Lo splendore delle apparenze (Marano)
Basta guardare la biografia di Giampiero Marano (nato a Salerno nel 1970) per rendersi conto di trovarsi alla presenza di un’intelligenza critica originale, capace di coniugare la filologia e la filosofia occidentale (laureato in Lettere antiche, avevo già particolarmente apprezzato a suo tempo La parola infetta, una rilettura della tradizione letteraria italiana) e il pensiero orientale (si è occupato della Bhagavadgita e della Danza di Siva di Coomaraswamy), sulle tracce del sacro (irriducibile a qualsiasi dottrina) che sta a fondamento dell’esperienza letteraria.
Ora, nel suo ultimo libro (Lo splendore delle apparenze, Salerno, Oèdipus 2016) sarebbero molti gli spunti da riprendere (anche e soprattutto quando, ovviamente, i giudizi complessivi non collimano), a partire dalla prima parte, che si avvia con un Manifesto della critica immobile, per passare al corposo capitolo centrale dedicato all’opera di Antonio Moresco, o ai quadri conclusivi dedicati a sette voci mediterranee (Rosselli, Ritsos, Al-Aswani, Calasso, Choukri, Barakat e Rea), ma io ho riletto con piacere una lettura dell’Opera comune, ritrovandovi intuizioni importanti, a dimostrazione del fatto che non ci si trovava di fronte a una piatta segnalazione editoriale ma, appunto, all’esercizio felice di una mente critica.
Nell’epoca della progressiva usura delle «soddisfazioni private» (Lasch) e della manifestazione di intensi, sebbene contraddittori, fermenti di vita collettiva, non deve stupire che un’antologia di poeti italiani nati negli anni Settanta si intitoli (sconfessando apertamente la rissosità post-sessantottina della generazione precedente) L’opera comune (Atelier, 1999). Né bisogna pensare, se quanto è dato intuire sul profilo culturale di questa nuova generazione non rappresenta un semplice wishful thinking, che i giovani autori siano per scelta o per vocazione vittime di un deleterio irenismo poetico: il riconoscersi in un’opera comune che non sopprime le singolarità, i diversi colori, ma i fa risaltare attraverso il confronto (come accade effettivamente nell’antologia), è infatti ispirato da motivazioni che sembrano più serie e più “terribili” di quello che si potrebbe supporre. Perché? È bene insistere sul fatto che l’antologia curata da Giuliano Ladolfi presenta diciassette poeti la cui akmé si colloca fatalmente dopo una Fine (simboleggiata, se si vuole, dalla caduta del muro di Berlino) declinabile, sappiamo, in molti sensi: come fine delle ideologie, delle appartenenze, delle poetiche, dei movimenti, ecc. Condizione, questa, che li rende sufficientemente consapevoli di come l’incontestabile tramonto possa nello stesso tempo diventare azzardo di un altro inizio: e allora non sarà casuale che Giovanni Turra creda nell’attualità di una storia «finita» e insieme «non ancora cominciata»; che alcuni versi di Gabriel Del Sarto nominino la «coincidenza dell’Origine / e della Fine»; che la concretezza materica della poesia di Laura Pugno insegua per paesaggi desertici la percezione asciutta di una palingenesi («la lingua è la terra / del sahel, sente, le dita sulla chiazze, il sole»)… In altre parole: l’esaurimento delle poetiche, analoghe a quelle del Soggetto, della monade senza porte né finestre, può aprire la strada a un “impoetico” (proiettato fuori dallo steccato dell’istituzione letteraria) che esige naturalmente un nuovo ed essenziale plurilinguismo uguale e opposto al pastiche post-moderno – una confusione stilistica attenta ai contenuti dell’esperienza, al mondo riconosciuto insomma, senza distinguere gradi gerarchici, come totalità vivente. È evidente, a questo punto che l’identità venga a configurarsi, o meglio a sconvolgersi, in risposta a paradigmi fluidi che ne fanno letteralmente esplodere lo zoccolo duro di autoreferenzialità: «si partecipa al Tutto / nel momento del dissesto», scrive così Andrea Ponso; mentre, al cospetto di una natura indifferente, Daniele Mencarelli prende atto del crollo questa volta definitivo di ogni consolazione antropocentrica. Se l’obiettivo della loro ricerca non deve più consistere nella manipolazione volontaristica del linguaggio ma in un cedere metodico alle sollecitazioni di contagi invasivi, è ovvio che l’impegnativo idolo polemico dei giovani autori sarà pur sempre rintracciabile nell’io lirico (e in quell’autentico, temibile “antivirus” che è il sentimentalismo) nato con Petrarca proprio nel secolo della Peste Nera. Di qui l’adesione, lungo una linea antipetrarchista di origine (almeno in parte) ancora novecentesca, al processo che Pasolini aveva definito di «abbassamento linguistico della poesia», con il conseguente «allargamento (…) capace di contenere il nuovo orizzonte (…) in cui l’uomo (…) vive realmente». È ciò che avviene nella poesia di Andrea Temporelli, la cui ricerca, nutritasi degli apporti provenienti da materiali “bassi” come il gergo e la filastrocca, tenta la non facile strada della poesia civile. Colpisce invece la densità inesorabile dei versi di Elisa Biagini, ossessivamente popolati d cose ordinarie: «Ritornerai / come un piatto / nel divano, un osso / nella porta // riciclata, sfogata negli // oggetti». A ben vedere, la definizione di realismo applicabile a una generazione di scrittori nati negli anni Settanta non dovrebbe comportare più alcun riferimento genericamente “moderno”: e questo non soltanto perché oggi si è ormai compreso che negare l’Io in nome della Realtà vuol dire sostituzione di una metafisica all’altra (ingenuità da evitare per non cadere nella contraddizione rilevata da Odo Marquard, secondo cui «quanti più miti ci si toglie, tanti più miti si indossano») ma anche perché nell’era dello spettacolo e del virtuale riesce sempre più difficile separare la sostanza dal simulacro, l’oggetto dalla sua rappresentazione. Per i poeti dell’Opera comune il patrocinio del “realismo” funziona sì, mi pare, ma solo a patto di indicare un percorso fondamentalmente conoscitivo (del genere nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu) che non imponga petizioni di principio, a priori ontologici: sotto questo aspetto si deve sottolineare la presenza attiva della lezione di Magrelli (peraltro incluso da Ladolfi fra i padri della nuova generazione), con quella sottile vibrazione di “venature” dagli esiti sommessamente enigmatici avvertibile in Igor De Marchi. Rispolverando i termini di una dicotomia estetica segnalata da Dorfles a metà degli anni Settanta, è lecito affermare che la progettualità tenda nei giovani poeti a confondersi con l’oggettualità, la mente con la natura: è chiaro che in questo cammino verso la liberazione definitiva dalla «tradizione petrarchesca, sentimentale e arcadica» di cui parla Ladolfi ci si può spingere ancora oltre, più marcatamente nella direzione di un inedito, impersonale modello di radicamento nel mondo e in quella di un espressionismo non più ludico-ironico ma pratico-estatico. Ecco perché, sgombrato il campo da ogni equivoco neo-romanticismo e dalle nostalgie dell’Età Aurea, l’orizzonte-limite, il passaggio ulteriore implicito nei presupposti teorici dell’Opera comune, sono rappresentati dalla “grande” politica, cioè dalla politica senza l’ideologia (compresa quella del tramonto delle ideologie), e dalla mistica alleggerita da ogni zavorra spiritualistica, confusa anzi con le verità meno edificanti di ogni giorno. Va osservato che la riduzione linguistica e tematica operata agli albori della lirica moderna (mi riferisco, ovviamente, al celebre e non superato saggio di Contini sulla lingua di Petrarca) non colpisce soltanto la realtà sublunare ma anche quella “impossibile” eppure concreta dischiusa dall’excessus mentis: a beneficio di una derealizzazione aberrante indotta dalla ragione utilitaria, il soggetto moderno censura allo stesso titolo la quotidianità più triviale e il raptus più sconcertante, facce complementari di quell’unica medaglia definibile come “sapere dell’immediatezza”. Forse a una simile esperienza allude con pudore Daniele Piccini quando, proprio nel momento in cui sembra sfiorare una visione di perennità, chiede uno sguardo che ritorni al mondo per custodire pietosamente ciò che si è perduto o si sta avviando verso la dissoluzione. La nuova generazione potrà essere tanto più decisiva quanto più saprà registrare l’emersione nel mondo e nel linguaggio della violenza delle cose (obbligatorio, al proposito, il rimando al capitolo della Comunità che viene di Agamben dedicato ai Collants Dim) esibita da quell’intrecciarsi di circostanze non necessariamente sfavorevoli che va sotto il nome di “nichilismo compiuto”
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