Nomen omen
Si fermò un istante a una tavolata di giovani scrittori, che probabilmente erano tutti grandi autori in incognito. Non conosceva nessuno, ma il dialogo gli sembrava interessante e vivace:
«Pensate se avesse pubblicato con il vero nome: Oronzo Trombetta, Poesie d’amore!»
«Ah ah ah!»
«Secondo me sarebbe stato un successo!»
«Comunque, lo pseudonimo è una gran furbata. Metti che il tuo libro sia un fiasco: avrai evitato di sputtanarti, no?»
«Già, e se invece è un successo, dal libro successivo basterà scrivere nella nota: Oriana Cecchisio è il nom de plume di Efisio Cornacchia… Così rendi contenti anche mamma e papà.»
«Oddio, se mio figlio, per quanto cornacchia di suo, andasse in giro con un nome da femmina, avrei poco da sentirmi orgoglioso.»
«Ah ah ah!»
«Per me, val la pena prendere lo pseudonimo solo per sentir dire: nom de plume…»
«Ehi, non ho mica finito. Ci sono molti altri vantaggi in uno pseudonimo. Per esempio, puoi partecipare a uno stesso concorso con diverse poesie di stile diverso, e aumentare la possibilità di raggranellare qualcosa. E se arrivi primo e secondo, pensa che bel malloppo! Oppure, puoi entrare nella libreria del tuo paese e comprare il tuo libro senza essere riconosciuto.»
«E magari tentare un approccio con la commessa, se è carina: “Sai, conosco l’autore…”. E con la promessa di presentarglielo, prima o poi, intanto ci esci e vedi se ne vale la pena.»
«Uno pseudonimo è un parafulmine che ti permette di sentirti libero di schiccherare le tue interiora senza vergognarti.»
«Oppure ti permette di fregartene di te stesso e di scrivere quello che ti pare, senza pensare se quello che dici ti sta bene in bocca.»
«Vero, come tutti quelli che usano uno pseudonimo straniero, meglio se americano, per pubblicare robaccia di genere solo perché vende.»
«E pensate che bello, una volta famosi, sentire che la gente parla di te e anche il poetino che non ti conosce dire: “Hai letto, eh, quello è un genio!” — “Eh, già, hai proprio ragione!”»
«Macché, meglio: “Hai letto che cagate mostruose? Vende solo perché è un raccomandato” — E tu lì di fianco, che puoi decidere: riveli che sta parlando a te di te, e lo svergogni per bene, oppure stai al gioco e ti prendi per il culo da solo…»
«Finché non va alla presentazione dell’autore che in verità ammira, e ti riconosce… C’è da scriverci un raccontino!»
«Altro vantaggio: pensate a quanti critici grulli staranno lì a domandarsi il perché e il percome della scelta di quel particolare pseudonimo. Non si sa mai che nasconda qualche trauma, qualche chiave segreta per decifrarne l’opera.»
«Io, se adottassi uno pseudonimo, vorrei che fosse un nome di battaglia, alla maniera partigiana.»
«Sì, sarebbe figo. Però, dovresti davvero stare attento a quel che scrivi. Sarebbe, più che uno pseudonimo, un eteronimo. Con un nome d’assalto, devi costruirti una personalità confacente.»
«A questo punto, meglio lasciar perdere. Faccio già così fatica a star dietro alla mia, di personalità!»
«Comunque, gira e rigira, dietro alla scelta di uno pseudonimo c’è la vergogna per qualcosa…»
«Del proprio nome, è ovvio! Rammentate: Oronzo Trombetta…»
«Chi si firma è perduto!»
«No, dai, siate seri per un attimo. Secondo me il problema è che il proprio nome è sempre insostenibile. Così bisogna trovare il modo per liberarsi, per dare corpo a una possibilità di sé diversa. Una specie di atto impuro. O un altro modo per diventare anonimi. Per diventare responsabili della propria nascita. Come presentarsi e dire: “Buongiorno, io sono Uomo”. Anzi, com’era quella battuta? “Mi chiamo Erik Satie, come tutti”.»
«Ma piantala di dire strullate! Mi sa che anche questa verità sei andata a leggerla in fondo al bicchiere!»
«Ah ah ah!»
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