Omertà della critica

Questo intervento rappresenta il mio esordio critico. Ero appena una matricola…

Un senso di smarrimento, d’incertezza, di distanza dal pubblico emerge in molti scrittori, insieme alla spiacevole impressione di camminare su un’asse marcia […]. Una settimana dopo l’altra, le bussole dei critici indicano successivamente tutti gli orizzonti della rosa dei venti, venti che ci vien voglia di definire quanto meno deboli variabili. Questi anni, malgrado l’evidente abbondanza di talenti critici (forse il loro segno più distintivo), sembrano avere più difficoltà di altri periodi nel cominciare a selezionare autonomamente questa ricchezza di contributi. Non sappiamo se la letteratura sia in crisi, ma è evidente che esiste una crisi del giudizio letterario.

Queste parole, seppure suonino estremamente attuali, risalgono all’inizio del 1950, anno in cui Julien Gracq pubblicò La littérature à l’estomac sulla rivista «Empédocle»[1].

L’abbondanza di critici di indiscutibile valore, nel nostro secolo, è patente. Critici capaci di imporre un autore, di delineare il profilo della tradizione con tratti indelebili.

Anche oggi non mancano critici eccellenti (Raboni, Ramat, Lorenzini, Cortellessa, Trevi, Galaverni…), eppure il loro giudizio non sembra più avere un peso determinante. Ciò, da una parte, è perfettamente comprensibile  − non giustificabile −, se si tiene presente che la maggior parte di coloro che si occupano di poesia, su giornali e riviste, non è composta da critici puri, ovvero estranei alla scrittura artistica, per cui il pregiudizio di una lettura di parte viene a inficiare le loro valutazioni; inoltre, non tutti possono godere del prestigio e dell’autorità filologica di un Contini. Ma, dall’altra parte, la crisi del giudizio critico, incapace di imporsi per la propria intrinseca qualità, non ha più alibi dietro cui nascondersi.

Lo stesso Mengaldo ha riconosciuto l’esistenza di «una scissione tra critica militante, giornalistica e critica più attrezzata, più filologica, universitaria, che in Italia un tempo non c’era»[2]: tale scissione ha contribuito ad aumentare quell’isolamento entro cui si trovano costretti a operare i nuovi autori, ben osservato anche da Maria Corti: «Non si ha più un rapporto costruttivo tra critica e poeta/autore […]. È un tipo di relazione che va perdendosi perché oggi scrittori e critici sono tutti molto isolati, cioè, in pratica, sono tutti in contatto diretto con la carta stampata e non fra di loro come una volta, quando esistevano i caffè letterari (le Giubbe Rosse, il Paskowski e a Milano il San Paolo)».[3]

Ma non rischiamo, a questo punto, di contraddirci, invocando una maggiore attenzione dei critici per i giovani autori e deprecando allo stesso tempo, insieme a Gracq, il caotico rumore di fondo che contraddistingue gli ambienti letterarî, tanto lesti nell’osannare l’ultimo arrivato quanto nel dimenticarlo nel giro di un anno? Come è possibile conciliare la critica di qualità con l’urgenza di una selezione che permetta di evitare inutili dispersioni, al fine di tesaurizzare ciò che veramente è meritevole?

Siamo anche noi persuasi del fatto che solo il tempo sia in grado di rendere giustizia ai valori letterarî di un autore − e di un critico −: il successo immediato è spesso il risultato della riproposizione di modelli riconoscibili, fruibili perché poco innovativi e facilmente assimilabili, in una parola: della moda. La storia della letteratura abbonda di simili meteore, capaci, al fuoco fatuo della contemporaneità, di oscurare i «non riconosciuti legislatori del mondo», i veri «specchi delle gigantesche ombre che l’avvenire getta sul presente» (così Shelley definì i poeti). Citare esempi proverbiali a proposito sarebbe persino pleonastico. E siamo in sintonia anche con chi giudica insensato questo nevrotico affannarsi alla ricerca del successo: fuori dal mondo istituzionalizzato dei “classici”, la letteratura è sempre stata terreno fertile per un pubblico generoso ma minoritario.

Tuttavia, non si può negare che il rapporto autore-lettore, che già vive delle inquietudini sue proprie, in questi decenni si sia ulteriormente deteriorato. E sarebbe riduttivo individuare nella critica la sola responsabile di questa situazione; le cause che concorrono a determinare questa incapacità di raggiungere il proprio specifico pubblico e di difenderlo costantemente, mantenendo quella sorta di dialogo indispensabile per la ricezione di un autore durante tutto il suo itinerario artistico, sono ormai da tempo additate: la scuola, l’establishment culturale nella duplice funzione di produzione e vaglio critico, la politica contraddittoria delle case editrici, i mass-media etc. A tutto ciò, secondo le più svariate opinioni, si possono aggiungere: la convinzione circa l’oggettiva assenza di autori veramente validi, la crisi di determinati generi letterarî, e così via.

Basta appena guardarsi intorno per scorgere i sintomi di quel qualunquismo ideologico, della pochezza intellettuale figli del pensiero debole e della crisi della società contemporanea. Se, infatti, in campo letterario si formano ancora delle scuole, dei gruppi, non è certo per una comunanza di ideali e di valori, ma per convenienza, al più per affinità di tendenze poetiche: gli orientamenti anonimi della maggior parte delle riviste sono testimonianze incontrovertibili. Conseguenza e concausa di tale situazione è l’assenza di un dialogo autentico.

Così si esprime Gianni D’Elia: «Se ci interroghiamo sul peccato più grave per un critico, non possiamo non indicare l’omissione, che resta mortale per la letteratura a venire; perché lascia soli, nell’ombra del puro rifiuto preventivo, isolati, senza confronto ulteriore. […] Una maggiore attenzione della critica  servirebbe a tutti, per poter scegliere il meglio e per meglio orientarsi in un paesaggio da cui pare scomparsa la critica pura e il suo compito di militanza, per sciogliere il nodo della semplice esistenza o no di una nuova poesia italiana. Ed ecco che ritorna attuale l’inattuale grido di Majakovskij: “Compagni filologi, occupatevi dei contemporanei”.»[4]

Ciò che ci sembra indispensabile sottolineare è che davvero «una maggiore attenzione della critica servirebbe a tutti». L’esercizio critico porta in sé una istanza civile, ce lo ricorda con toni appassionati Enzo Noé Girardi: «non c’è altro esercizio che sia più atto a far nascere lo spirito critico generale, e a educarlo e svilupparlo nella universalità delle persone a beneficio della vita civile, di quello della critica letteraria; e direi che nessuno ha più ragione e diritto di dirlo di noi Italiani, se è vero che la critica letteraria, col Foscolo, con il Berchet, col gruppo del Conciliatore, e poi ancora con Manzoni, con Mazzini, con De Sanctis, fu la culla e poi la nutrice dell’intero movimento della rinascita nazionale, e che attraverso le discussioni pro o contro il Romanticismo si preparava il romanticismo attivo delle cospirazioni, dei moti, delle guerre per l’indipendenza. Così possiamo ben riferire alla critica quello che F. Schlegel dice della filologia (ma si ricordi che per lo Schlegel “tutta la filologia non è altro che critica”): che l’esistenza di essa è prova della civiltà di un popolo. Infatti, dove c’è buona e vera critica letteraria, lì vive lo spirito critico generale: cioè l’indipendenza del giudizio, il rifiuto delle frasi fatte, l’orrore del press’a poco, la possibilità di cambiare le cose, necessariamente legata alla capacità di capirle.»[5]

Ha ragione Roberto Pasanisi nell’insistere sulla distinzione tra estetica e poetica, sciogliendo «quell’equivoco di fondo che determina il rifiuto ottuso di ogni maniera di fare letteratura che non sia la propria»[6] ricordando le conclusioni di Luigi Pareyson: «Dal punto di vista estetico tutte le poetiche sono egualmente legittime: […] l’essenziale è che sia arte.»[7] Oggi appare chiaro come «la critica letteraria, comunque la si voglia definire, presenti chiaramente due facce: una rivolta verso il mondo della poesia: opere poetiche e prosastiche, autori, movimenti poetici, generi ed epoche letterarie, forme e contenuti, personaggi, strutture, stili, e via discorrendo, che il critico osserva e giudica […]; e una rivolta verso il mondo della filosofia, cioè dei principi estetici, delle teorie sull’arte e sulla letteratura, dei principi religiosi, morali, politici, economici, degli ideali o delle ideologie che il critico più o meno consapevolmente, più o meno dichiaratamente assume, formulandole lui o mutuandole da altri, come modelli o parametri di giudizio.»[8]

La critica necessita sempre di un preciso ripensamento estetico se non vuole ridursi a mera erudizione descrittiva, ed è in forza di tale ripensamento estetico che può risollevarsi sopra ogni scettico e fanatico particolarismo. Non si tratta di ristabilire canoni rigidi di valutazione, ma di trovare quei principî flessibili che sono il presupposto di qualsiasi poetica.

Non si avranno sviluppi decisivi in letteratura se non ci si ricrede sulla possibilità di un rinnovato ed autentico dialogo estetico, che ponga alla propria base la convinzione che solo il testo giustifica la poetica, e non viceversa.

NOTE

[1] Il pamphlet è stato tradotto in italiano col titolo La letteratura senza vergogna, introd. di Paolo Mauri, a c. di Aldo Pasquali, Roma-Napoli, Theoria, 1990. La citazione iniziale si trova a p. 17.

[2] “Poesia”, a.I, n.1, gen. 1988, p. 43.

[3] “Poesia”, a.I, n.5/6, maggio/giugno 1988, p. 57

[4] Poeti senza critici?, “Poesia”, a. VII, n. 72, apr. 1994, pp.71-72.

[5] Introduzione al corso di storia della critica, Milano, Vita e Pensiero, 1987, p. 5.

[6] “Nuove Lettere”, a.I, n.1, p. 7.

[7] I problemi attuali dell’estetica, in AA.VV., Momenti e problemi di storia dell’estetica, parte IV, Milano, Marzorati, 1961, p. 1814.

[8] E.N.Girardi, Introduzione…, p. 6.

 

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