Insegnare poesia
«Su che cosa ti stavi preparando?», le chiese Max.
«Ripassavo un po’ di metrica e di figure retoriche. Devo iniziare il discorso sulla poesia al biennio.»
«Perché non parti dalla canzone?»
«Dalla canzone? Ma la poesia non è la canzone.»
«Certo, ma ci puoi arrivare pian piano. Noi commettiamo sempre l’errore umanistico di cominciare dai classici e questo dà l’idea agli studenti che lo studio sia qualcosa di irreale, così per loro la cultura classica diventa sinonimo di muffa. Bisogna invece partire dal reale, dalla loro vita.»
Mariella lo guardava interrogativa, come a dire: “Dài, suggeriscimi pure”.
«Vedi, io cerco di partire dalle loro “esperienze di fruizione artistica”, come le chiamo io. Ascoltiamo e commentiamo le canzoni, facciamo un’antologia delle frasi più belle. L’ultima volta siamo passati dal Venditti di Ci vorrebbe un amico a Dante. Hai presente quando canta: “E se amor che a nullo amato amore amore mio perdona”? Oppure c’era una canzone che Cristiano De André, se non sbaglio, aveva dedicato a suo padre, Sul confine, e che fa così:
Il più bello
dei tuoi giorni devi attraversare
la canzone tua più dolce
è da cantare
tu non arrenderti così sul confine
Il più verde
dei tuoi mari devi navigare
il più rosso vino
devi ancora bere
tu non fermarti proprio lì
sul confine
Ecco, da questo testo siamo risaliti a Hikmet.»
«Adoro Hikmet!», esclamò Mariella, divertita dall’inattesa esibizione del collega; il cervello di Max mandò un messaggio al padrone: “Ci avrei scommesso, e sono pronto a scommettere che le piacciono pure Tagore e Gibran.”
«Sì, ecco, Hikmet, che dice: “Il più bello dei mari È quello che non navigammo. Il più bello dei nostri figli Non è ancora cresciuto. I più belli dei nostri giorni Non li abbiamo ancora vissuti. E quello Che vorrei dirti di più bello Non te l’ho ancora detto”.»
Lo sguardo di Max ora aveva intercettato quello di Mariella a un livello maggiore di confidenza e quelle ultime parole spingevano per guadagnarne ancora di più.
«Beh, lasciatelo dire», riprese lei divertita e imbarazzata, «come cantante sei improponibile, ma devi proprio essere un ottimo insegnante», e sorrise, finalmente, un bel sorriso.
«Non lo so, ma so che mi diverto. Credo che nella nostra professione sia vero il motto che non si smette mai di imparare. Il mio slogan è: insegnando, s’impara.»
(espunto da Tutte le voci di questo aldilà)
Divertirsi insegnando è un modo infallibile per non annoiare gli alunni e neppure noi stessi. I ragazzi hanno un radar sempre acceso e percepiscono le onde che trasmettiamo, prima delle parole . Il resto viene dopo!
Verità sacrosanta che noi docenti dovremmo riscoprire e ripeterci all’infinito. Se lo facessimo, gli studenti arriverebbero persino a capire che imparare è divertente. (Per sua natura: anche quando richiede fatica)