Poeti contemporanei: Aldo Nove
(La foto è di Dino Ignani.
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Com’è noto, Aldo Nove è il secondo pseudonimo adottato da Antonio Centanin, che esordisce come poeta nel 1989, con il nome di Antonello Satta Centanin (Satta è il cognome materno), con il volume Tornando nel tuo sangue. Uno dei suoi padri putativi letterari è Franco Buffoni, al quale è infatti dedicato il volume, ma il poeta che maggiormente influisce sulla sua ricerca è Milo De Angelis, per altro firmatario della controcopertina. L’intonazione predominante del libro è tragica, i testi si stagliano su uno sfondo di concentrazione lirica tanto da risultare spesso ermetici, tesi alla ricerca di folgorazioni memorabili e perentorie, oppure pronti a registrare frammenti di dialoghi o affermazioni sospese in un contesto ambiguo.
Le movenze testuali ricordano libri come Millimetri e Distante un padre per l’eclettismo sorvegliatissimo che propone versi brevi e lunghi, inarcature che violentano la sintassi, improvvise cesure del respiro; a tratti sembrano persino riemergere accenti ungarettiani («Incedere che non so / umano / ci sottende // al buio, ci dilania»), probabilmente filtrati dalla lettura di Celan (cui è dedicato un testo). L’ossessione per le date (giusto la poesia dedicata a De Angelis si intitola L’accento delle date) o per le ore (Le dodici e ventuno o Un’ora precisa sono titoli esemplificativi) diventano il sintomo della ricerca lirica spinta al massimo grado di esistenzialismo: ci si inabissa nell’hic et nunc senza compiacimenti sentimentali, quasi con cinismo – alla maniera, appunto, di De Angelis – e con tanta forza da sfidare la logica comunicativa, spesso messa in scacco da affermazioni apodittiche: «così che / in ogni cosa segretamente stava / la galassia».
Vero è che Tornando nel tuo sangue (il titolo è un riferimento alla figura materna, al tema capitale della riappropriazione dell’origine) accoglie già poesie che rivelano la presenza di un’altra pronuncia, che punta sulla chiarezza comunicativa e su un’intonazione talvolta alta e lirica talvolta bassa e ironica, e che denuncia l’impulso a dissacrare la poesia stessa. Sembra anzi che l’autore cerchi lo choc fra un’idea di scrittura ancora radicata nel sublime e il confronto con lo squallore della quotidianità: viene in mente la dinamica di reazione all’aura poetica dannunziana tipica dei Crepuscolari («il problema è vivere bene, anche / pagare la tassa di successione», si confida nel testo introduttivo). Il componimento che esprime compiutamente tale apertura è O lapide. Già il titolo, per l’enfasi del vocativo e per il simbolo attivato, con tutte le suggestioni che esso si trascina (la poesia come monumento perenne, ridotto nel tempo presente a totem nostalgico), tradisce l’impulso che lo anima. La citazione iniziale è tratta dalla poesia più celebre di Giovanni Giudici, Una sera come tante. I versi sono stati estrapolati sotto l’ipnosi provocata dal dato crudamente realistico, grezzo, impoetico per eccellenza, benché pronunciato in una posa sintattica persino manierata: «i bambini si sono addormentati, / e dorme anche il cucciolo i cui escrementi / un’altra volta nello studio abbiamo trovati». La poesia in questione si sdipana in quattro pagine con noncuranza, senza particolare tensione compositiva. La tenuta è data dall’intonazione vocativa, dalla pronuncia quasi di preghiera, inizialmente consona al timbro deangelisiano anche per la forza visionaria di alcuni passaggi ellittici, che innestano per sghimbescio nuovi attanti e nuove immagini: «Bambini come siete belli e / come nascete adesso, dallo squillo / più donna / e un grumo, cercando / di contenere la recinzione, / mentre un caldo arginava, / di stanza in stanza, / settembre, / gambe». Nel suo percorso, tuttavia, la scrittura si fa sempre più vorace e i realia chiamati in causa danno sempre più credito alla piega crepuscolare-giudiciana («O lapide / gesù, nel paradiso / untuoso dei bollettini cristiani della / nonna come crescevi / nel suo suicidio gentile, fatto / di pere cotte e preghiere / con l’urinale per la notte»), fino a permettere lo sbocco finale della pronuncia, che si fa disinibita («O lapide puttana / e leccata mentre pensava la tariffa» ecc.) e magari “politica”, rimettendo in discussione la tenuta complessiva. Questa infrazione di registro è poi ripetuta e raggiunge il culmine nell’ironica e volutamente dissacrante citazione di Mario Luzi: «O lapide pettegola della Verità / come sei pesante, / ordinata, imbellettata / come una poesia di / Mario Luzi». Qui il poeta fiorentino è preso a personificazione e bersaglio, appunto, della lirica sublime, estremo opposto al Giudici che torna nel finale per rispondere alla sua stessa citazione: «O / Giudici, quanto dura / nei secoli / quella cacca sul tappeto?» (e non sfugga quel «nei secoli» che riattiva tutta la valenza simbolica della «lapide / poesia che passa / alla storia», degradata fino a ridursi a «escremento»).
Malgrado questi testi siano concentrati all’inizio del libro, al momento tale differente versante della ricerca di Aldo Nove rimane subalterno rispetto al primo (orfico, per intenderci), vuoi per questioni di quantità, in un libro per di più giovanile e quindi mosso da tensioni non ancora assorbite in una cifra stilistica matura e uniforme, vuoi per la sensazione che tale dissacrazione non sia ancora portata alle estreme conseguenze: si tratta, insomma, di infrazioni che rientrano ancora, paradossalmente, sotto il magistero deangelisiano: si veda come anche nei testi di quest’ultimo l’improvvisa irruzione di un elemento bruto, impoetico, discordante rientri nella quota di sprezzatura prevista dalla sua poetica. Si può citare a tal proposito la poesia Bolletta dell’Enel, che segue O lapide: l’inizio “basso” («Adesso è questa / bolletta dell’Enel») viene presto corretto e deviato verso un finale asciutto e drammatico («dove il deserto è una goccia / che dall’infanzia prorompe / in questa cucina»). Avrà agito su questo particolare aspetto (l’irruzione dell’elemento quotidiano, di quello che in seguito diventerà la poetica della merce) certamente la lettura di Giudici, ma questo conferma, appunto, che la dissacrazione della poesia non si spinge oltre a una calcolata soglia ironica, oltre uno choc produttivo all’interno di un’idea sublime della scrittura non ancora delegittimata.
Il successivo Musica per streghe rappresenta un passaggio evolutivo, a giudicare dal tenore complessivamente più coerente, improntato a una maggiore trasparenza comunicativa, pur in un tono fermo (non estraneo, peraltro, alla cultura lombarda che ne rappresenta quantomeno il contesto) e a tratti venato di qualche punta moralistica ancorata a una poetica delle cose e della realtà sociale (come nella poesia Negro), tant’è vero che la voce dell’autore è prestata a figure di un coro immaginario (figure anche femminili, come nella poesia Un’altra sigaretta, un mezzo cielo… Anche la posa è meno inquieta, mentre lo sfondo, rappresentato dalla città di Milano, contribuisce a conferire coerenza immaginifica.
La matrice deangelisiana (si pensi ancora a certi attacchi, del tipo «Chi muore è volgare»), che resta sostanzialmente confermata, spiega qualche deriva surreale (o fiabesca, per tornare ai termini della prefazione di Marano), esemplificabile in particolar modo con Le camiciaie stirano gli abissi («Segnando / la via Caronte ride, / ma s’innamora presto di una voce / di gelataia, / e spera di sposarla. // Nell’Acherone / passano battelli / che mio nonno / buttava dentro il camino. / Bruciavano le suore che parlavano di razzi e scudetti…»), che si chiude comunque con un motto preciso: «In questo post-elettorale caos / cercavo di non perdere la calma, / tenevo bene stretto il portafogli».
Fin qui una poesia, peraltro molto bella, come Tornare, composta nello schema del sonetto, rappresentava un unicum formale. Con la breve silloge La luna vista da Viggiù, composta in gran parte da un’antologia delle prime due raccolte, assistiamo invece a un assemblaggio eterogeneo dal punto di vista formale (oltre a diversi componimenti in forma chiusa, troviamo alcune prose) e spiazzante soprattutto dal punto di vista tonale: compare infatti quel filone epico-pornografico (si vedano La scoperta della pornografia, Dove nascondevo i porno, Come rubare «Anal sex» all’edicola) che probabilmente ha connotato il personaggio di Satta Centanin, ormai pronto a diventare Aldo Nove (ricordiamo il fortunato, ed effettivamente godibile, esordio in prosa di Woobinda) e guadagnarsi un posto nel contesto della giovane narrativa, tra «cannibalismo» e «pulp».
Potrà trattarsi anche di una maligna coincidenza, ma la contiguità di testi come Sacrestano e Pasqua pare appositamente congegnata per giustificare lo scivolamento sulla base della piattaforma metrica verso il registro scopertamente parodico, che rappresenta la novità fragrante. È come se si avvertisse il bisogno di controbilanciare l’uso del repertorio metrico più frusto con il ricorso a una materia scabrosa: qualcosa di ben più spinto della gestione ironica di giudiciana memoria. La poesia Sacrestano si sintonizza ancora su un timbro del tutto serio, mentre invece Pasqua, che chiude il primo verso su un termine già usato nella stessa posizione strategica nel testo precedente, «oratorio», scivola a piè pari, complice la rima questa volta con «obitorio», verso il registro comico, anche sulla scia dell’impulso narrativo. E l’autore ci prende gusto, fino ad apparecchiare tutti gli elementi della nuova poetica: la rappresentazione degli oggetti diventa feticismo della merce, la tensione moralistica si fa sarcasmo divertito, le strutture chiuse si trasformano da strumenti di addensamento a supporti potenzialmente espandibili a piacere per contenere la vena affabulatoria, lo sfondo lombardo, esausto, cede al piacere liberatorio del confronto con la cultura pop: e la poesia ora viene veramente dissacrata. L’effetto è ovviamente quello di uno spiazzamento al limite della delusione, per chi finora aveva immaginato ben altri percorsi, ma anche di una sorta di piacere della demistificazione e di consenso per alcune tematiche (l’educazione sessuale dell’adolescente) che finora avevano trovato poca legittimazione nella letteratura “alta”. Tuttavia, questi ultimi esiti positivi risultano piuttosto effimeri, come ci si trovasse di fronte a un inevitabile declassamento all’interno di un genere costitutivamente subalterno, non certo disprezzabile, ma per sua stessa natura in grado di brillare di riflesso, sfruttando l’effetto parodico (di corrosione ironica) rispetto al genere letterario maggiore (contemporaneo o meno: si pensi alle ottave ariostesche, al lessico e alla sintassi aulici di Come rubare «Anal sex» all’edicola).
Ci troviamo di fronte a una svolta radicale e irreversibile oppure al procedere lungo due piste parallele che si affiancheranno anche in seguito? Esiste la possibilità di trovare una qualche sintesi tra i due versanti poetici, tra Antonello Satta Centanin e Aldo Nove? L’antologia Fuoco su Babilonia! (il titolo, tratto da una canzone di Sinéad O’Connor, punta evidentemente dritto al cuore della cronaca contemporanea), che peraltro resta bloccata entro gli estremi cronologici 1984 e 1996, non scioglie questi dubbi, anzi li rafforza, malgrado l’effetto equilibrante delle scelte e dell’apertura con versi in metro tradizionale, che costringono a retrodatare la maniera comica emersa compiutamente solo a metà degli anni Novanta. I poderosi apparati critici che irrobustiscono il volume (l’introduzione di Pagliarani, la postfazione della curatrice Gemma Gaetani, leggibile anche in un’anticipazione sulla rivista «Poesia», l’appendice che ripropone le pagine critiche di Milo De Angelis e di Franco Buffoni) forse resteranno a ricordarci in seguito l’aspetto ironico (per l’eccesso celebrativo) dell’operazione, ma attualmente c’è da credere, considerata anche la parte ricoperta dal poeta nello strano caso del volume Nelle galassie oggi come oggi, che Aldo Nove sia intenzionato a prendere veramente sul serio soprattutto il versante goliardico della sua ricerca.
(da Poeti nel limbo)
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