La cera è docile, malleabile
(L’opera scelta come copertina è di Tiziana Cera Rosco.
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Anche tu alle mammelle della lupa?
Ma ero consumata pure alla venuta di Dio.
Sono seni di cera – non hai visto? –
già colati
già stati accesi.
Dal fondo dei canti tiene quel che manca
gli uccelli freddano gli spalti
non covano i tuoi boschi.
Puoi andare
il tempo migra anche da qui.
Ogni lontano si appunta
senza sbando
senza varcare per il cielo.
E non sono neppure addolorata.
Ti guardo dalle vetrate
da dietro la sepoltura
autentica, come uno scarto
come un lungo lavoro d’esperienze.
Tiziana Cera Rosco
Per l’uomo l’amore è fuori; per la donna è dentro. Questo è – semplicemente – l’abisso che ci separa dalla pienezza creaturale della maternità, che costringe l’uomo a dissiparsi in un’emorragia invisibile e inarrestabile, mentre la donna conoscerà, prima o poi, lo stupore di trattenere il sangue.
E Il sangue trattenere è giust’appunto il titolo della raccolta d’esordio di Tiziana Cera Rosco (Edizioni Atelier). Naturalmente, tale differenza ontologica non comporta che la donna non sia forata dal dolore, perché l’amore stesso è, sempre, inevitabilmente, anche offesa e nelle sue viscere pure il male s’aggroviglia («Ma dentro – dentro – non c’è alcova. / È danaide»). Il fatto, però, è che persino nella vendetta la donna resta pura esecutrice della vita. Sarà l’uomo il corpo sacrificale, «l’agnello / il marmo / il dio feroce», grano d’incenso offerto al mistero e perso nel tempio della bellezza. Stigma solo maschile è la nostalgia, alla radice. Anche nella lacerazione, quando il destino affonda famelico i suoi artigli, la donna rimane «autentica, come uno scarto / come un lungo lavoro d’esperienze»: colma di una sapienza carnale che umilia la nostra ragione di uomini, ci allontana dalle sorgenti segrete del tempo, ci condanna alla perdita. All’uomo compete il trono illusorio della storia, che si affanna istericamente a conquistare per coprire l’evidenza di rimanere sempre straniero di passaggio, di fronte allo splendore della donna e del suo corpo, crocevia delle generazioni, che invano cerchiamo di dissacrare.
La poesia di Tiziana Cera Rosco, nata a Milano nel 1973, è intrisa di questi umori, ci narra con una lingua oscura e fascinosa la legge ancestrale che vuole le madri sempre incolpevoli, anche quando non sono affatto innocenti per l’amore che ci chiedono e per la sensualità con cui ci divorano. Magistrale sacerdotessa di questa «religione naturale», i suoi versi risvegliano la ferita della consapevolezza e ci trafiggono col grido immemore del paradiso, perduto in noi per sempre.
(da Mosse per la guerra dei talenti, 2007)
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