La colpa di non essere madre
Non vedo l’ora di ricavarmi un attimo di tregua dagli impegni scolastici, per godermi la lettura del nuovo libro di Francesca Serragnoli, Aprile di là. Ma si sta lavorando davvero molto, e al momento mi accontento di andare a riprendere una piccola, inadeguata riflessione sui versi di quest’autrice, un’anima che sento per tanti motivi sorella.
(L’opera scelta come copertina è di Monia Perrone.
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Quando un bambino
di pochi mesi
con i riccioletti sudati
con un puntino rosso di zanzara sulla fronte
ride
mi si sgretola il corpo
la testa gira come la Terra
il cuore si contrae come una spugna
Francesca Serragnoli
«È un desiderio folle e lontano quello che ci vuole madri adoranti di un bambino. È una menzogna pensare che questa realizzazione ci renderà felici, è una menzogna pensare che non ci renderà felici. Di fatto il non essere madre vuol dire avere vuoto quel povero dolente fianco della vita o della memoria». Con queste parole Giovanna Sicari introduce Il fianco dove appoggiare un figlio (Re Enzo editrice), raccolta d’esordio della trentunenne Francesca Serragnoli, che lavora presso il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna, la sua città. L’immagine che ci restituisce questa raccolta è quella di una donna forte e fragile insieme: fascio di nervi tremante, corde d’arpa suonate da ogni brezza. Perché il poeta è strumento sofisticato: sente indurirsi l’osso del passero prima del volo, percepisce il minimo sussulto nell’ombra.
Leggiamo: «Guardo la gioia senza pronunciarla», e negli occhi colmi di tristezza che ci entrano nell’immaginazione vediamo specchiarsi proprio quella gioia che a taluni sembra negarsi. Ricordate Montale e la sua Felicità raggiunta: «non ti tocchi chi più t’ama»? E ancor prima Leopardi, che ci insegnava ad amare la vita come nessun altro – proprio lui, reietto da ogni bene?
Eppure non c’è posa letteraria nei versi di Francesca Serragnoli. Chi scrive sa che «non si può essere / attraenti solo nel pianto». C’è dramma vero: «Non so più dove mi trovo / luce operatoria cielo doloroso… / questo è il luogo / dove lancio le mie paure come uccelli / o non avrò più un figlio». Non è un caso che il libro si apra su un tenero ritornello, dal sapore quasi taumaturgico: «non avere paura»… Per questo non si può non essere grati all’autrice per la sua stessa resistenza all’orrore. Troppo prezioso è il dono di chi racconta il disequilibrio cui è costretto chi ha vuoto il fianco materno: dono che responsabilizza per la pienezza che talvolta è concessa.
Forse ancora oggi, anche se non ce ne accorgiamo, il poeta è una creatura destinata a consumare il proprio calice amaro per tutti: corpo sacrificale che non ha altari e che per ciò stesso compie la parte che gli è data con maggiore verità. Il suo compito altro non è che quello di renderci responsabili della vita.
È, questa, una visione troppo eroica del poeta? Nessuno qui vuole rendersi attraente nel dolore. Non c’è investitura, tutt’altro. Eppure, col destino non si bara. Chi fosse scettico, dunque, è pregato di leggere.
(da Mosse per la guerra dei talenti, 2007)
Avverto un certo piacere nell’esporre costantnente il corpo del poeta come corpo sacrificale. Più è reietto meglio è. È un’operazione per sottrazione, quasi una costruzione mitologica ecco: pare che più si tolga a costui la possibilità di incidere realmente ( con la diffusione della sua poesia, meglio non pubblicare etc) sulle persone e più diventi significativo il suo esilio, il suo silenzio. Più sparisce dalla scena meglio appare. Eroico disperato…eroe negativo, non so, direi da come ne parli, un’immagine che tende ad avvicinarsi al mito, al martire. E non mi riferisco solo a questo articolo.
Del resto sto scoprendo a pezzetti che è pur vero che occorre un atteggiamento retto, contro ogni compromesso…che si esige l’onesta ( il t9 ha scritto obesità) più ferrea per potersi lanciare nella pagina. O almeno credo. Se così è allora sia: il poeta è un martire. È un martire? A sto punto diciamolo. La sua innocenza conclamata viene professata come omologa alla stessa del cristo sul Golgota; se egli deve riportare, registrare anche il più piccolo sussulto della morte e della vita, e farlo integralmente, sì, è innocente, quindi la vittima perfetta, non più un capro-espiatorio (che lo si uccide perché lo si ritiene colpevole)
Ma la domanda, se posso,mi rimane: tu, personalmente, quanto ne godi di questo? Avverti quanto me, in questa immagine, ( tralasciamo da parte l’evidente dismisura di bravura e di preparazione che esiste ) un piacere morboso che travalica quell’umiltà che stiamo dicendo occorre per scrivere, la stessa nudità che viene implicata per aderire meglio al mondo etc?
Siamo nudi di tutto tranne che del piacere che traiamo nel vederci sconfitti?
E se sì, non ritieni che la poesia, lo scrivere poesia, non sia spinta in grande misura proprio da questa necessaria morbosità, fascinazione, narcisismo? La morte, L’assenza, L’abisso, da dati ovvi e sensibili ( il mio morire) non devono appunto far leva sulla fascinazione, sul puro godimento per poterli dire?
Non so se il poeta di cui parli dica per intero come stanno le cose quando scrive che “non siano attraenti solo nel…” certo questo è lo stadio più basico del narcisismo, staccarsi dalla prima pelle. Ma vi è un secondo stadio implicato, più profondo: che siamo però attratti dal pianto, dal dolore, dal male molto più che dalla semplice economia del benessere, del puro e semplice evitare un dispiacere.
Ora mi chiedo: se il poeta è così attratto verso il limite del dicibile, con quali forze può trascinarvisi se non provando un piacere più forte del suo stesso spirito di autoconservazione? (di qui il martirio? L’autoimmolazione?) Come riesce, come fa, dove trova la forza di indossare dieci chili di tritolo ed entrare al centro del suo dramma se non con un al di là del piacere?
Grazie.
Caro Massimiliano, sono giorni furiosi, per me, senza tregua. Anche: belli. Come sempre (ma gli ultimi due in particolare) i tuoi commenti sono di una profondità lancinante. Ma ho spiccioli di parole, adesso, sono lavorato ed estroflesso. Sì, comunque, la poesia a certi livelli è una soglia, vive in una zona di contrabbando, è sospesa tra due diversi (diversi?) abissi. Posso dirti dell’intenzione di superare il narcisismo, di tuffarmi nell’immagine e distruggerla. Di morire nell’io e nascere nel Sé. Ma ci sono riuscito? Le mie sensazioni sono positive, ma non so quel che traspare da questa lotta nel corpo della mia opera. Sì, il dolore attrae, il martirio è un compiacimento. Ma visto solo da una certa parte. Forse c’è una soprannaturale calma, da abitare nella lotta. Forse a un certo punto le dicotomie della ragione vanno a farsi benedire. Anzi, restano lì, incantate.
Scusa queste poche parole, vorrei poterti rispondere meglio, ma adesso sono altrove.
Va benissimo così. Grazie.