Lo strano caso del mio nuovo libro
(L’opera scelta come copertina è di Giulia Gellini.
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Io non l’ho ancora visto, eppure non è comparso solo sul web, pare sia stato avvistato anche nelle librerie. Si tratta del mio nuovo libro: La tentazione del metodo. Letture critiche. Ma sarà vero?
Il mistero si infittisce a considerare il titolo: per me era da sempre Letture critiche, ma è stato bravo Paolo Lagazzi a non darmi tregua fino all’ultimo, finché è spuntato quello attuale: La tentazione del metodo. Un titolo definito in extremis eppure perfetto, tanto che io stesso mi sono chiesto perché non l’avessi scovato prima. E tuttavia, è davvero questo il titolo? Sui principali rivenditori del web compare al plurale…
Come se non bastasse, è una sorta di libro postumo, uscito con me vivo. Appena chiuso i conti con il mio nome e lanciata l’avventura della profezia privata, ecco che sbuca quest’opera. Ma forse è vero che solo i morti possono scrivere profezie veritiere.
Il libro doveva uscire anni fa, eppure un po’ tutte queste circostanze lo stanno trasformando in qualcosa di imprevisto: non un documento più o meno interessante, ma comunque inerte, bensì un meteorite impazzito che ha cambiato traiettoria e, dopo aver fatto perdere le proprie tracce, si presenta mentre punta dritto al cuore dell’autore. Sì, voglio un bene particolare a questo libro, nato come un figlio minore, capace adesso di far saltare i conti e di sorprendermi.
“La giusta comprensione di una cosa e la incomprensione della stessa cosa non si escludono. (Franz Kafka)”
Grazie anche a Giulia per l’immagine di copertina, riprodotta in questa pagina.
In una mia poesia, iniziata qualche anno fa e terminata pochi mesi fa, un verso dice:
/è il futuro il tempo dei morti./
Non mi è mai stato chiaro del tutto il suo significato, la sua portata esatta; a dire il vero la evito pur avendolo – il verso – qualche volta spiegato goffamente a chi me ne ha chiesto ragioni. Se vi è un’immagine drammatica nel senso che tutto morirà, che tutto è inutile etc ok, ma non la esaurisce. Non c’è solo credo ed esclusivamente un piacere narcisistico per un decadentismo fine a se stesso ( che è sempre la mia croce, il mio dubbio, il mio cliché nel quale divento disonesto e mi crogiolo) subodoro invece anche dell’altro, ma non so esattamente cosa.
In un’altra poesia ho scritto:
Gli ultimi non saranno i primi / a rintracciare i propri avi/ in un loculo perpetuo./
Anche qui, trafugando Matteo, non so esattamente in quale punto, sembra proporsi il medesimo cortocircuito. La’ dove erano gli ultimi qui sono gli ultimi nati, quelli ancora in vita, mentre i primi sono quelli morti, nati prima degli ultimi, non so…
Oggi, leggendo questo ed altri articoli, sul lettore per esempio, mi cattura, oltre la vicenda del libro come irruzione di un reale, la riconferma della fascinazione per la formula “profezia privata” seguita da …solo i morti possono scrivere profezie veritiere…ritrovo, detto da un altro, una piccola conferma di uno sfondo comune dal quale si è staccata un’intuizione mi pare simile a quella del mio verso. Ovviamente qui ne hai parlato a dovere e lucidamente di questo spostamento del soggetto che scrive da morto, che scrive dall’al di là. Io mi sono limitato a subirne la fascinazione e non escludo che stia dicendo solo delle demenze. La cosa però è seria. Pare voler rispondere o a porre in essere una domanda forse assurda o peggio gratuita: da dove scrivo quando scrivo?
La mia risposta è oggi: scrivo nel tempo.
La poesia, forse, è la scrittura del tempo, perchè è l’unica che ne batte fisicamente il ritmo, lo inventa e lo fonda. Non apre forse la condizione di “sentire” il tempo? Lo fa anche un quadro è chiaro, essendo un quadro una successione di pennellerete, ma il suo risultato va da altre parti e la considerazione della successione delle pennellate è più intellettualistica che altro…mentre la poesia rimane indissolubilmente legata al tempo che scorre, sia quando la si fabbrica che quando, infine, la si legge. La lettura di una poesia è letteralmente chiamare sulla scena il tempo, leggerla è essere nel tempo. Il tempo pare in un lampo mostrarsi. Non appena la si termina il lampo sparisce, il vuoto evocato si richiude alle spalle della voce e noi ricadiamo, necessariamente, nell’ordinario.
Credo dunque che la poesia tenti di porsi alla fine, all’estremo del dicibile. Ovviamente il tratto che dovrebbe restituirci un senso e un significato rimarrà nascosto, rimarrà appunto indicibile perché é tale da sempre e non vedo nessuna possibilità logica di accedere a una realtà fuori del linguaggio, ma questo non impedisce di andare a grattare la barriera, di spostarci dunque nel punto più vicino della propria morte che dovrá temporalmente ancora avvenire ma che è già data, presente qui e ora, nel tempo battuto dal verso, nel ritmo binario del respiro, sul tamburo su cui si batte e si leva.
E allora?
E allora, se fossi un Maestro, direi che ti sei ben incamminato sulla via della Conoscenza. Ma non sono un maestro, e allora dico che è bello abitare insieme questa domanda. Da dove si scrive, quando si scrive poesia? Da un luogo in cui tu ed io proveniamo (e/o verso il quale andiamo), se nei nostri linguaggi diversi profetizziamo gli stessi eventi. (Togli pure il colore sacro o religioso a queste espressioni, e tieni per vero il nocciolo duro dell’esperienza che esse indicano)