Traditions, di Tobia Anzanello (45x35 cm, oil on canvas)

Un’improvvisa timidezza

(L’opera scelta come copertina è di Tobia Anzanello.
Cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa)

Sono qui i maschi abbrustoliti dalla strada,
i più arrendevoli sposi, i padri vinti
che la morte astuta decima col sonno
di colpo sui viadotti, o per lenta cirrosi:
scoprono i denti, in fondo a quelle bocche
vedo bagliori d’oro, vedo stoppie
avanzate di cipolla e di pernice
e per me il dono di un’improvvisa timidezza.
Tra noi, in silenzio, sparecchia una bambina
svelta come una brezza.

Matteo Marchesini

Il giovanissimo Matteo Marchesini (classe ’79) è recentemente balzato all’onore della cronaca, nelle catacombe in cui bazzicano ancora i poeti, per un saggio pubblicato sull’Annuario di Castelvecchi: lavoro eroico (quantomeno per ampiezza di analisi) sugli autori che hanno esordito nell’ultimo decennio, sviluppato senza badare troppo alle sigle editoriali. Basterebbe quel documento di furiosa dedizione per cogliere lo spirito insieme sobrio e garibaldino, timido e risoluto, che contraddistingue anche la sua poesia, già ospitata proprio sull’Annuario, poi nell’antologia Dieci poeti italiani (Pendragon 2002) e ora approdata al volume intitolato Asilo (Edizioni degli Amici). Solo un giovanotto di belle speranze poteva permettersi la mancanza di cautela nell’affrontare a visto aperto centinaia e centinaia di libri, senza lasciarsi incantare dalle convenienze e dalle infinite ipocrisie di chi attraversa, appunto, le segrete di un mondo in cui ciascuno bada a difendere il proprio angolo di sopravvivenza o il presunto prestigio che, appena un metro più su, all’aria aperta, è meno che una patacca secca. C’è da sospettare che Matteo diventi ora un facile bersaglio: buono come ariete ed esca finché sfanga con la prosa critica, ora inerme come tutti nel presentare i suoi versi.

Dico tutto ciò non per legittimare un approccio aneddotico, sociologico, generazionale o altro per i poeti “giovani”, ma per smascherare gli infingimenti che complicano la lettura di un’opera, l’ennesima, che, in quanto poesia, ha la pretesa di rivoluzionare la tradizione, di scardinare i giudizi assodati, di sollevare i coperchi per capire che cosa veramente bolle in pentola (fuor di metafora, ciò che preme al fondo del nostro tempo), mica di trovare un suo cantuccio. Del resto, anche Paolo Febbraro nell’introduzione compie il medesimo giro su se stesso per liberarsi delle consuetudini (additare in un giovane le ascendenze e prendere posizione sul futuro dell’astro nascente) e guardare la poesia per quel che è. E di cose da dire ce ne sarebbero molte: l’eclettismo formale, certi stilemi novecenteschi non ancora superati, il morso del desiderio che preme inquieto, l’iperconsapevolezza letteraria che spesso fa attrito (piacevolmente) con l’irruenza giovanile, come se l’autore si concedesse le proprie ingenuità… Noi, sulla scorta dei versi riportati, annotiamo, dentro la ricerca di capienza espressiva per accogliere quanto più mondo possibile nel testo, la comparsa di un’improvvisa timidezza.

Questo sguardo da bambino guerriero che fa capolino tra le rovine letterarie e civili delle nostre «mille Italie» va raccolto, va sostenuto. Non è (solo) quello del poeta: è il nostro.

 

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