Poeti contemporanei: Edoardo Zuccato
Il secondo libro di Zuccato va a comporre con il primo un dittico che ben illustra le due principali modalità di proporsi del dialetto (in questo caso l’altomilanese fra Cassano Magnago e Fagnano Olona): quella vagamente idilliaca che pare descrivere il ripiegamento in un’enclave culturale (nella quale il poeta ha ancora o può supporre di avere una comunità di riferimento) mitica e minacciata dalla scomparsa, e quella più decisamente politica. Si può prendere ad esempio dalla prima raccolta la poesia Bacalén: «Du ch’i ur sa cöntan a bicer», per intendere quella sorta di tautologia che impone al dialetto di farsi portavoce di un mondo tutto suo, come appunto l’osteria, «dove le ore si contano a bicchieri».
La poesia si limita a tratteggiare in quattro versi un ambiente, un quadro sospeso (anche a livello grammaticale, il periodo si compone di sole proposizioni circostanziali, lasciate lì a girare intorno al titolo come in una definizione) e la luna, verso la quale si leva lo sguardo infine, sembra proprio mettere ogni cosa a suo posto, secondo le aspettative. Così molti testi di Tropicu da Vissévar sono immagini, epifanie, racconti di personaggi, faville rubate a una civiltà contadina ormai estinta e assorbita nella periferia della città e si strutturano in pochi versi essenziali, sovraccarichi di impressioni e di colore. Il poetico in questa raccolta è qualcosa di noto, qualcosa che esiste nella realtà e non va inventato, anche a costo di ripetere un’immagine tradizionale. Ciò che renderà efficace la visione sarà, appunto, il dialetto, vale a dire l’autenticità di pronuncia che a chi parla in italiano s’impone sempre (foss’anche sulla base di un pregiudizio), come se a un tratto la lingua gli diventasse atona, vuota, e il dialetto invece suonasse, ravvivando ogni cosa con la sua potenza icastica. Eppure, dicevamo inizialmente, questa possibilità del dialetto pare riflettere un ripiegamento verso il passato, dando adito a quella sorta di arcadia dialettale di cui si discute. Ma, a ben vedere, la pietas che suscita l’ascolto del poeta e lo richiama alla verità di un luogo, di una terra e di una gente (si pensi alla poesia d’apertura, Balzarinn: «Hinn un pügn da cassin / in sü ’n fiancu daa Lumbardia / cut i cà setâ gió in gir ai curti / temé di vecc in gir a ’n tàul / a cüntà d’una ölta. // ’Na quaj vüna / püssê smaralâ, la sa pogia / a ’n baston / ’tan che tocch a tocch / turn indrê / aa tera» [Balzarine: «Sono un pugno di cascine / su un fianco della Lombardia / con le case sedute intorno ai cortili / come vecchie intorno a un tavolo, / a raccontare di una volta. // Qualcheduna / più malferma, si appoggia / a un bastone / intanto che pezzo a pezzo / ritorna / alla terra»]), non è affatto rivolta a un passato mitico: è semplicemente calata nel tempo, consapevole del destino che s’inscrive in ogni persona, in ogni lingua, in ogni cultura, mentre ci si piega al futuro come «il capofamiglia» (e siamo appena alla seconda poesia del libro), che, «storto come un rastrello», «al vedi i certi da frasch par l’invernu / e ’l neúd a esili» («vede le coperte di foglie per l’inverno / e il nipote all’asilo»). Allora il nucleo fondante di questa poesia è l’autenticità di pronuncia tout court di chi radica la propria voce nell’esperienza: il dialetto diventa una necessità, non un escamotage («Sul mio tavolo c’è solo questo lume», si afferma in un testo dal titolo importante: Storia di una generazione). La poesia si gioca allora, in qualsiasi lingua, sulla potenza di quel «vede»: non si dice, infatti, che il «capofamiglia» osserva, ma vede, cioè scopre, si accorge per la prima volta di quello che sempre accade: la vita. Ecco il senso del titolo vagamente milleriano della raccolta, che scardina il microcosmo dialettale con la forza di uno sguardo che ha «toccato i posti più lontani» e si accasa «tra foglie mai viste», sentendosi per un istante non più straniero (ma solo per un attimo, giacché forestieri si è sempre, in ogni luogo). Ciò che piuttosto il dialetto ha la capacità di salvaguardare meglio dell’italiano è quel grano di ignoranza e di semplicità che rende irriducibile l’esperienza a qualsiasi intelligenza guidata da una volontà illusoria di dominio: ed è precisamente questo atteggiamento a restituire alla pagina una pienezza di sensi che soltanto una sapienza terrigna e una memoria del corpo (non astratta) sanno raccogliere: «A smurzà afa / eran no i nüul da muschítt / ch’ai runzean afus, // eran i tusànn / vignî föa da culp / ch’ai scurlean l’aria / cut ul so brügià fresch, / un batión tropp cürt – / ul cald al saltea sü anmó daa strâ» («A spegnere l’afa / non erano le nuvole di moscerini / che ronzavano afosi, // erano le ragazze / sbucate di colpo / che scrollavano l’aria / con il loro vociare fresco, / uno scroscio troppo breve – / il caldo rimbalzava ancora dalla strada»). Memoria che, in virtù della propria ignoranza, si apre a ritroso abbandonando i libri per risalire la corrente delle generazioni: «Mi ho lengiüü tanti stóri da guèr / ca l’è ’me dí ca na só quasi nient. / Ho capî dumâ che ’l culp d’una bomba / la bofa menga via ’l vent / cui mort e ’l fümm di cà squerâ / ma ’l rimbomba ind i fiö, e ind fiö di so fiö» («Ho letto tante storie di guerre / cioè non ne so quasi niente. / Ho capito solo che il botto di una bomba / non se lo porta via il vento / con i morti e il fumo delle case distrutte / ma rimbomba nei figli, e nei figli dei loro figli»).
Ed è forse questa etica che sbocca nell’accettazione dell’idioma più profondamente radicato nella memoria (e che quindi contraddistingue la forma primigenia del sentire) a rendere esplicita l’affinità fra la poesia di Zuccato e quella di Loi. Tale affinità sembra addirittura accentuarsi con La vita in tram (di cui peraltro Loi si fa prefatore), fin quasi a rimettere in discussione il raffronto proposto a suo tempo da Buffoni, a detta del quale Zuccato si porrebbe in un’ottica più borghese di Loi, secondo un’accezione puramente sociologica del termine, che non sottintende nulla di negativo[1]. Nella seconda raccolta, infatti, il poeta mette in scena, con veemenza, un mondo infernale, dando sfogo persino a un’inattesa vena comica, in senso dantesco: dottori, farmacisti, dentisti, ma anche poeti, attori circensi, ragazzini stupidi e volgari sono tra le maschere predilette. Non manca persino un boia, mentre politici, santi e personaggi storici sono nominati senza falsi pudori, sullo sfondo tetro di città costruite su imperi di fogne, oppure in mezzo a sterminate periferie che innalzano il degrado al rango della normalità. Anche il titolo svela la propria carica di sarcasmo, messo in raffronto con una citazione di Margaret Thatcher: «Se a trent’anni prendete ancora il tram, siete dei falliti». Il dialetto o l’italiano non sono affatto differenti dall’inglese di fronte alle brutture e agli orrori della storia, dal momento che il problema della comunicazione è sempre quello di tradursi all’altro, di superare la distanza dell’ascolto con una mozione di amore. Ed è proprio l’amore a spingere il poeta a indignarsi di fronte alle Meraviglie del Novecento (questo il titolo della prima sezione) e fargli assumere in fine un’ottica sempre meno borghese, sempre più volutamente umile, proletaria, popolare. Perciò irride gli agi del boia, nella prima poesia: «Anch ul boja al g’ha i so urett da respir» («Anche il boia ha le sue orette di pausa») e «Quan’ la sentan menga, i visen da cà / i pensan, “ al s’è pisucâ”, ma l’é longh, / tropp longh ul dopudisnâ e i finestar / ogni tant i treman pa’ j aparecchi» («Quando non lo sentono, i vicini / pensano, “si è appisolato”, ma è lungo, / troppo lungo questo dopopranzo e le finestre / ogni tanto tremano per gli aerei»). Le poesie brevi e ancora un po’ troppo raffinate nella ricerca di spontaneità, cedono qui il posto a componimenti più ampi, che si affidano a strofe e strutture compatte (spesso cucite con la rima, ma senza ricami eccessivamente precisi e difficili), insomma a movenze più perentorie, maggiormente adatte alla dizione “sporca” di chi vorrebbe quasi «scrivere una storia della Storia / vista da sotto». Il dialetto, per il suo carattere “volgare”, risulta uno strumento veramente efficace (dantesco, appunto) nella sardonica descrizione della civiltà, soprattutto quando affronta senza inibizioni la nominazione diretta dei luoghi: come nelle fogne delle quali «sa pó no scüsà senza a La Mecca / püssê ch’a Las Vegas, a Curmajör che al Pér, / in Val Silicón che a Gàrdaland / in Sguizzera che in Sguaziland. // A podi sgüissì s’al vör dì Nüyork cun via curent / ma Nüyork senza da fogn, vöri nanca pensàgh» (vano tentare di rendere l’effetto comico e straniante, e il senso quasi fisico dello sguazzare – Sguizzera, Sguaziland, sgüissì – che prende di fronte a questi versi). Ma si pensi, per la nominazione diretta, anche alla sordida litania iniziale di Iperbusto, che pare una bestemmia, oppure ai nomi propri di persona che fanno varie volte capolino: «ul Papa ul Stalén l’Agnelli un scimion», oppure alla divertita mimesi dei titoli preposti a nomi illustri («a ‘sti Aucàtt e Proff. / e Cavv. e Dott. ga scapa föf’ un sbroff / dul trassü da cultüra du sa trüsan / den’ lur»), o ancora alla Roma teatrale e carnevalesca che rifà il verso (in milanese!) a quella del Belli… In questo secondo tempo della poesia di Zuccato diviene esplicita la libertà espressiva che spinge l’autore a rivolgersi direttamene a noi, stranieri davanti alla sua parlata (spezzando così quella sorta di tautologia che richiudeva il dialetto in un’enclave), fino a rovesciare, paradossalmente, il senso di superiorità dell’italiano (che è «voce del potere»), facendone sentire tutta l’astrattezza e la “provincialità”. E fa questo persino sottraendo il suo idioma alla posizione canonica che spetterebbe al testo originale, che infatti viene riportato sulla pagina destra, in corsivo, costringendoci quindi ad affrontare la traduzione, a fare i conti con la sua poesia senza scusanti. Si giunge così a percepire il fatto che nell’elaborazione di ogni componimento, a ben vedere, è sempre implicita una traduzione, nel passaggio dalla matrice esistenziale profonda nella quale esso è concepito (in cui suoni, emozioni, pensieri, memorie inconsce ecc. formano un impasto inscindibile) alla formalizzazione linguistica, passaggio che comporta, inevitabilmente, un movimento intellettuale che apre una distanza, una ferita, rispetto all’esperienza. Portando il dialetto fuori dal recinto idillico per lanciarlo con la sua freschezza espressiva nel mondo, come una sonda potente, Zuccato rovescia sull’italiano (lingua indotta, sempre più lontana dalle radici esperienziali, per assuefazione e mancanza di amore nella cultura) il senso di assedio, il terrore di una omologazione globale. Persino i Versi tradotti degli animali che occupano la seconda sezione sono amare allegorie della vita contemporanea, non più esempi di felicità ingenua del regno naturale (qualora avessero mai veramente assunto questo ruolo nell’immaginario di un poeta dialettale e non, piuttosto, solo nell’ascolto distorto di un lettore in lingua).
Ma una visione così tetra della realtà è tale da piegare la resistenza di qualsiasi spazio vitale autentico? Il titolo più svagato della terza sezione, Cartoline dei giorni feriali (poesie perlopiù con un destinatario espresso in dedica), sembra suggerirci di no, benché ci sia sempre una consapevolezza leopardiana nella voce del poeta, come ben si evince dai versi inviati a un bambino di sette anni e mezzo: «Ma tu, piccolo caro, di queste cose ne sai / ancora niente. Continua a spassartela / con paletta e secchiello, a costruire dighe / e castelli e tirare sassi nel fiume / insieme a me per vedere quanto tempo stanno a galla». C’è dunque un velo di malinconia che avvolge i luoghi e le occasioni, una sottile incrinatura in cui s’insinua nella bellezza la carie del male, «come in un quadro di Brueghel, nascosto / in un angolo (nelle case dorate / e splendide nel sole, per dirne una) / dev’esserci un delinquente che sta / sbudellando un poveraccio». Eppure vale la pena Imparare le coniugazioni (titolo dell’ultima sezione), perché studiare può ancora essere un gesto d’amore che avvicina all’altro, persino attraverso lo studio di una lingua morta: «E il primo verbo che imparai fu amare», si legge in Amo, -as, -avi, -atum, -are, «il primo, come fosse lo stampo di tutti gli altri / e lo studiai tutto in tre quarti d’ora, // tempi e modi compresi, e non credevo / di sbagliare, non c’era niente di difficile». È in tale sezione, dopo questo testo introduttivo, che troviamo forse la poesia più bella della raccolta, Balada in cü in aria (titolo che tradotto si neutralizza in Ballata al contrario), che libera nel crescendo della raccolta stessa tutta la voglia di canto (questa volta completamente positiva, oltre lo slancio indignato della prima sezione): «A vöri dìtal inscì, spatasciâ, / parché l’è ’na lengua da gent menga fen / ma che mi ta vöri ben / sa pó dì dumâ “mi ta vöri ben” […] A vöri dìtal inscì, spatasciâ, / parché ti te lengiaré dumâ a tradüzión / da tütt ul ben ca pröj par ti – / cumé in dul scrì ho faj an’ mi». («Voglio dirtelo così, proprio in dialetto, / perché è una lingua di gente rozza / ma “io ti voglio bene” e “ti amo” / si può dire solo “mi ta vöri ben”. […] Voglio dirtelo così, proprio in dialetto, / perché tu leggerai solo la traduzione / di tutto l’amore che provo per te – come scrivendo ho fatto anch’io»).
Il prodigio di questa poesia, allora, è quello di rendere leggero ogni peso intellettuale (che la voce non più “borghese” di Zuccato abbia un’origine dotta ce lo ricordano anche gli ultimi versi della raccolta, che si possono accostare al Keepsake montaliano), di ricordarci la mozione d’amore che rende possibile ogni traduzione e vitale ogni parola, ogni lingua, ogni segno prossimo al silenzio dell’emozione condivisa.
(da Poeti nel limbo)
[1] «E quanto Zuccato debba al magistero di Loi è riconoscibile proprio nell’autonomia che egli ha saputo conquistarsi. Anzitutto differenziandosi anche nella grafia (studiando ex novo su introvabili testi e glossari); quindi considerando alcune prospettive critico-sociologiche. Loi è un poeta che scrive in milanese, non un poeta milanese. Loi resterà come voce della Milano del secondo dopoguerra, della Milano fortemente caratterizzata dal fenomeno della immigrazione. Loi stesso esce da quel tessuto sociale, lo rappresenta. È un tessuto proletario e sottoproletario, che prue appare nella letteratura dialettale milanese precedente, ma visto dalla prospettiva della classe media. Affermare che la prospettiva poetica di Zuccato, invece, è borghese, non significa affatto individuare in lui una tendenza a celebrare aspetti della vita e del costume che Loi critica; significa che il suo punto di vista è borghese nei suoi aspetti fondanti, anche se poi può essere altrettanto ferocemente critico» (Franco Buffoni, presentazione a Tropicu de Vissévar, in Poesia contemporanea. Quarto quaderno italiano, Milano, Guerini e Associati 1993, p. 207).
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!