Limite e ritmo (di Claudio Bagnasco)
Oggi rileggo volentieri questo articolo di Claudio Bagnasco, accolto a suo tempo sulla rivista Atelier.
LIMITE E RITMO
a S. W. e C. V.
Limite, limiti
Ci sono due tipi di limite: i limiti reali (in fondo ai quali c’è il Limite), e i limiti convenzionali (il buon senso, il buon gusto, le leggi, i regolamenti, le istruzioni, eccetera). D’ora in poi chiameremo Limite il primo tipo di limite, e limite il secondo.
Il progressivo avvicinamento a uno dei due tipi di limite implica l’allontanamento progressivo dall’altro. Questo perché l’istituzione dei limiti è il tentativo di rimuovere il Limite. Viceversa, il Limite prescinde dai limiti.
Ogni regola, catalogazione, ordine, anzi: ogni forma, è una reazione paurosa alla morte. E la morte è la fine di ogni forma, nonché di ogni altro limite.
Qui affiora una domanda: approssimarsi al Limite significa non temerlo affatto, oppure temerlo al punto da doverlo vivere come presenza ossessiva?
Torniamo ai due tipi di limite. Abbiamo detto che l’avvicinamento a un tipo di limite implica l’allontanamento dall’altro. Dobbiamo dire meglio: non ci si può rapportare contemporaneamente al limite e al Limite.
Vivere sotto l’egida dei limiti dà l’illusione dell’assenza del Limite. Inoltre, l’avvicinamento al limite riproduce l’avvicinamento al Limite.
Non solo. In questo gioco giocato all’interno dei limiti può avvenire uno pseudomiracolo che, ovviamente, non è consentito al cospetto del Limite: dai limiti convenzionali si può evadere; si può uscire e rientrare a proprio piacimento; si può insomma, fate attenzione a come suona bene, superare il limite.
Questa ginnastica è esemplificata alla perfezione da quegli atteggiamenti che sono definiti eccentrici.
L’atteggiamento eccentrico, che dovrebbe avere chissà quale forza destabilizzante, è in realtà la più impietosa conferma dell’esistenza di limiti convenzionali, arbitrari. È come dire: io ho un prato lungo da qui a lì, invito gli amici a cena, decido che chi supera di un passo quel punto del prato è coraggioso, poi davanti agli occhi degli amici avanzo, supero di un passo quel punto e pretendo che mi si dia del coraggioso. Ma perché non ho scelto un punto dieci metri più in là, ovvero un passo oltre il bordo del pozzo?
Se istituire il limite consente di mimare il Limite, affidarsi agli atteggiamenti eccentrici permette nientedimeno che esorcizzarlo.
Quella che abbiamo chiamato illusione dell’assenza del Limite è dunque, al contrario, la piena consapevolezza della sua presenza, e della sua invalicabilità.
Allora, riprendendo la nostra domanda, possiamo intanto dire che è l’istituzione dei limiti, semmai, il sintomo della presenza del Limite come ossessione.
Scelta e necessità
Il Limite è dappertutto.
Il Limite è costitutivo di ogni relazione, di ogni gesto, di ogni pensiero.
Il Limite è tutto ciò che non sarà mai addomesticabile, neppure decifrabile. Si può arrivare a un millimetro dal Limite, o rimanerne sempre lontani anni luce. Non c’è alcuna differenza: il Limite non può essere toccato, vissuto, conosciuto.
Vivere a ridosso del Limite significa vivere al di fuori dell’aspetto consolatorio della vita. Significa avere sempre ben presente che ogni relazione, ogni gesto, ogni pensiero, è un punto di luce nell’oscurità; non nel senso che relazioni gesti pensieri sono i punti di luce e l’oscurità è ciò che sta attorno, bensì nel senso che relazioni gesti pensieri sono essenzialmente oscuri, fatta eccezione per un punto di luce.
Abbandonare l’aspetto consolatorio della vita significa abbandonare illusori desideri di guadagno, di avvicinamento. Come abbiamo appena detto, il Limite è sempre assolutamente distante.
Si potrebbe anche dire: per chi avanza nelle tenebre, il paesaggio non muta mai.
E dunque: avanzare nelle tenebre non è avanzare.
Perciò, vivere a ridosso del Limite significa non curarsi nemmeno di quel punto di luce. Anzi, significa non riuscire più a scorgerlo, siccome non curarsene sarebbe già una scelta (le tenebre anziché la luce). Ma una scelta implica una preferenza, e non si può preferire una cosa a un’altra laddove non ci sono rapporti. E nessun rapporto è istituibile con l’assolutamente lontano.
Ecco allora che vivere a ridosso del Limite significa sostituire la scelta con la necessità.
Limite e conoscenza
Sembra però esserci una contraddizione. Come si può giungere a un millimetro dal Limite, se il Limite è sempre assolutamente distante?
Questa è una contraddizione irrisolvibile, che mostra come il Limite sia al di fuori degli ambiti di umana competenza.
La massima tensione verso il Limite può pure condurre al suo cospetto. Ma la connaturale insuperabilità del Limite lo porrà sempre assolutamente distante. Non c’è modo di spiegare meglio la contraddizione. È come l’avanzare nelle tenebre, che è altrettanto un non avanzare.
Ma allora dove non c’è guadagno, dove non c’è progresso, dove non c’è approdo, a cosa serve un equipaggiamento? A cosa serve la conoscenza?
La conoscenza certamente serve a muoversi nell’ambito dei limiti; serve a istituirli, a custodirli, a rifiutarli o addirittura a oltrepassarli. Ma non fornisce formule che permettano di raggiungere il Limite.
Nessuna conoscenza conoscerà mai il Limite.
Limite e corpo
Restano allora, viene da pensare, le ragioni del corpo.
Il corpo, da solo, non può mentire. Ignora l’esperienza, il ragionamento, il calcolo. Perciò il corpo, da solo, non può istituire limiti.
Ma il corpo è mai da solo? Il corpo è da solo, nonostante tutti i nostri sforzi di conservazione, nel processo che lo porta a svilupparsi, a consumarsi, a spegnersi.
L’immortalità è inattingibile. Il processo di spegnimento del corpo è inarrestabile. Allora possiamo forse dire che l’esperienza del Limite si attua laddove non ci sia possibilità di intervento, di scelta? Eppure, il progressivo spegnimento del proprio corpo lo si vive; invece non si può vivere la propria morte. Per cui, se la morte è il Limite non esperibile, lo spegnimento del corpo è il processo senza progresso che conduce a un millimetro dal Limite, senza possibilità di ritorno.
Il corpo è materia che si spegne nel Limite.
Corpo e parola
La parola è espressione della conoscenza ed è espressione del corpo.
Come espressione della conoscenza, può avere una qualche efficacia solo nell’ambito dei limiti (dove, ammettiamolo, l’ironia sta alla parola come l’atteggiamento eccentrico sta all’azione).
Ma la parola è anche corpo, materia.
Tutto ciò che è di umana pertinenza, ed è quindi relativo, implica necessariamente un rapporto.
Uscire dall’idea dei rapporti, delle relazioni, significa uscire dai punti di vista, dalle dicotomie (giusto/sbagliato, guadagno/perdita…) Significa rivolgersi all’assoluto.
L’assolutamente vicino è l’identità, l’assolutamente lontano è l’assenza. La parola che dicesse l’identità e l’assenza, sarebbe assieme corpo e Limite.
La parola si rivolge all’assoluto quando esce dai rapporti, dalle possibilità di interpretazione. Quando accade ciò? Quando la parola esce dal linguaggio.
La parola esce dal linguaggio quando non si riferisce a nient’altro che a sé. Quando cioè è solo corpo. E la parola è solo corpo quando è suono.
Il suono ha come unico riferimento il ritmo. Il suono è adesione al ritmo.
Il suono nasce dal ritmo, ed essendo corpo si consuma, per tornare infine nel ritmo, da cui non si era mai allontanato.
Ma che cosa è il ritmo?
Il ritmo è pura appartenenza, pura indecifrabilità.
Il ritmo è far parte senza conoscere.
Il ritmo è assolutamente vicino e assolutamente lontano.
Il ritmo è identità e assenza.
Il ritmo è tutto.
Io lo semplifico così:
1) l’unico Limite è a mio parere, contrariamente a quanto scritto sopra, proprio il corpo.
2) l’unico limite – con la elle minuscola, per usare lo stesso metodo dell’articolo – è per me il linguaggio; fuori dal quale non può darsi o dirsi niente. ( anche la parola niente è nel linguaggio, come assoluto, infinito, Dio, etc. di qui la mia personale idiosincrasia per i misticismi )
3) il ritmo: lo disse anche Bernhard che era tutto, letteralmente ( sono quasi certo che lo asserisce in una delle due interviste pubblicate in italiano, credo le uniche). Ma la sua asserzione andrebbe presa – o almeno io la interpretai – come indicazione, come ingrediente irrinunciabile e necessario allo scritto ( i suoi) . Non certo, nei fatti, come esaustivo. E’ molto, è necessario, ma “non è tutto”.
Mi sono in realtà oscuri molti punti, come per esempio, a caso: “il suono ha come unico riferimento il ritmo.” e chi lo dice? il ritmo va cercato, o rilevato ( se c’è ) , costruito, creato, ( penso alla metrica) esso è una struttura ripetitiva che noi percepiamo come ordinata e in un certa misura prevedibile, riconoscibile; il ritmo non è dato all’emissione di un suono di una durata X come invece è data una struttura geometrica contenuta nel diamante. O almeno non credo.