Fabio Ciofi

Poeti contemporanei: Fabio Ciofi

Introducendo Prendi ad esempio me, Attilio Lolini ricostruiva il percorso di formazione del poeta, ricordando l’importante contatto epistolare con Caproni e la presenza del giovane nei salotti letterari di Romano Bilenchi. Ciofi deve infatti a Caproni, che per lettera lo esortò a evitare «ambiziosi intellettualismi» e a coltivare la musica del testo (che da sola rappresenterebbe i tre quarti della poesia), l’impronta predominante dei suoi versi. Lo si apprende in modo inequivocabile leggendo Non a caso, la raccolta con cui egli amplia la silloge apparsa nel 1993. L’egida del magistero caproniano non si limita esteriormente a dettame di soluzioni metriche o stilistiche; diventa affinità di tono, somiglianza di carattere nel rendersi presenti alle cose. «Così Fabio Ciofi», annotava Lolini, «seguendo i “consigli” di quel grande disamorato che fu Caproni, torna ai toni crepuscolari dei migliori suoi coetanei».

In funzione di spie stilistiche da ricondurre invece alla frequentazione, di cui si diceva, con Bilenchi, Lolini notava i «Preziosi toscanismi [che] talora appaiono qua e là come spie di una lingua dimenticata che inconsciamente richiama certi “sguardi” tozziani attraverso gli “occhi chiusi” dei grandi personaggi di Bilenchi: i “ragazzi” de La siccità, La miseria e Il gelo. Non a caso una di queste poesie porta il titolo del capolavoro bilenchiano».

Eppure lo stesso Franco Buffoni, introducendo Non a caso, pur riconoscendo ancora l’esattezza di quelle indicazioni, vi scorge un paesaggio poetico e umano molto mutato e aggiunge altri possibili referenti culturali, ad esempio Giampero Neri, cui ascrivere «il gusto per la sentenza breve a lungo ponderata, la massima di vita desunta da oggettiva considerazione dei comportamenti umani, l’umiltà nel bisogno di annullarsi nell’osservazione scrupolosa e quasi entomologica della cosiddetta realtà. Il tutto comunque mai separato da una sottile, a volte impercettibile, altre volte più robusta (“Marcia di Radetzki per cassiere di banca idealista”) venatura ironica […], che permette la ricomposizione dei conflitti, non certo la loro soluzione, ma la loro stasi. […] L’autoanalisi è ancora spietata, fino al minimo dettaglio […]. Ma vi sono aperture in questo libro che lasciano immaginare le future manifestazioni della vena creativa di Ciofi. Per esempio verso il paesaggio, stupendo e terso della val d’Elsa […]. Per esempio verso il passato dei luoghi che egli conosce e ama».

Tuttavia, ci sembra che la scrittura del poeta resti, nonostante i giusti fermenti che si sono rilevati, nell’alveo del magistero caproniano. Non che si possa parlare di imitazione o di ripresa di temi: la tensione allegorica e poematica di Caproni, la sua icasticità simbolica che non temeva di chiamare in causa apertamente le questioni più alte della modernità, si attenuano in vago minimalismo. Già il titolo della raccolta lascia intendere il gusto per le occasioni da cui scaturisce la scrittura. Nondimeno, non si parlerà di raccolta organica solo in virtù di un’uniformità stilistica abbastanza netta, giacché si possono rinvenire lungo l’intero libro le diramazioni di un discorso portato avanti per frammenti (a tal punto che il caso del titolo si tramuta nella cosa con cui l’autore si congeda); ma sul macrotesto prevale in definitiva l’individuo componimento, che in sé esplicita e compie il proprio motivo, quasi sempre sviluppato con spiccata musicalità in versi brevi, tra il settenario e il decasillabo (non senza isolare di tanto in tanto qualche parola-verso, generalmente un verbo), entro la misura epigrammatica di una o due strofe di quattro-cinque versi, che racchiudono un motto arguto, una boutade o un paradosso, magari ricalcando locuzioni idiomatiche o inflessioni della lingua parlata. Certo, rispetto a Caproni la musicalità pare meno insistita, ma si rivela appieno nel culto della rima (frequenti, oltre le rime baciate, sono pure i contrappunti interni o orizzontali nel verso: «Sento il tormento e lo stento del corpo / che cede di schianto al rimpianto») e della quasi rima (assonanza e consonanza): «Occorre cultura per dirti ti amo / senza che nessuno si giri. / E la nostra iattura è che siamo / un po’ mezzi di tutto / fra vuoti ed interi». Una minore rilevanza sembra avere l’anagramma, seppure in posizione forte: «Nella sera / s’udiva un silenzio non provenire / dal fondo di una stanza: / la sua resa».

La codificazione della personale poetica ritorna in diverse pagine e soprattutto in due poesie, assai emblematiche: «Un giorno m’hanno detto che razza / di poesie scrivi, senza titolo, / senza soggetto. // Un appunto sostanziale, se solo / non fossimo sulla via del cimitero, / dove sempre passa un funerale»; «Mi surrealizzo nel messaggio di me / che non c’ero. Se basta l’alone / per recitare un atto compiuto / su solide basi d’argilla, quale / consiglio al venduto ritegno / di chi s’appartiene un sospiro e poi / si rimanda punto e da capo. // Puoi cambiare il ritmo se vuoi, / non contraffarlo». Il poeta sa che la sua parola necessita del filtro della finzione; su uno sfondo desolato e forse nichilista (al primo testo, La storia, segue significativamente Il vuoto), la sa recitazione è «un appunto sostanziale», «senza soggetto»: ma la trasparenza dell’io, la falsificazione che compie mettendo in scena anche le occasioni di vita reali, non rimuovono il dramma. Non si pongono, cioè, come uno svago, ma come appunti che ostinatamente si prendono «sulla via del cimitero».

Il rischio di tale poetica è quello di lasciarsi, montalianamente, sopraffare dalla distonia esistenziale, dall’acredine, dall’ironia fine a sé stessa. Per uscire da questo grigiore invulnerabile servirebbe un gesto letterario forte, non eroico, ma scevro da ogni compromesso. È il desiderio che emerge in alcune poesie, subito frustrato. Virilmente rifiutando qualsiasi altra prospettiva, il poeta si compiace in una situazione di privilegiato disincanto, come di chi conoscesse il senso delle cose che agli altri sfugge (pur non riuscendo, imbrigliato nell’arguzia e nell’ironia, a testimoniarlo): «Amici di pochi minuti, / eroi di come si cambia / tu prediligi. Prego / per quando ti stupirai / che i monti hanno pendici» (qui rimano addirittura la prima e l’ultima parola, tenute insieme da un’assonanza a metà poesia). Tale prospettiva è portata avanti con coerenza, relativizzando, insieme all’io e alla scrittura, l’esistenza. Il libro si chiude infatti con un’ammiccante e sintomatica excusatio: «So di avere già scritto / più di quanto dovrei. / Ma la Cosa si espande / e diventa arrembante. / Perciò non riesco nel meglio / del mio repertorio: / uscirmene in punta di piedi / per non essere visto, / come chi talvolta nasconde / un suo secondo lavoro».

«La Cosa si espande»: a considerare il successivo Vae victis e il libro di racconti, kafkianamente intitolato Il paese di C., si avverte in effetti il senso di un livore montante, di un pessimismo più cupo, di una inanità novecentesca abbracciata senza indugi. Il discorso fagocita progressivamente paesaggi e referenti, si fa astratto e autoreferenziale, come dimostra anche il complicarsi della trama fonica, la ricerca sempre più evidente di calembours e di arguzie. Si ha la sensazione, come ha annotato Marchesini, non di «un pensiero fiacco», ma di «una riflessione aggrovigliata e urgente, perfino eccessivamente scoperta, che non trova correlativi oggettivi necessari a trasformarla in poesia. Di qui l’andatura macchinosa e prosaica, e una farraginosità di cui potrebbero portarsi mille esempi».

Emblematica la vicenda del protagonista del racconto finale del Paese di C., il più lungo, scopertamente autobiografico. Il protagonista «Fabio» lavora in banca e ha ambizione di scrittore, ma è anche un «poeta di derivazione filosofica» che vorrebbe ottenere il successo e invece resta impelagato nella mediocrità e nell’assurdità generale dell’esistenza. «L’ironia. Era l’arma nemmeno eccessivamente segreta sulla quale puntava per l’affermazione dei suoi scritti. Ironizzava spesso su di sé perché era il senso della disfatta che lo faceva andare avanti, non l’attesa del trionfo». E si considera un «superificiale»: «La vita la si può descrivere solo per frammenti – asseriva – frammenti, schegge, intuizioni, lampi. Niente di più. Con buona pace dei sistematici e degli assemblatori». Attorno a questo cruccio ruotano anche le poesie, quasi aggrovigliate in una autodifesa a oltranza: «… come se il poeta che fa / ironia avesse una malattia. / Come se il sano fosse nel / razionale esempio di chi / dice oltre la scienza… // La serietà. Una sentenza». Il titolo stesso, che riprende il motto attribuito a Brenno, nell’assedio dei Galli a Roma del 390 a.C., resta il sintomo di un io pletorico in cerca di maschere che funzionino come appoggi e specchi depistanti (se «la verità è finzione»), un io-personaggio che compendia tratti molto novecenteschi e si offre in una posa intellettualistica e nevrotica, ferocemente sarcastica anche con sé stessa, lucida a tal punto da trasformare l’impasse creativa nel tema stesso di ogni verso.

(da Poeti nel limbo)

 

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