La pienezza del vuoto

La pienezza del vuoto nel mio romanzo

In questi mesi, a quasi un anno dall’uscita di Tutte le voci di questo aldilà, una delle domande più frequenti che mi hanno posto diversi lettori riguarda il personaggio di Davide Scardanelli: “Perché nel romanzo non compaiono i suoi versi sublimi?” Se ho ben decifrato il messaggio che mi manda lo stesso Davide (ma non sono un esperto di tiptologia), la risposta dovrebbe essere più o meno questa:

Ho imposto io il silenzio sui miei versi all’autore del romanzetto. Lui mi ha chiesto ripetutamente il permesso di pubblicarne qualcuno, ma gli ho fatto notare che in tal senso c’era già Max a rompermi doviziosamente le scatole. Gli ho già dettato, comunque, i motivi del mio silenzio, che compaiono in effetti nel romanzo. A discolpa del povero autore, posso dire che ho notato in lui un dissidio: da una parte era dispiaciuto della perdita (avrebbe voluto fare il colpaccio e inserire nel suo romanzo i più bei versi della nostra epoca), dall’altra mi ammirava, come se io avessi avuto la forza di compiere un gesto che avrebbe voluto compiere lui – sia nel senso di scrivere solo capolavori sia nel senso di consegnarli tranquillamente all’oblio. Quando l’autore si è arreso, si è consolato pensando che in quel buco, in quel silenzio, in quello specchio, ciascun lettore avrebbe potuto far risuonare i propri, di versi – sia nel senso di quelli che ha scritto sia nel senso di quelli che, nella sua vita, ha amato.

Non so se Davide abbia davvero compreso il mio dissidio, ma di certo penso che un compito dell’arte sia anche catturare il silenzio, farlo suonare. Anche il vuoto, in realtà, è una forma della presenza.

 

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