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La variante di Geiger

Avevo promesso di raccontare alcuni aneddoti intorno ai premi letterari e ogni promessa è un debito. Sono finiti in questo testo.

Abbandono difilato la classe al liceo nel giorno in cui tutti si capacitano del fatto che Bob Dylan ha davvero vinto il Nobel per la letteratura. Altri torna invece a chiedersi se Dario Fo, uscito di scena per l’occasione, si fosse poi meritato il suo. Chissà se ce la farò ad aggregarmi in tempo alla cerimonia del Premio Geiger. Ma chi me lo fa fare, con questa pioggia, dopo una settimana di impegni persino serali. Come se non bastasse, allerta meteo in Liguria, mi hanno detto. Ma non esito, così avevo deciso prima del responso e così sarà, in omaggio ai premiati. Fatto sta che Dylan ha vinto il Nobel. Chi l’avrebbe detto.

Per fortuna la pioggia pare cessare. Pioveva, mi pare, anche il giorno in cui cominciò a incrinarsi la mia fiducia nei premi letterari. Al liceo, come si fa a non credere ai premi letterari. Ma quando per la sezione scuole elementari la presentatrice si mise a declamare i versi della bambina seconda classificata, rimasi basito. “Sogni che ti camminano accanto / Sogni che non ti fanno dormire / sogni che non ti vuoi raccontare / troppo grandi per poterne parlare / troppo dolci per doversi svegliare”. Parole di Edoardo Bennato, ma solo io me ne accorsi, pare. Certo, Edo non è Bob. Per questo la bambina era arrivata seconda.

Il cielo è grigio e greve, ma per ora tiene, pare. Eppure, ho incontrato anche giurie esperte. Una volta a un altro premio (sempre da liceale) uno dei critici divagò in merito a una domanda sui poeti contemporanei. Ne citò uno, Milo De Angelis. Nessuno lo conosceva. Nemmeno io, ovviamente, ma fui l’unico a rimanere ferito della propria ignoranza, pare.

Che sonno, in questo venerdì pomeriggio. Peggio di quando in platea ti tocca sorbirti la lettura dei versi mielosi dei concorsi di provincia. Una volta, però, la lettura del mio testo mi servì. L’attore lesse malissimo, ma il punto è che a un certo punto io stesso, di fronte al mio testo, rimasi stupito quando comparve una strofa di troppo. Non fu un errore dell’attore. La strofa c’era. L’avevo scritta io. Ma sentire il mio testo letto da un altro mi fece capire che il testo finiva prima, e non me ne ero mai accorto. Appena rientrai a casa, cancellai la strofa. Del resto, la pessima lettura di un testo è sempre una prova utile, da allora mi esercito anch’io, faccio il patetico o il cinico con le cose che scrivo, ci metto proprio il birignao, per vedere se la voce piega le parole, o se le parole piegano la voce.

Accidenti a quell’idiota che mi si butta davanti. Lo so che sto tirando un po’ troppo, ma ho detto che sarò presente e voglio esserci. Cerco alla radio qualche canzone di Dylan, ma niente, faccio partire le opere di Olivier Messiaen. Magari mi passa la rabbia per le auto che si piazzano in corsia centrale anche quando non c’è nessuno. Che sfacchinata, comunque. E chi sarà mai stato Hermann Geiger. Non importa, così avevo scritto e così sarà. Non sarà peggio di quella volta che andai a Roma e tornai il giorno stesso. Certo, ancora liceale, altrimenti perché l’avrei fatto. Ma quello fu un giorno memorabile, fu il giorno in cui compresi appieno il senso dell’amicizia. Non fu merito della giuria, ma del mio amico. Sì, il mio miglior amico volle venire con me. Ma chi glielo faceva fare. Ma tutto il viaggio in treno mi tenne compagnia, mi aiutò a sopportare l’aria snob che regnava in quella sala maestosa del Vittoriano. Lui ricorda ancora il volto della babbiona ingioiellata che si girò domandandoci come mai due bei giovanotti come noi fossero interessati alla cultura. In verità, lui le disse, il mio amico è il vincitore del premio. Io però del premio ricordo solo che uscendo sulla scalinata dell’Altare della Patria, allegri come possono esserlo due giovani con Roma di sera ai loro piedi, io gli dissi, tanto per dire, che magari la prossima volta il premio l’avrebbe vinto lui e anch’io lo avrei accompagnato. Ma lui mi rispose in un modo che mi fece capire che cos’era l’amicizia. Non era questione solo delle parole, ma del tono, che ovviamente non so trascrivere. Ma guarda, disse, che io non sono venuto per il prestigio del premio, ma perché ero felice per te. Ecco, allora capii che non è mica vero che l’amico si vede nel momento del bisogno, cioè, sì, è vero anche quello, ma è vero soprattutto che si vede nel momento in cui non hai bisogno. L’amico è lì vicino a te e ti incorona nel giorno della vittoria, senza invidia, senza cercare di godere di luce riflessa. Troppo facile aiutare, si manifesta potenza.

Accidenti, in Liguria l’autostrada è un casino. Devo svegliarmi ben bene. Altro che Messiaen. Per fortuna che, se non altro, non piove. Chissà chi era Hermann Geiger.

Comunque, non ho mica un’esperienza solo liceale, dei premi. Quella volta che, segretario con voto in giuria, non potevo mica inimicarmi i professori con cui stavo per laurearmi in università, per cui fummo in minoranza, e ci toccò premiare a Orta il solito nome, il poeta famoso che non si poteva non premiare, peraltro docente anche lui nella stessa università (ma con lui non mi sarei laureato, io), mentre fosse stato solo per noi avremmo premiato altri, che poi oggi è diventato abbastanza famoso anche lui, ma allora lo conoscevo quasi solo io, di certo i miei docenti universitari proprio non lo conoscevano, e se lo avessimo premiato al posto di quello che ci è toccato premiare avremmo fatto scandalo. O quella volta che, avendo piena libertà di decisione per la sezione giovani, che poi giovani in poesia sono autori ormai uomini fatti, qualche volta persino già vecchi, ho premiato un libro che non aveva nemmeno partecipato. Quindi, mi disse il vincitore contento, io ho vinto il mio primo premio a un concorso senza nemmeno aver partecipato. Così pare, gli dissi. E non lo feci mica per compiacerlo, tanto che non potevo sapere che, anni dopo, lui mi avrebbe spinto a partecipare a un concorso prestigioso, della prestigiosa fondazione che ora dirigeva. Sì, lo confesso, ho partecipato a quel concorso controvoglia, perché ormai avevo deciso di non badare più ai premi, ed ero persino immanicato. Però qualche soldino mi avrebbe fatto comodo, in quel momento. Però, ecco, non vinsi, non entrai manco nei finalisti. Vinse Chiuchiù. Meno male, mi dissi, che io ho premiato una persona onesta, mica solo un bravo poeta.

Chissà chi era Hermann Geiger. Mannaggia, che viaggio. E che fame. Adesso la giuria sarà all’aperitivo a festeggiare, con i premiati. Avevano invitato anche me, certo, ma mica potevo abbandonare i miei ragazzi al liceo, e mi hanno invitato un po’ troppo tardi. Adesso si annuncia persino la pioggia. Passo la linea gotica che pare debba venire giù il diluvio. Chi l’avrebbe detto, Bob Dylan. Che fame. Ho pranzato anche di fretta, avevo colleghi da aiutare, in difficoltà con la tecnologia. Che settimana pesante. Che viaggio. Bob Dylan. Chi me l’ha fatto fare. Chissà chi era.

Accidenti, quasi sbandavo, un colpo di sonno. Il buio. La pioggia. Cerco con la mano destra una caramella, magari mi sveglia un po’. Piemonte Liguria Toscana. Ci siamo, dài, anche questa volta. Perché.

Per fortuna mi guida il navigatore, passo proprio davanti all’hotel. Dai che ci siamo, sono in tempo. Trovo parcheggio, prendo il piccolo bagaglio, cerco di non bagnarmi troppo, fatico a tenere bene l’ombrello perché c’è pure vento. L’hotel, l’ascensore, la camera. Mi do una rinfrescata. Che fame. Ho dieci minuti, mi distendo un attimo, ma ho paura di crollare e di passare la serata della cerimonia qui, pensa che beffa, così mi tiro subito su. 

Dai, andiamo. Altrimenti mi addormento anche in piedi. Il posto è qui vicino, l’ho già visto quando ci sono passato in auto, ma sfrutto questi minuti per trovare nei dintorni un locale per cenare, dopo la cerimonia. Ecco, ne adocchio uno, gli altri sono solo bar e un panino non mi va.

Ci siamo. Entro nel palazzetto. La sala è bella. La gente intorno è bella. La scenografia predisposta, con un divano una poltrona e un tavolino, è bella. I microfoni funzionano bene. Si abbassano le luci. Si comincia.

Non conosco nessuno. Nella giuria c’è uno di cui avevo letto le poesie anni fa e che pochi mesi fa mi ha mandato la sua prima silloge, ma non lo conosco di persona. Nessuno, ovviamente, conosce me, appena un paio di persone dell’organizzazione, che si sono accertati della mia presenza. Ma l’avevo detto, lo sapevano che sarei venuto.

Accanto a me, un amabile signore comincia ad armeggiare con il telefono, mi chiedo se possa essere uno dei premiati, anche se è anziano. Del resto, è un premio per esordienti, mica per giovani. Nemmeno io sono giovane, come quando al liceo. E non ho amici. Cerco di indovinare chi siano i segnalati al premio e chi la vincitrice. Alla fine dei conti, due su tre li avevo anche individuati. Chissà chi era Hermann Geiger. Ecco che chiamano il primo, questo no, non l’avrei indovinato. Ed è, in effetti, anziano. La presentatrice lo fa sedere sul divano e comincia a intervistarlo. Lui non guarda mai il pubblico, armeggia con difficoltà anche con il microfono, che tende a far roteare distante dalla bocca seguendo i suoi pensieri. È l’amabile scrittore locale, ha scritto infatti per i suoi nipoti i ricordi di una vita, una lettera al nonno che da tanto avrebbe voluto scrivere. Ha cominciato a scrivere quando ha saputo che sarebbe diventato nonno a sua volta, e appena ha cominciato a scrivere, dice, il flusso è partito, ha scritto senza difficoltà, come se gli fosse stato dettato. È una persona buona, si vede, sono proprio contento che sia stato segnalato. All’improvviso il signore accanto a me si alza, perché è l’assessore del comune, incaricato a premiare l’amabile scrittore locale. Ne approfitta per qualche parola di merito, anche un po’ nostalgica. Anche lui infatti conosce bene i luoghi di cui si parla, il bar in particolare di cui racconta il libro. E via con la targa e la foto, in onore di Hermann Geiger.

Così è il momento della seconda segnalazione. Si alza una giovane scrittrice, questa volta. Del resto, la finalità del premio, avevo letto, è proprio sostenere gli autori alle prime prove. Infatti il libro non è edito da un grande editore, anche se viene presentato come un grande libro. Anche difficile, perché chi legge deve ricostruire le vicende narrate come un puzzle un po’ scomposto, mi sembra di capire. Parlano di tradizione russa, ma era facile, considerando le origini dell’autrice. Un grande libro russo scritto in italiano, dicono. Che bello, sono proprio contento per questa giovane autrice di talento, che in effetti è un po’ emozionata, si vede che si prende sul serio e che vorrebbe sembrare disinibita. Prova a guardare il pubblico, cerca di gestire bene il microfono. Alle domande, però, non riesce a rispondere, perché ha cose che vorrebbe dire lei, però si vede che ci crede davvero e a me piacciono proprio le persone che vogliono tentare di fare qualcosa di grande, oggi che invece tutti dicono ma no, mica penso di essere Dostoevskij. Come non si vedesse, che non siamo Dostoevskij. Oggi semmai converrebbe essere Bob Dylan, e infatti i testi dei libri devono assomigliare alle canzoni, altrimenti chi li legge. Pensa che io a scuola dico, anzi sostengo, che non bisogna usare il verbo dire, perché dire è un’infinità di azioni, pensa che differenza tra rispondere ribattere insistere affermare suggerire mormorare insinuare berciare sentenziare e così via, e non possiamo perdere le sfumature psicologiche che ci stanno dicendo queste azioni, quindi potrete tornare a usare il verbo dire, dico, o anche il verbo fare, che pure a scuola vieto del tutto, quando sarete bravi, magari scrittori, per esempio Ammaniti. A premiare la giovane autrice di talento è un critico della giuria, che chiama giusto in causa Dostoevskij, ricorda quando vicino a Palazzo Pitti abitato dal re, in una stanza piccola umida e buia il grande genio russo scriveva un capovolaro dell’umanità, L’idiota. Ma io spero che la giovane autrice di talento non debba scrivere in una stanza piccola umida e buia, del resto al suo primo libro è stata premiata, meno male che è esistito Hermann Geiger. Mi chiedo se il critico amante della letteratura russa abbia apprezzato anche i miei omaggi a Dostoevskij, nelle pagine del mio romanzo.

Ma adesso è il gran momento della vincitrice. Sì, l’avevo individuata. Spigliata, si vede che non è di primo pelo. Anzi, la presentatrice ricorda che lei lavora in radio. In effetti, col microfono ci sa fare. E guarda il pubblico, e si muove a proprio agio. Si accarezza le ginocchia che sbucano dalla gonna, poi accavalla le gambe. Ma non c’è niente di erotico in quel gesto. Si parla del sarcasmo e dell’ironia. Infatti lei è molto ironica. Comincia con qualche battuta, dice che è esordiente nella narrativa, ma ha già scritto libri e fatto molte cose, il suo motto, dice, è fare cinquanta cose male piuttosto che una bene. Il pubblico però non ride, è ancora freddo. Lei lo avverte, si attendeva già qualche risata, ma non si lascia intimidire. Dice tante cose interessanti, è brillante e intelligente. Si vede che è determinata, ma è anche una che non si prende sul serio. Dice che voleva scrivere un noir, ma il direttore di Einaudi Stile Libero, durante le chemio, si è diverito tanto tanto, con tutto quel sangue e quelle scene. Quindi lei, dice, ha dentro la voce di Stephen King, ma invece le viene fuori qualcosa di tragicomico. Al pubblico comincia a stare simpatica, forse in sala ci sono più lettori di King che di Dostoevskij, mi dico. Io penso al direttore di Einaudi Stile Libero che legge il suo romanzo durante le chemio, e penso che deve essere proprio brava, perché per quanto riguarda me, che pure in Einaudi ho pubblicato (ma poesia, quindi è come se non valesse) non so neanche chi ha letto il mio manoscritto, anni fa, in Einaudi. Si accarezza il ginocchio, accavalla le gambe. Niente di erotico. Io penso che cosa sia non avere figli, visto che il libro parla anche di questo, anche se è un noir, che però fa tanto ridere e fa sarcasmo sulla nostra società, anche se è soprattutto, dice la presentatrice, una storia d’amore. La vincitrice sciorina ormai il suo repertorio, provoca direttamente il pubblico, che ormai si diverte. Solo l’assessore, tornato accanto a me, non la ascolta, intento a scaccolarsi il naso mentre legge sul display del telefonino, manco fosse un adolescente. La brillante esordiente, non di primo pelo, continua a fare cabaret, mentre io presto attenzione a dove lancerà la sua caccola, l’assessore, dopo averla appallottolata ben bene fra le dita. Perché in Italia, si sa, viene preso sul serio solo chi non si prende sul serio. Metti un comico che si inventi un movimento politico, è ovvio che lui non si prenderebbe sul serio, vuoi che non lo prenda sul serio la gente? La vincitrice dice per esempio che in Italia non si fanno figli per la scientifica proporzione che lega la certezza e l’aumento della retribuzione delle donne con l’incertezza e la diminuzione delle loro mestruazioni. Accavalla le gambe. Penso al dramma di non avere figli, ho amici che. Chissà se riderebbero. Già che ci siamo, dice la brillante vincitrice, donna indubbiamente non di primo pelo, sapete tutti, vero?, che bisogna fare figli con persone che non si amano. Perché i figli sono lo strumento che ti rende nemica la persona che ami, quindi è meglio fare figli con qualcuno che magari ci sta persino un po’ antipatico. Il pubblico ride. Ma i miei amici che non hanno figli si amano, forse è per quello che. Così, tra una battuta e l’altra, perché la brillante vincitrice ha davvero un repertorio vastissimo, anche se si sente bene che ricicla materiali e schemi del suo mestiere, si arriva al presidente della giuria, invitato al dibattito, per premiare poi la vincitrice. La quale, sia chiaro, dice sempre cose molto profonde, anche se la profondità, come ci ha insegnato Calvino, bisogna metterla in superficie, eppoi via, senza prendersi troppo sul serio, altrimenti ci si annoia, si rischia di essere troppo profondi. Il presidente della giuria, scopro, è un critico cinematografico. In effetti ha la capigliatura piuttosto cinematografica, la camicia molto cinematografica, e anche la posa alquanto cinematografica. Quando parla (e in effetti scalpita, quasi non lascia che la presentatrice presenti, ponga compiutamente una questione per introdurlo) scopro che ha persino la voce da critico cinematografico. E fa subito qualche riferimento cinematografico, perché il libro premiato è anche il più cinematografico, guarda un po’. Infatti, dice l’autrice, ho già venduto i diritti per farne un film. Ma che bello, penso, c’è proprio tutto, e il trio scelto dalla giuria è veramente equilibrato: l’amabile scrittore locale, la giovane autrice di talento e la brillante vincitrice. Che si accarezza il ginocchio, accavalla le gambe. Fino a che si alza in piedi per la premiazione ufficiale. Evviva Geiger. Forse anche lei non ha figli, penso, ma è proprio una donna brillante e occorre imparare da lei a non prendersi troppo sul serio, specialmente in Italia. Così si può essere profondi solo quel che serve, ma si soffre un po’ meno. Il critico cinematografico invece di Dostoevskij chiama in causa Bob Dylan, per fissare la memorabilità della giornata, visto che lui premia la vincitrice il giorno in cui Dylan ha vinto il Nobel, non so se sapete. Che poi non è neanche il giorno giusto in cui Dylan ha vinto il Nobel e Dario Fo è uscito di scena, ma pazienza, le coincidenze sono sempre belle. Così, tutti contenti, siamo invitati in fondo alla sala, al banchetto con i libri, annuncia la presentatrice, per il bel momento conclusivo del “Firmalibro!”. E, senza potermi individuare, sento che annuncia contro i riflettori, nel vuoto, che ci sarà anche Andrea Temporelli, che poi dovrei essere io, anche se in verità no.

Che fame. Ora però si sono accese le luci e dovrei, sconosciuto, infilarmi dietro al mio libro, così da farmi amabilmente conoscere e magari firmare qualche copia. Mi alzo, mi metto il giubbotto e, siccome continuo a sbagliare e a prendermi troppo sul serio, faccio l’unica cosa che posso fare: dirigermi verso l’uscita. Ma lo faccio come se fossi vuoto. Sto eseguendo la parte che mi è data, come fossi il personaggio di un libro. Ecco, sono quasi sulla porta, vuoto, con la bocca dello stomaco chiusa, e sento dei tacchi di donna che si avvicinano. In effetti, mentre apro la porta e sto prendendo coscienza di quel rumore, sento che qualcuno mi chiama. Alla fine è venuto anche lei, mi dice una, che si presenta come la segretaria che aveva comunicato con me via e-mail. È giovane e bella, ed è evidentemente imbarazzata, forse vorrebbe invitarmi al “Firmalibro!”, ma ha buon gusto e non osa, subito. Sono in imbarazzo anch’io, ci stringiamo la mano. Qui sì che c’è erotismo. Certo che ho presenziato alla cerimonia, glielo avevo scritto. Che bello l’imbarazzo, contiene sempre una storia. Così in quel momento tutto mi è chiaro, perché la scena che stiamo vivendo, con l’amabile scrittore locale, l’assessore con telefonino che si scaccola, la giovane autrice di talento, la brillante vincitrice non di primo pelo e il critico cinematografico con le sue camicie cinematografiche, e lei stessa, la giovane e bella segretaria che deve difendere il volto della fondazione e gli intenti del premio, sono proprio personaggi del mio libro. Voglio dire, non proprio loro, ma anch’essi appartengono esattamente al mondo che ho narrato, per cui anch’io sto rischiando di essere risucchiato di nuovo dalla mia storia, per questo lei teme che possa essere il grande genio non riconosciuto oppure l’anonimo scrittore livoroso che se ne va sbraitando e sbattendo la porta. Ma io ho lo stomaco chiuso e non posso permettermi di farmi imprigionare dalle mie opere, perciò mi affretto a sorriderle e, prima che possa davvero invitarmi al “Firmalibro!” e presentarmi la giuria e mostrarmi la qualità e la serietà della fondazione e delle sue iniziative benefiche e gratuite, le porgo i complimenti per la bella serata e le dico che devo proprio andare, perché ho fame e non  ho ancora cenato, mentre sento tutto, tutto, anche la sua glottide che ingoia la sua voce che dice grazie mentre il suo corpo è ben consapevole di quanto amaro sia il boccone racchiuso dentro quella risposta sorridente e dolce. Così le volto le spalle, sebbene fosse davvero graziosa e avrei voluto abitarlo un po’, quell’imbarazzo. Ma voglio liberare anche lei dal suo ruolo ingrato di cui non riesce ancora a essere del tutto consapevole e io ho lo stomaco chiuso e devo assolutamente uscire all’aperto. Per fortuna ha smesso di piovere, l’aria è frizzante. Però il locale che avevo individuato ormai ha chiuso la cucina, così decido di fare solo due passi a zonzo prima di tornare all’albergo e crollare, spero, in un sonno profondo. Ma profondo davvero, mica profondo solo in superficie. Ed è lì, camminando a zonzo da solo, nell’aria umida e fresca, che capisco che per uscire di nuovo dalla mia storia e tornare in questo aldilà ho bisogno di un altro varco e mi viene in mente che nel finale del romanzo dovevo aggiustare qualcosa. Lo capisco bene adesso, sì, mi viene in mente adesso la variante decisiva che mi renderà libero. È come quella volta da ragazzo al premio in cui avevo sentito leggere la mia poesia da un pessimo attore, ecco, questa magnifica serata ha messo in scena una nuova pagina della mia storia, ma io ho già attraversato il mio suicidio e non posso permettermi né di prendermi alla leggera né di prendermi sul serio, perché semplicemente non esisto, scrivo per perdonare e dimenticare, scrivo per andare altrove, ed è per questo che sento l’aria fresca scendermi nei polmoni, mentre lo stomaco si apre, sento fame e freddo, mi sveglio all’improvviso come da un incubo, mi chiedo che cosa ci faccia lì, in quel posto, lontano da casa, ma sono felice, perché pregusto il momento in cui, rientrato a casa, mi salverò un’altra volta, perché cambierò il finale, Bob, e sarò salvo, puoi scommetterci, consegnerò la mia variante all’immortalità, in fondo al cassetto.

 

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