Della maestria (per lo Yeti di Enrico Macioci)
(L’opera scelta come copertina è di Lele De Bonis.
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Sono sempre stato dalla parte degli avvistatori di yeti, dei visionari che mettono la faccia in qualcosa che ai più pare inverosimile, anzi, addirittura ridicolo. Limitarsi al buon senso ci dà il sostegno dei conformisti, ma uno scrittore deve sempre fare i conti, alla fine, con l’aldilà.
Così, per scrivere due appunti intorno al recente romanzo di Enrico Macioci, Lettera d’amore allo yeti, vorrei partire dalla fine. Per quel che vale, per me che sono anzitutto un lettore di poesia e, nel mare della narrativa, tendo a seguire le correnti di altri generi letterari, il finale me l’ero prefigurato già dopo una cinquantina di pagine. Questo non significa granché, anche perché il romanzo vuole (anche attraverso minimi, ma crescenti e inquietanti flashforwards) creare il senso del tragico, ovvero marcare l’approssimarsi dell’inevitabile. Ma mi ero completamente sbagliato in merito al tono, al rialzo della posta compiuto dall’autore, che mi ha sorpreso.
Enrico Macioci, dunque, considerando anche il suo esordio, si è messo alla ricerca della maestria. Scomunicatemi pure, ma sul suo evidente maestro, Stephen King, non saprei elaborare un pensiero (It e Shining mi attendono al varco nello scaffale qui a fianco, ma al momento sono tra i libri in seconda fila; colpa forse di Misery, che lessi da ragazzo e non mi piacque). Per raggiungere la meta, comunque, è ben immaginabile che ci si debba confrontare con il rischio dell’artificio (l’artificio è il movimento che la maestria riesce a far passare come naturale, è insomma la mossa su cui si esercita, la leva che adopera per il proprio fine). In questo romanzo, per esempio, alcune giunture strutturali risultano ancora rigide: qualche personaggio è uno stereotipo funzionale alla trama oppure compare solo per permettere qualche particolare sviluppo (magari un recupero fotografico di vicende passate), il senso del tempo non pare coerente (quando risultano trascorse un paio di settimane, sembra siano passati mesi), certi dettagli, e in particolare certi luoghi, non si spiega come rimangano inerti fino al gran finale. Eppure, come dicevo, tutto questo si riassorbe nel momento in cui l’autore vira verso un obiettivo maggiore e riesce a trascinare con sé il lettore.
Lo spannung, quindi, è altamente emblematico. A parer mio, funziona. E funziona proprio per mezzo degli stessi artifici che anche lì si ritrovano. Giusto a scuola, di questi tempi, leggendo i poemi omerici, evidenziavo ai miei ragazzi come tanti elementi che ai nostri occhi potrebbero parere dei difetti – ripetizioni, ralenti inverosimili (ma come, Ettore non muore mai? Ha la gola tranciata eppure ecco riparte con il suo pistolotto conclusivo?), trame già note in partenza (sappiamo subito che i compagni di Odisseo non si salveranno) – sono invece funzionali all’effetto epico. Ecco, si parva licet, direi che Macioci giostra la sua vicenda secondo la stessa logica. Sfida la verosimiglianza perché sa che l’esercizio per raggiungere la naturalezza richiede tempo e pazienza.
Personalmente, avrei preferito maggiore asciuttezza psicologica nella voce narrante. In poesia, parlerei in termini di correlativi oggettivi da inserire al posto di effusioni. Ma la sensazione che domina alla fine è quella di aver assistito a un esercizio sempre più raffinato, con la piacevole sensazione che l’obiettivo non fosse un bersaglio esterno, ma, come in ogni arte marziale, il raggiungimento di un’armonia di forze. In definitiva, è di questo che ci parla il romanzo di Macioci: del fatto che il mostro siamo noi, e del fatto che Bene e Male siano necessari l’uno all’altro.
La Maestria è questione di Equilibrio.
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