La fortuna, il canone

Tra gli elementi che determinano l’importanza di un poeta vi è sicuramente la fortuna. Comincio col parlare di importanza per alludere a quel valore consolidato che il critico (o chi per esso) deve in qualche modo prendere in considerazione e non può bellamente trascurare, in partenza. Mi spiego. Un critico propone dei giudizi di merito, sulla scorta di una poetica (o, meglio sarebbe, visione estetica) implicita o esplicita che sia, e in questo fa sì che il punto in cui si gioca maggiormente la propria credibilità sia esattamente la sua scommessa su un autore o il ridimensionamento di un altro. Detto altrimenti: la sua capacità di “fare canone”, di dettarlo e plasmarlo.

(Postilla: il canone non è solo opera del critico, ma anche della scuola e dell’università più in generale, che hanno tendenza estremamente conservativa; della memoria collettiva di una comunità e degli stereotipi che crea, anche al di là della sua icona scolastica; ma soprattutto della presenza viva di un autore nella memoria degli altri poeti, insomma nella tradizione in fieri).

Che cosa significa, per un critico, “fare canone”? Imporre come modello un autore, diremo grossolanamente. Modello persuasivo, alla luce di una sua interpretazione della storia, della civiltà; possiamo anche dire di una sua visione del contemporaneo. Qui, a mio avviso, si gioca una strana, cruciale partita dialettica fra eccellenza e rappresentatività, fra originalità e condivisibilità (fra i paradigmi del classico e quelli del romantico). Dimostrare l’eccellenza di un autore vuol dire per il critico chiederne la verifica della storia, ovvero metterne radicalmente alla prova la tenuta.

Ci sono autori importanti perché “hanno fatto scuola”, eppure avere proseliti è un guadagno a medio termine e forse un danno a lungo termine. Si pensi a Ungaretti, alla sua folgorante fortuna e al suo rapido declino (nella tradizione viva, nel campo di forza linguistico e formale che i poeti di oggi sostengono, non certo in ambito scolastico). Ci sono poeti “importanti” perché hanno dato un impulso ragguardevole alla società e alla civiltà: autori chiacchierati, autori-intellettuali che accendono discussioni, autori che assumono persino importanza politica attraverso la loro opera, autori che rinnovano profondamente il linguaggio. Autori destinati, per questo, a essere trattati, almeno in sede storica, quindi accademica.

Ci sono poi i poeti che, per quanto altalenante sia la loro fortuna, vivono di costanti riletture, di riprese, di riscoperte: poeti che continuano a parlare, la cui opera resiste alla corrosione di un modello.

La tradizione è un corpo vivo, quindi multiplo, dato dall’intrecciarsi delle diverse contemporaneità, delle diverse discendenza che ciascuna voce poetica reca con sé, riattiva con la memoria che la sostiene.

La riscoperta di un autore è soggetta, poi, a mille rifrangenze. Spesso gli autori “vivi” nella tradizione sono equivocati, letti alla luce di un’idea di letteratura, di una poetica che non è la loro (il critico, quando cerca di leggere un poeta secondo i propri principi, entra in dialettica con il poeta, che legge con il proprio sangue, che reagisce al patrimonio culturale spesso secondo lo stereotipo del “padre da superare”: vedi l’angoscia dell’influenza di Bloom).

Il caso di Góngora è assai interessante sotto tutti questi aspetti, per sviscerare le ragioni della continuità o della rottura all’interno della tradizione. Perché, per esempio, è stato riscoperto proprio nel Novecento, mentre il secolo precedente lo aveva consegnato all’oblio? Si pensi a quante volte si è parlato di Neobarocco per delineare certe tendenze del secondo Novecento. Quanto è conforme a Góngora stesso la sua ripresa nell’ottica di una poetica tesa alla poesia “pura”? E, ancora, quanto è importante per un poeta riuscire a inserire la propria opera (anche qui, con un ruolo il più attivo possibile) entro un contesto internazionale? (Pensiamo al concettismo seicentesco, che affianca la agudeza iberica al wit anglosassone, il concepts francese al concetto italiano…). E quanto influisce per la sua resistenza al tempo l’opera dei traduttori che s’innerva e complica ulteriormente il rapporto fra l’irriducibilità di una voce e la sua tensione ad appartenere e a rivelare l’orizzonte comune? Si pensi alle traduzioni di Ungaretti, che partono addirittura da un’altra versione, senza nemmeno entrare nel merito dello statuto dilemmatico del “testo a fronte” che rende omaggio, trasmette e conserva il testo originale, ma non senza inserire nel discorso, già complesso, nuovi specchi deformanti e nuovi piani che si influenzano a vicenda…

 

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