga e che cosa cerchi, il tipo. Non avendo avuto il tempo di entrare nel merito con l’interessato, mi limito a immaginare che egli navighi con disinvoltura, quanto meno, nei versi di Montale («Arremba su la strinata proda / le navi di cartone…», «Aggotti, e già la nave si sbilancia…»). Di sicuro, sarà pronto ad ammettere che non esiste un’unica forma di poesia, ma esistano poeti che scrivono in maniera semplice e altri che scrivono in maniera complessa e, per quanto ognuno avrà le proprie preferenze, si dovrà convenire che ci sono autori indubitabilmente grandi sia in un fronte sia nell’altro.

Noi non leggiamo Dante (ma noi, leggiamo Dante?) perché sia semplice, ma perché è Dante. Questo è il punto. Poi, certo, egli ha compiuto la scelta pazzesca di abbandonare il latino per il volgare, ma non è arretrato di un passo rispetto ai dettami della propria arte, anzi, li ha persino innalzati a più riprese.

Tutto questo per arrivare semplicemente a protestare che, come poeta, ho un profondo desiderio di essere letto e capito, che sento spesso sulla mia nuca le pupille del mio interlocutore, ne avverto il fiato sulla fronte, sento sottopelle il pulsare delle sue attese, eppure non mi è dato di tradire in alcuna maniera la materia a cui, pure, mi sforzo di dare una forma. Non posso scadere nella semplificazione: la mia fedeltà al dettato che mi si impone è parimenti un atto di fiducia e di rispetto nei confronti del lettore stesso, che reputo sia in grado, magari a costo di un po’ di fatica, di seguirmi. E, quando non è così, non so che farci. Ci sono lettori che attendono poeti che siano guide turistiche per il paesaggio che hanno già sotto il naso; ci sono scrittori-sherpa che aprono vie impervie e persino pericolose.

Quando scrivo nel poemetto Terramadre versi come:

Coloro che precedono in ascolto,
i prediletti, vegliano sul fiore
a cui hai rubato il nome. Sono un ottimo
concime nel cortile disertato
dall’infanzia più feroce e felice.
Perché istigarli? Tempo sarà dato
anche agli altri. Chi passa e legge avrà
l’eternità per comprendere questo
momento, questo ammonimento: dio
porco che grufoli sotto la pietra
e la materia profani, essa è ventre
in pace, mamma-mummia per ciascuno

so benissimo di scrivere in modo difficile, condensando nel poema una grande quantità di riferimenti strettamente personali, congiunti a un immaginario poetico che non è solo mio, ma che non è per nulla scontato che il lettore sappia individuare e decrittare. So benissimo che a un primo impatto si potrà intendere come una bestemmia quello che è invece, per me, il più alto momento di preghiera di cui sia stato capace, ma in poesia non posso che supplicare il lettore a insistere («Si potrebbe svelare tutto, prima / del confine che il lettore non osa», scrivo poco oltre e, dopo una pausa, riattacco: «Tutto è così difficile… Daccapo: / saldiamo adesso il conto con la morte / una volta per tutte, prima che.»).

In conclusione, annoterei questo. Caro lettore, quando un poeta non si rivolge esplicitamente a te, quando magari non ti risulta comprensibile e ti sembra che sia del tutto autoreferenziale, abbi un po’ di pazienza e potenzia il tuo ascolto: forse sta semplicemente cantando.

 

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