Il prof al lavoro domestico

Il languore del buon professore

Questo brano, tratto dal mio romanzo, ha un po’ a che fare con questo. Ci ho messo sicuramente del mio, ma ho ben presente alcuni critici contemporanei che potrebbero riconoscersi, nel mio personaggio.

Di come Max, partecipando alla presentazione di due libri di poesia, contatti anche Gesualdo Frontini, critico accademico e scribacchino, celebre in particolare fra gli aspiranti scrittori

 

Un altro dei relatori del convegno doveva essere, nei piani di Max, Gesualdo Frontini. Si trattava, secondo lui, di un nome adatto per richiamare l’attenzione di un buon numero di poeti, ovvero di pubblico potenziale: onesto accademico, grafomane, presenzialista, noto insomma a tutti gli aspiranti scrittori, che da lui avevano ricevuto il battesimo del primo riscontro autorevole della critica, in lettere generose e svagate, che finivano regolarmente citate nei risvolti, nei retrocopertina, nelle postfazioni di decine e decine di libri di versi ogni anno. Per tanti poeti dilettanti, il nome di Frontini rappresentava un faro nella notte buia.

Gesualdo era così: buono di natura, capace di accettare la poesia in tutte le sue variopinte manifestazioni, in ogni sua minima gradazione. Era un dono di famiglia, del resto.

Suo papà Pantaleo, infatti, era in cuor suo una mamma. Era maestro elementare e rimase vedovo quando il figlio, il loro unico adorato figlio, aveva quattro anni. Il trauma della perdita della moglie, l’unica donna che avesse desiderato e conosciuto, con la quale si fidanzò praticamente a quattordici anni, accentuò alcuni tratti del suo carattere. Pantaleo era un uomo pingue e dolce. Amava occuparsi delle faccende domestiche, cucinava con grazia e semplicità, adorava i suoi alunni come figli. A ogni loro scarabocchio si commuoveva e diceva: «Bravo, Pasquale!» o «Ottimo lavoro, Coralba!». Non usava mai la biro rossa per annotare gli errori: li cerchiava in matita o, al più, in verde. In rosso, rigorosamente, annotava solo gli elogi conclusivi. Eppure, non era un insegnante mediocre, anzi, i suoi piccoli alunni diventavano presto bravissimi, soprattutto nei temi. Questo accadeva semplicemente perché imparavano a non temere gli errori, perché l’amore del loro maestro li assorbiva e li trasformava in piccoli, leggeri ritocchi necessari per rendere davvero perfetto il loro capolavoro. Quando ricevevano un foglio protocollo, lo trovavano meravigliosamente pieno di sottolineature leggere, così essi non vedevano l’ora di andare alla cattedra per sorbirsi la sacrosanta e quotidiana razione di complimenti. «Cosimo, questa volta hai superato te stesso!», cominciava Pantaleo, «hai avuto un’idea fantastica quando hai deciso di iniziare il tema sul Natale dicendo che anche quest’anno il Natale si sarebbe festeggiato il 25 dicembre! Credimi, nemmeno io avrei avuto un’idea tanto brillante.» Cosimo a questo punto cominciava a gongolare e sorridere, ma anche a concentrarsi di fronte allo spettacolo della propria bravura. E sarebbe rimasto concentrato anche durante la rassegna di quelle piccole, incidentali e soprattutto facilmente correggibili imperfezioni che venivano racchiuse dal tenero tratto della matita che li circondava come un abbraccio.

Gesualdo, che in famiglia e tra gli amici veniva chiamato Gésu, aveva ereditato molto dal suo babbo, anzi, da babba Pantaleo. Per questo il suo senso del bello era aperto a 360°. Non c’era opera che non lo colpisse per qualche aspetto particolare, che si trattasse di un canto dell’Alighieri o di un acerbo abbozzo poetico di un ragazzo del suo corso. Figlio d’arte anche in questo, Gésu intraprese la carriera dell’insegnamento con risultati eccellenti. Arrivò ben presto alla cattedra universitaria, con molte pubblicazioni già all’attivo. Come avesse potuto ottenere successo e potesse sopravvivere una persona tanto sinceramente buona in un covo di serpenti come l’università, non è dato sapere. La fortuna, la sfacciata tranquillità, l’effettiva intelligenza e preparazione, la buona predisposizione degli altri nei suoi confronti, potranno spiegare qualche passaggio del suo curriculum, ma il quadro complessivo risulta indecifrabile alla luce di questi parametri. L’ipotesi più probabile è che, talvolta, è agevole avere sopra di sé un bonaccione: così alla fine i tanti suoi colleghi che ambivano al medesimo ruolo calcolarono che invece di scannarsi a vicenda, con una notevole percentuale di possibilità di non riuscire nell’intento, era più sensato lasciare che le responsabilità cadessero su quel loro compagno, di animo troppo puro per non prevedere una redistribuzione di onori anche fra l’intero entourage di assistenti. Del resto, che c’è di meglio di una vita da professori, se non una vita da studenti? Le occasioni per integrare lo stipendio sarebbero state numerose, con Gésu sullo scranno più alto.

Dalla sua babba, Gésu aveva ereditato anche la pinguedine, naturalmente, e la calvizie. Aveva sì e no cinque capelli in testa, ormai, pettinati con la riga in mezzo.

Il carattere ereditato dal padre, il successo accademico, la clemenza nei giudizi, l’estrema disponibilità di fronte a ogni lettura, con il tempo trasformarono Gésu in un critico incontinente e grafomane. Dall’ultima casalinga alla scrittrice del momento, dal collega saggista allo studente all’esordio a proprie spese, tutti sapevano di poter contare su una sua lungimirante, autorevole e generosa lettura.

Questo aveva provocato in lui una sorta di languore, che soffocava abbuffandosi non solo di libri, ma anche di pranzi e cene. I poeti gli erano infine venuti un po’ a noia, ma questo sentimento era così contrario alla sua indole e così sepolto nella sua carne e nella sua storia, che non era in grado di riconoscerlo. […]

 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *