Gabriella Sica, fotografia di Dino Ignani

Poeti contemporanei: Gabriella Sica

(La foto è di Dino Ignani.
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La tentazione di leggere le Poesie familiari di Gabriella Sica sulla scorta delle affermazioni rinvenibili in Sia dato credito all’invisibile, volume di «prose e saggi» edito quasi contemporaneamente, è avallata dalla stessa autrice, che definisce quest’ultimo un «controcanto in prosa» del primo (così si legge nel risvolto). E in effetti nel brano introduttivo dichiara:

Ci sono inoltre, in queste pagine, gli umori dei miei versi, in gran parte inediti o sparsi su riviste, scritti in questo decennio. Il «sentire delicato», la gentilezza o la civiltà non sono parole astratte, ma invisibili idee guida del nostro vivere. E poi c’è la necessità della lode, laddove più forte cresce l’ingiuria: sia dato credito. Ci sono i temi a me più cari: la campagna e la natura come le ho conosciute nella mia infanzia, la scrittura come aratura, i bambini, con il loro essere fanciullino davvero saggio e giusto, che sono come i poeti; e poi il luogo del «familiare» come ultimo luogo comunitario, l’io che scompare e diventa invisibile più per un atto di carità o per obbedienza alla vita che per un bel verso.

Siamo così introdotti in quella sorta di scandalo del candore che è il clima dominante di queste liriche. L’autrice cerca l’innocenza del fanciullino, si pone in dissidio con il proprio tempo («Non sarà il momento giusto per essere contro questo secolo, contro il Novecento?») ricambiandolo con la lode, tanto da rovesciare l’acrimonia di Sereni («Amo il mio tempo») e pretendere che la debolezza della poesia sia la vera forza conoscitiva dell’epoca, di ogni epoca, tanto da scommettere che solo nella grazia risieda la verità, in aperto contrasto con l’ideologia (con la psicanalisi e la sociologia imperanti nel nostro secolo) e che nello stile anacronistico, ovvero nell’idea più tradizionale di classicità, si depositi il seme della sapienza. Con ciò si compie un atto di fede (del tutto analogo, benché su altro versante, rispetto a quello compiuto dal Mitomodernismo) sulla coincidenza di bellezza e verità («lodare il bello che è anche il buono»), sul fatto insomma che la misura poetica si adagi su un fondo etico. L’unica religione possibile attualmente all’interno del consorzio umano sarebbe dunque quella delle lettere, capace di sublimare il sincretismo (si pensi all’inseguirsi euforico, sempre nella prosa introduttiva a Sia dato credito all’invisibile, dei nomi di Gesù, Budda, Confucio, oppure alle numerose citazione dai classici, dai vangeli, dai poeti moderni, dai filosofi, dagli artisti, dai mistici).

Non può, naturalmente, non sorgere il dubbio di un’ingenuità abbracciata senza indugi in tali pronunciamenti, che potrebbero sembrare affermazioni tanto ardue da ritenersi personalissime, mentre l’autrice sente di compiere anche «il ritratto di una generazione che è vissuta e si è formata ai margini dell’editoria e dei media», una generazione di poeti «un po’ padri e madri di se stessi», perché hanno incontrato i loro maestri non sul terreno aperto del confronto umano, ma nello spazio ovattato della lettura, nel dialogo sui libri prediletti: come se anche il Novecento dovesse essere interrogato con la distanza attribuita ai classici, fuori dai coinvolgimenti dottrinali e dall’impegno militante. L’unico impegno possibile è infatti quello di volgere la poesia al «patrimonio spirituale ed etico proveniente dalla tradizione», dando credito, appunto, «all’invisibile, che è fondamento e fine della poesia. È l’invisibile che ci mostra in tutta la sua concretezza e viva evidenza il visibile, il reale vero»: e tali valori invisibili sono appunto la gentilezza, la delicatezza, la discrezione ecc. racchiusi nel canone millenario della poesia. Da qui la ripresa, in particolare, del magistero oraziano (dell’Orazio così interpretato, naturalmente): «Il poeta oraziano è tenuis, né eroico e né tragico, e tuttavia devoto a una religione dello stile e della vita, senza presunzione o arroganza. Ha buoni, cioè sinceri, pensieri con buono, sincero stile».

Si tratta di una visione complessiva della poesia più che semplice, semplicistica, che non è priva di coraggio nei propri slanci («la poesia è felicità: essa trae nutrimento da un passato di dolore ma trova il suo compimento in un presente di serenità»), ma che si radica su un atto di fede, appunto, compiuto a priori, vietandosi in tal modo ogni reale attraversamento della poesia novecentesca. I versi di Gabriella Sica, cercando una misura come forma di giustizia («Se non si è accecati da una febbrile immaginazione o da un’eccedenza psicologica, se la misura, che è anche giustizia e attenzione, regola le parole della poesia, allora si può tessere una trama feconda tra le cose, tra gli uomini e Dio»), non sfuggono invece alla fastidiosa tautologia di parlare della bellezza con la bellezza, tautologia che è viatico prediletto del Kitsch. La sensazione, a cospetto delle sue poesie, è sì di partecipare a una festa del vedere, a un’euforia di luce che restituisce onore alla natura, alla campagna, ai rapporti familiari e a quant’altre cose il nostro tempo disonora, ma trasformando tutto in una sequenza di figurine vacue, troppo innocenti per essere credibili, per far nascere la grazia dall’interno del dolore e dell’assenza di fede. Non è forse un caso che, pur cercando di «pensare per millenni» (così come il finale del saggio La lingua della lode recitava nella versione resa pubblica nel volume La parola ritrovata [1]), la poesia si conformi agli spazi ben più ristretti del Vicolo del Bologna – per ricorrere al titolo di una raccolta precedente – una sorta di «paradiso che stava bene in cima a quel popolare vicolo di Trastevere lasciato miracolosamente intatto dal tempo», dove ritrovare le visioni naturalistiche dell’infanzia perduta in un’Italia ancora contadina (e basti qui citare i titoli delle sezioni per rendere l’idea del libro: Poesie per le oche, Per il mare, Vicolo del Bologna, Cantami l’antica strofa d’amore… – una sorta di personale Cantico dei cantici, Cavalieri d’antichi tempi santi – in ottave –, Pensieri – dove emerge la vena epigrafica e aforismatica), oppure consegnandosi agli spazi ancor più circoscritti di quel Familiarum rerum liber che è il recente volume di Poesie familiari. Qui, tra strofe e versi levigati ma non troppo (accenti in quinta, strutture alluse ma non rispettate fino in fondo soprattutto per quel che riguarda il giro delle rime, spesso ridotte a rime visive) e storie semplici raccontate con una pronuncia classica a partire dalla medietà espressiva (con qualche concessione a diminutivi, vezzeggiativi e in genere a parole che abbassano ulteriormente il registro con inflessioni sentimentali) e dalla chiarezza linguistica, la tenerezza e la gioia di sottrarre al tempo le figure amate si adagiano dolcemente fra le braccia di un pensiero fiabesco e disarmante, che sembra parlare non a noi, ma a quel noi perduto nella memoria ancora capace di credere o di stupirsi di ciò che ora ci appare invece banalmente poetico, con uno slancio puro e infantile che non ci appartiene più.

(da Poeti nel limbo)

[1] La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, p. 144.

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