Gian Mario Villalta, fotogafia di Dino Ignani

Poeti contemporanei: Gian Mario Villalta

(La foto è di Dino Ignani.
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La ricerca poetica di Villalta si muove sul doppio binario dell’italiano e del dialetto, equamente intesi come mezzi per avvicinare il quid esistenziale (la voce) che a entrambe, inevitabilmente, sfugge. Ogni lingua è, in altre parole, traduzione, e la vita è l’essenziale che sempre manchiamo. Per riprendere le parole con cui Gardini recensiva la raccolta Vose de Vose: «Il dialetto di questo poeta, nutrito di Heidegger e di Celan ed educato dalla pedagogia di un finitimo Zanzotto, è a un tempo idioma (lingua privata, impulso alla lingua, isolamento linguistico, infanzia) e metalinguaggio (anima e coscienza della Lingua), o metaidioletto: voce e canto, ovvero ferita e lama a un tempo».

Tanto per il dialetto quanto per l’italiano, dunque, la certezza è che l’origine ci stia di fronte, che non sia ipotizzabile alcuna regressione: la sorgente va riconquistata, per quanto possibile, seguendone l’impulso verso la foce. Non c’è scelta per il soggetto che quella di aderire al destino che gli è dato: «che fasso? protesto? digo che son / ‘na minoransa? torno a tacar / dai pensierini? E chi / che me insegna? Gnanca me nono / e’l parla pi’ come che’l parlava» [«Che faccio? Protesto? Mi dichiaro / una minoranza? / Ricomincio / dai pensierini? E chi / mi insegna? Neanche mio nonno / parla più come parlava»]. Fin dall’esordio di Altro che storie! Villalta esprimeva questa certezza: «E parché no scrivo sol che in italian / xa che ghe son? / Parché l’è ’na scommessa / che la me à scometest, scomès / o scometù (e no savarìa dir / dei tre quel che l’è giust) sensa pronostegàr / de ’ndar a pata / faxendo trentaun, / che la resta sul suo / calcando la pena, e ghe torna i conti / che no ’i torna a nissùn» [«E perché non scrivo solo in italiano / già che ci sono? / Perché è una scommessa / che mi ha scommesso / (non saprei dir dei tre / quale sia il giusto) senza pronosticare / di fare patta / facendo trenta e uno, / che non si espone / facendo ospite e oste, le tornano i conti / che non tornano a nessuno»]. Ciò spiega in effetti come mai anche nella poesia in dialetto l’imprinting stilistico e la disposizione conoscitiva assunta dal soggetto (la sua apertura gnoseologica) ci riportano più sulle tracce di Celan che di qualsivoglia poeta in vernacolo nostrano, e che al più le consonanze in questo senso andranno rivolte a dialettali “dotti” come Zanzotto e Giacomini. Azzardiamo anzi l’ipotesi di aver oscuramente còlto un tratto tipico anche per altri autori, in parte iscrivibili entro una “linea friulana” (beninteso libera di aprirsi verso il Veneto), nella quale vanno ascritte varie esperienze (Grisancich, Vallerugo), anche rigorosamente in lingua (Mario Benedetti) o in prosa (Mauro Covacich): linea che proseguirà fino ai più giovani Crico, Garlini, Cappello e, perché no?, all’“esterno” Flavio Santi (le cui ragioni di scrittura in dialetto portano alle estreme conseguenze le premesse di Villalta)[1]. In questi autori, l’esperienza della lingua è un’esperienza di confine, inevitabilmente esposta ad altro da sé.

Stranieri dentro a ogni lingua, non possiamo che attraversare quella che ci è data senza barare, consci dell’inautenticità cui la società contemporanea ci costringe, invadendo ogni angolo del mondo. Ecco perché Altro che storie! sorprendeva in quanto libro metalinguistico, nutrito sì di vissuti ma furiosamente centrato sull’esperienza del linguaggio; esperienza che generava un effetto ancor più straniante in quanto pronunciata in dialetto, vale a dire nella presunta lingua della felicità espressiva, del contatto spontaneo con la realtà. Non c’è purezza che tenga, le lingue si impastano in un plurilinguismo inevitabile anche in dialetto («lengue non ghe n’è pi’, sol che un turbiòn / o transturbiòn de parole, ‘na sgravèra e ipo- / iper-ipno-sgravèra de cìcole e ciàcole» [«lingue non ce ne sono più, solo un torbidone / o transtorbidone di parole, una gragnuola o ipo- / iper-ipno-gragnuola di chiacchiericci»]), le voci si sovrappongono e moltiplicano (si veda in questo senso il poemetto Voci divise di quale racconto che apre la raccolta in italiano L’erba in tasca), la filologia è scienza vana. Tanto che in dialetto l’impulso è molto spesso scopertamente nomenclatorio: non ci sono storie da raccontare, ma parole da convocare per ri-velare l’orrore di non essere la lingua (o lingue) che parliamo.

Detto questo, ci sembra di poter affermare che gli esiti possibili di tale sradicamento esistenziale siano due: da una parte lo sperimentalismo linguistico iperletterario, che può diventare maniera, dall’altra l’uso consapevole del mezzo espressivo per aprirci, con tutta la nostra fragilità e ignoranza costitutiva, al mondo circostante, perché se è vero che la verità sfugge alla parola, è altresì indubitabile che il reale esiste e investe la nostra coscienza (e sarebbe qui doveroso confrontarsi con il Villalta saggista, autore in particolare dello studio La mimesis è finita).

Finora, l’autore dava segno di non riuscire a divincolarsi dalla prima strada, se è vero che L’erba in tasca era un libro ostico, costruito su una sintassi disarticolata, come se la realtà che presupponesse fosse troppo mentalizzata, tanto da non rendere con sufficiente visibilità sulla pagina le immagini poetiche (va detto però che, almeno in parte, l’ultima sezione riscattava il libro). Con la silloge Malcerti animali, inclusa in Poesia contemporanea. Terzo quaderno italiano, si giungeva poi al manierismo. Dietro ai pretestuosi medaglioni di animali (Emblema con volpe è il titolo che apre la serie), si scopriva infatti un dire concettoso («Dì di sì, lo / sai che non so se non sai / che lo sai se non so / quando il sì è un no») ricco di gorgheggi fonici e di bisticci («La luce premuta muta muta»), tra Ermetismo e Barocco. I versi infilzavano in sequenze allitterative parole in perenne frizione sintattica e metrica, magari dislocate a cavallo di due versi («per niente dondo / lando lenta / mente lontano») e impreziosite da rime ammiccanti; i verbi preferibilmente nei modi indefiniti lasciavano sospeso il testo in un’algida posa. Un bestiario che rappresenta un’opera «poco empatica» (Dal Bianco), non c’è che dire.

Ecco perché Nel buio degli alberi, risulta una piacevole sorpresa. Il poeta sembra qui voler dichiarare la diversa direzione di marcia intrapresa. Annuncia in avvio: «Corro incontro alla terra / dove sono gli alberi». Il bosco in cui siamo invitati a inoltrarci è certamente ancora imparentato con quello zanzottiano del Galateo, o con quello heideggeriano dei Sentieri interrotti, eppure il disagio che si prova di fronte alla lingua è propedeutico allo stupore di una voce che sa mostrarci scene, paesaggi, persone, vita. La pronuncia è raffinata e disadorna insieme, la posa tradizionale ma spontanea, le rime talmente facili da risultare trasparenti, le infrazioni sintattiche discrete: tanto che il poeta accetta il rischio di qualche inflessione crepuscolare (in barba alle prime indicazioni di Dal Bianco, all’altezza dei Malcerti animali): si veda il morettiano primo verso: «Luce. Gennaio. Mattina presto». La foga nomenclatoria si fa qui quieta enumeratio, descrizione dell’attimo nel suo manifestarsi dinamico (nel suo essere evento), fino a schiudere il più arioso slancio lirico: «Ammettimi nei tuoi infiniti / presenti, luce che vieni e assolvi / ogni speranza e inutilità, / ogni dimenticanza». E tuttavia il contatto con il mondo resta critico, perciò vibrante: il dato emotivo non è soverchiato dall’impulso intellettualistico teso a imprigionare la realtà entro griglie concettuali che abbiamo la pretesa di validare, attraverso la verifica di sé stesse, l’esperienza, che rimane irriducibile. Ed è quanto afferma anche Emanuele Trevi nella presentazione: «Secondo Michel Houellebecq, “ci troviamo nella poesia” nel momento in cui “l’estrema intensità della percezione sensoriale rischia di provocare un sovvertimento della percezione filosofica del mondo”».

Lo spessore filosofico che sostiene i versi di Villalta è, forse qui più che mai, evidente (Nel buio degli alberi è sigillato da una poesia importante, in questo senso), ma appunto costretto a interagire con l’elemento allotrio della percezione (si pensi agli accesi cromatismi della plaquette): ne deriva una sintesi fortemente instabile, che conquista veridicità attraverso l’assenso del lettore, convocato in uno spazio accogliente e fraterno: «Si diceva che una festa era stare così, / con le braccia vicine, tutto il mangiare nei piatti, / il buio degli alberi, l’estate piena dei suoi rumori». Ecco il pregio di questa poesia: il soggetto, con tutte le sue velleità intellettualistiche, si dissolve, vince il tempo riconducendolo al suo infinito presente e ci viene incontro nella sua sostanza più intima e misteriosa: la voce.

La lingua, dunque, si fa finalmente trasparente e in questa libertà le cose si manifestano da sole: «Il tiglio è adesso tiglio veramente». La vita brilla nella verità dello sguardo e dei gesti, più che nel soggetto che si pensa e problematizza. Per dirla nel dialetto di Visinale, in omaggio alla diglossia del poeta: «Vien pi’ vissìn… / caressa, se dixe, o carezha; qualchidùn / e’l sempia l’italiàn: careza. L’è sempre la man / che la sfiora la pel (pi’ forte o pi’ pian / no l’è nessuna lengua ch’i lo dis)» [«Vieni più vicino: / caressa, si dice, o carezha; qualcuno / scempia l’italiano: careza. È sempre la mano / che sfiora la pelle (più forte, o più piano, / non c’è nessuna lingua che lo dica)»].

(da Poeti nel limbo)

[1] È proprio Alberto Garlini ad aver tratteggiato un sintetico ma efficace ritratto Sulla poesia in Friuli che si può leggere sul periodico «Per immagine», XV, 1-2, inverno 2002/2003, pp. 40-41.

 

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