Marco Merlin, Poeti nel limbo (2005)

Poeti contemporanei: Alba Donati

C’è un’energia, una tensione fluviale nelle poesie di Alba Donati che si sposa bene con la parsimonia delle pubblicazioni. Si potrebbe citare il paradigmatico titolo di un gruppo di testi apparsi su «Poesia» nel 1993, Io sto dalla parte del cuore, per suggerire il candore espressivo e quasi la sfrontatezza con cui l’autrice si abbandona al canto e al racconto, senza celare affatto i riferimenti politici e biografici, affioranti anzi esplicitamente quali moventi della scrittura. Qui il mito tocca la storia e plasma le sue utopie con incandescenza e talvolta con coraggio declamatorio. L’esigua produzione di questa scrittrice è affidata a La repubblica contadina e Non in mio nome, libro, quest’ultimo, che riprende e riparte dalla sezione più avvincente, Portovenere, del volume d’esordio. L’oculatezza delle uscite editoriali reagisce con l’esuberanza espressiva come una necessaria disciplina: la sobrietà e il distacco sono le premesse perché si dia potenza di voce; senza raccoglimento, rotti completamente gli argini formali, la poesia si perderebbe nell’indiscriminato o nella pratica del mestiere letterario.

C’era, però, un’indicazione formale ricorrente e sintomatica all’altezza della Repubblica contadina: si tratta del riferimento alla ballata (Ballata della Repubblica Contadina e, per i testi pubblicati nel 1993, Ballata delle bombe). Eppure, anche qui, la forma che si esplicitava non era da intendersi quale cifra esteriore. L’autrice non ricalcava gli istituti della tradizione, li rivitalizzava semmai cogliendo il valore di coralità espressa dall’io lirico che racconta. Con questo senso naturale degli argini, il verso riesce a trascinare con sé senza perdere slancio, nei momenti di piena, tutti i detriti raccolti strada facendo: una lunga serie di nomi, sigle, date, frammenti di storie e di dialoghi, elenchi, cronache, voci, luoghi e così via, con decisione, fino alla prosa, fino al reperto documentario, un po’ alla maniera di Riccardi.

L’accostamento non paia peregrino: al di là del fatto che Riccardi risulta uno dei tre amici (gli altri sono Dal Bianco e Marotta) cui era dedicata la poesia introduttiva del libro d’esordio, ad avvicinare La repubblica (con annesso contado) al Profitto domestico è la necessità di rendere indiretta la presa lirica della poesia, senza negarla, potenziandola semmai. Per entrambi, il vero argine formale è dato da uno scarto temporale, da un raboniano approccio anacronistico alla materia biografica. è attraverso le vicende della famiglia che il poeta recinge i motivi della scrittura, è il passato a contenere la forza del presente. Se poi il lavoro di Alba Donati ha uno sviluppo quasi opposto rispetto a Riccardi e finisce per chiamare un causa una coralità più esplicita e politicamente connotata (un popolo, si arriverebbe a dire), ciò si dovrà appunto alla tensione al canto, alla pienezza vocale, all’esuberanza vitale che (con buona pace dei longobardi che dominarono a lungo nelle terre toscane cui si fa riferimento) finisce sempre per contraddistinguere un autore toscano dalla più sobria, moralmente sofferta e rastremata lingua cui aderisce la vena di uno scrittore lombardo (o più genericamente padano).

Fonte di ispirazione è il contado che circonda Lucignana, paese natale di Alba Donati, «un luogo semisconosciuto, tra le Apuane e gli Appennini, popolato da cento anime circa. Lucignana», ci spiega nella nota al libro La repubblica contadina, «è in Toscana ma dalla Toscana fiorentina o senese è distante per lingua, tradizioni e costumi». Ma, ovviamente, questo è solo il centro radiale che costruisce un mondo poetico che può arrivare ad abbracciare anche la Russia dei molti scrittori amati, l’angolo ottico che determina il temperamento di una voce che sa di dover tendere all’universale, rendendo ragione del particolare. Il tempo, invece, non è il momento lirico e assoluto, «Isolato, senza prima né poi, / Ma tutta una vita che brucia in ogni momento / E non la vita di un uomo soltanto» (citiamo l’Eliot dei Quattro quartetti che è uno dei massimi punti di riferimento per l’autrice). Se «La casa è il punto da cui si parte», come ci ricorda il poeta inglese, il viaggio supera la vita individuale e abita una memoria più vasta e condivisa, che non è solo la memoria letteraria, ma anche quella trama di pensieri, di storie, di attese e di ostinazioni che formano il microcosmo sociale al quale si appartiene, con il carico di responsabilità e insieme di libertà che tale adesione comporta.

Queste le ragioni di una poesia che sa compiere un percorso orizzontale narrativo, che respira l’aria delle più alte vette liriche, che inventa a partire da un dato storico, che è civile nel momento stesso in cui segue liberamente l’impulso lirico, purché tutto scorra come un fiume e con l’intensità che fora il tempo ordinario per consegnare la vicenda alla compresenza dei tempi, dove memoria e desiderio si compenetrano.

Il punto di vista privilegiato per indagare quel popolo in procinto di scomparire, per un’Italia avviata per altre strade di progresso, è la storia della famiglia di Alba, che si intreccia con quella degli amici: ciò garantisce presa interiore a una tematica che altrimenti solleverebbe ovvie titubanze. Né si trascuri la particolarità del contesto sociale cantato nella Repubblica contadina: l’epopea proletaria non esce dai confini estremamente circoscritti e marginali di un paesino «popolato da cento anime circa» e che nonostante la collocazione geografica respira «aria di nord e di miniere del Belgio».

Certo è inevitabile che si presti talvolta il fianco a un’impostazione retorica (il primo libro si chiudeva con una sezione intitolata Utopia del bene, in cui vi era spazio per un’invettiva agli scrittori di romanzi e per rimandi ad altri contesti geopolitici, di stretta attualità; il secondo compie altre reprimenda nei confronti del «carretto letterario» e delle sue mode, propone modelli alternativi, richiama fatti storici e contemporanei come il disastro del Vajont del 1963, il crollo delle Torri Gemelle, il G8 di Genova o, ancora, il terremoto del 2002 che a San Giuliano di Puglia provocò in una scuola elementare la morte di ventiquattro bambini e una maestra), ma questi rimangono sbocchi particolari e momentanei, per così dire congeniti, come una periodica piena alluvionale del fiume-poesia, e finché non si congeleranno in una poetica anche tale eccesso rimarrà un dato da considerare nel dinamismo complessivo dell’opera. Tuttavia, le sequenze più coinvolgenti restano ancora, non a caso, quelle in cui i motivi storico-politici si trasfigurano e i momenti in cui i dati della realtà diventano ingredienti per l’invenzione, cosicché le immagini acquistano una leggerezza fantastica non priva di affondo nel reale. Si pensi al monologo di Giulia che invoca l’amore di Valerio, nel poemetto Portovenere: si tratta dell’incontro, oltre le coordinate temporali della storia, di due spiriti persi nelle acque (Valerio era il fratello del padre di Alba, morto nel 1944 pochi giorni dopo l’annuncio della liberazione perché investito dall’acqua improvvisamente fuoriuscita da una diga fatta saltare dai Tedeschi): qui non c’è nulla di patetico nell’esaltazione immaginosa dei sentimenti, mentre forse non si può dire altrettanto per i versi più civili. Allo stesso modo la Ballata della Repubblica Contadina, testo comunque altissimo, riprendeva, con quella lunga evocazione di personaggi chiamati per nome e ricordati con un indizio biografico, maniere troppo evidenti (scontato ogni riferimento con l’antologia di Spoon River o il confronto con testi di analoga struttura di Mussapi, ma più illuminante potrebbe rivelarsi un accostamento a Pagliarani), mentre inarrivabile resta anche nella raccolta Non in mio nome la potente semplicità di una poesia, pure dalla trasparente retorica e dall’architettura basata su parallelismi (peraltro abbastanza tipici), come Canto delle acque.

Proprio nell’ultimo libro si cerca di allargare l’universo immaginario di Portovenere, con la sua felice presa fantastica e insieme realistica, per mezzo di una sezione in cui figurano come ospiti nell’Ade sottomarino di Giulia e di Valerio i bambini con handicap fisico o psichico sterminati in segretezza per volere di Hitler (fatti tenuti nascosti al pubblico dall’ordine dei medici fino agli anni Novanta). E l’operazione si può dire riuscita. Il file rouge che invece attraversa la seconda parte della silloge, più sfrangiata tematicamente e maggiormente a rischio di cadute retoriche e prosastiche, è l’ideale punto di osservazione di chi eleva lo sfondo domestico e familiare a schermo per rendere scandalosamente visibile una storia di donne (la madre, le zie, la figlia), una ferina maternità che non teme di proporsi come elemento reattivo, benché sommerso dai fatti eclatanti della storia, fermo nelle date e nelle ore che precedono ogni disastro e pronto a riemergere, naturalmente, per rivendicare la sua estraneità politica alla follia dei tempi.

(da Poeti nel limbo)

 

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