Poeti contemporanei: Annamaria Farabbi
Anna Maria Farabbi è scrittrice che coniuga con efficacia pronuncia disinibita e naturalezza. La sua parola attraversa e fonda miti personali, ma non si lascia annoverare in scuole di moderni mitografi dell’io-cosmo (qualche occasionale rapporto e qualche contiguità poetica non cancella la marginalità e l’autonomia che risalta fra i dati biografici più evidenti dell’autrice). Allo stesso modo, la sua poesia si nutre delle linfe di una sensibilità femminile che non ha più bisogno di farsi azione politica, ma si distilla, ancor più necessaria, nella sfera di una coscienza non introflessa, accogliendo le spinte telluriche di un dettato a suo modo conchiuso, ma capace di sprigionare la solarità di un gesto lirico, radicato in paesaggi e forme per nulla astratti. Insomma, l’esperienza della perugina si nutre degli umori di una prospettiva generazionale che vive (o sopravvive) nella schiacciante contiguità con i sussulti del Secondo Novecento (Postermetismo, Orfismo, Femminismo, Sperimentalismo), guadagnandosi un esiguo margine di autonomia, una sfasatura minima eppur determinante.
Non mancano indicazioni programmatiche, nei versi che leggiamo, a documentare quanto annotato. Aprendo Fioritura notturna del tuorlo, si rimane stupiti dalla dizione esatta con cui si affrontano temi sfuggenti, allusivi, pervasi di mistero. Seguendo le movenze sinuose di un testo che si espande in versi lunghi o fa scoccare all’improvviso versicoli quasi ungarettiani con estrema scioltezza, in virtù anche di una punteggiatura ridotta all’essenziale, intenzionalmente erosa dall’accento che regge il dettato, l’io che si offre sulla pagina si apre senza resistenze al cosmo attraverso «parole minerali, vegetali e animali». E, dopo una discreta forzatura di marca sperimentale (la parentesi che oblitera la r di fronte, tale da imporre in una scansione di secondo grado, contemporanea alla prima, di leggere fonte; in altre circostanze troveremo agglutinazioni o linee oblique inserite a graffiare il dettato e la singola parola) e, dopo un rapido sussulto di erotismo («Ho la pelle semplice / che mi copre. / Mettici un bacio comunicante: ci trasmettiamo Dio»), si annuncia con tutta la decisione di tre versi ribattuti in parallelo (finemente intrecciati con un richiamo etimologico) il superamento di qualsiasi fuga sognante: «gli angeli dentro la mia testa sono crepati. / Senza testamento. / Senza testimoni. / Senza la salma delle piume». A questo punto, anzi, ci si affida alla nominazione del luogo, con la forza di un richiamo tutelare: «Funerale a mezzogiorno / accompagnato dal corteo / dei montanari di Montelovesco / dai miei occhi reali».
C’è un’aderenza scrupolosa dell’io (la poesia d’apertura che stiamo citando è addirittura un Autoritratto, come non si osava fare più da un secolo) alla geografia che forma la disposizione con cui la psiche si apre alla percezione mondo: «Mi si è riempito il cervello di terra». E in tutta la poesia la presenza del monte e degli altri elementi del paesaggio umbro, la metafora della semina e di altri rituali agresti (con riferimenti alle persone che costituivano la civiltà contadina del nostro paese) determinano la trama simbolica primaria, che si sintetizza nella fedeltà a una pronuncia terrigna, sapida, che rifugge dalla «misera calligrafia»: «Calligrafia, e non cose messe riga su riga / e non piante da frutto / poste dentro la terra di ogni / riga, / e non pezzi della propria vita / da cui si venga riconosciuti / e giudicati in faccia / e pagati dall’oste». La Cantata di maledizione contro la calligrafia – dedicata all’oste –, da cui abbiamo tratto questi versi, appartiene alla prima parte di Fioritura notturna del tuorlo, che tratta interamente del gesto creativo, come se prendere coscienza del concepimento della poesia fosse una premessa indispensabile per la fioritura. Ma non si tratta di un ripiegamento vizioso: l’auscultazione si accompagna all’estroflessione, anche polemica, contro la società letteraria (e ricordiamo le traversie editoriali patite da questa generazione), come accade in Ciò che è il monte dentro chi lo vive, «dedicata agli editori regnanti, e ai critici-uccelli di corte, ai frequentatori di bave e salotti letterari»: «Chi sei, mi si chiede, / se non ti si vede non ci sei. / Io sono, rispondo. Io sono / un poeta piccolissimo quasi lontano quasi felice, / una bestia di montagna sola come il monte, / una bestia che impara / le lingue selvatiche del vento e degli alberi dritti, le lingue / del mondo». Non si tratta, però, si badi bene, di una reprimenda dettata da una frustrazione che non si risolve, ma la presa di coscienza che permette di disinibire il canto: «Il mio quaderno inedito sta dentro la stalla, / fatto di terra sedimentata / irrigata d’inchiostro: canta. / Selvatico e dritto / quasi lontano quasi felice / più grande del re». E in quel “quasi” c’è tutta la divaricazione generazionale rispetto alla tradizione.
Si parlava, per quanto riguarda l’auscultazione del proprio atto creativo, di “concepimento”. È la stessa autrice a dettare l’immagine, nient’affatto scontata nella simbologia dell’opera (e si ritorni anche al titolo). Nel Canto degli Eunuchi – da Eunuchus, custode del letto –, si pone lo stretto legame fra il canto e la procreazione, affidando agli eunuchi il compito di riempire il periodo della sterilità: «Non scrivo poesie da nove mesi. […] cantate / eunuchi di strada / che, con il trucco sfatto e il rosso sbavato / come una macchia di sangue dilatata, / m’insegnate di nuovo il canto. […] Cantate il crollo delle membra, / il tonfo del pennino / e quello della zappa antica dentro la terra […] Cantate voi che avete la voce leggera / tutto questo che tormenta il profondo / del nostro letto». Ma nella seconda parte della raccolta la fioritura si compie e la scrittura, finalmente fertile, è in grado di aprirsi festante al dono della maternità, cantata in più sequenze (Maternità, Maternità del giallo, Maternità del rosso, Maternità del bianco, Maternità del nero, cui seguono le ninnananne conclusive) che dànno espressione anche al festante cromatismo di una voce creaturale e ferina.
Il tema del colore culmina nella prosa Vincent Van Gogh. Parabola del colore. Favola, che rappresenta forse uno dei passaggi più belli del volumetto Nudità della solitudine regale (si tratta ancora una volta, come per il libro precedente, di una pubblicazione resa possibile da un premio letterario). Qui le brevi sequenze, inizialmente divergenti a spirale per somma di temi, figure e situazioni e successivamente capaci di recuperare a ritroso il punto di partenza (il brano che apre il volume in dialetto viene tradotto alla fine) lasciandosi ammaliare dalla fantomatica ombra del «maestro» e del «poema», pongono maggiormente in risalto le accensioni surreali e l’animismo popolare che già si riscontrava nei versi. Il dialetto che introduce il libro non è una soluzione estemporanea, ma una necessità naturale da sempre coltivata dall’autrice. Ma non c’è idillio nella minuta geografia natale rappresentata dai territori umbri eletti a paradigma dell’universo; ecco perché nei cromosomi di tale paesaggio si può scoprire anche qualcosa di esotico, ecco perché si può sentire improvvisamente soffiare su Montelovesco un vento d’Africa, in nome di un archetipo comune (ancora una volta legato alla femminilità, alla maternità di ogni terra), come avviene nelle cinque poesie della plaquette Il segno della femmina, laddove esplode tutta la sensualità di una poesia umorale, fertile di pulsioni: «Aprirò il pane con un solo taglio / di lingua. / Il suo petto / con la mia nudità regale». Il viaggio, pur sempre verticale, della poesia, si allarga a nuovi confini, da sempre inscritti nell’unico «lunghissimo viaggio preistorico» che è il percorso compiuto dalla voce della vita, che attraverso di noi mira al canto superando l’oscurità terrestre del corpo per sfolgorare luminosa dentro una «felicità intera» che abbraccia ogni elemento: «Segno / il silenzio primordiale / nelle profondità tremende del tuo ombelico. // La mia lingua cade tutta tua / per il piacere. / Qui cielo terra mare. L’apertura. Il divenire // del linguaggio».
Soltanto recentemente Anna Maria Farabbi ha dato alle stampe un volume veramente organico, Adlujè il quale per ampiezza e varietà (si raccolgono liberamente testi editi nelle precedenti plaquettes) si impone come la sua summa. Vi troviamo organizzate sequenze in prosa, in dialetto e in lingua, in un’alternanza calcolata e si direbbe propriamente alchemica, stregonesca, per quei tratti apotropaici e pagani che riemergono prepotentemente. Ne esce comunque l’immagine di una scrittura che si è definitivamente illimpidita (fino a perdere in parte, però, il sapido vigore iniziale), lasciando per esempio decadere gli indizi di quello che abbiamo rubricato come retaggio sperimentale di formazione. Non per nulla l’Autoritratto conclusivo espone una poetica a tutto tondo, che giunge a pronunciamenti risolutivi: «Il mio bersaglio non è la scrittura ma l’opera interiore». La poesia è dunque esperienza mistica (e dunque pienamente carnale) piuttosto che esercizio di stile.
(da Poeti nel limbo)
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