Poeti contemporanei: Gianni D’Elia
La poesia incivile di Gianni D’Elia
La vocazione poetica di Gianni D’Elia è sorta dalle ceneri di una stagione della propria vita, in cui i fantasmi della giovinezza si accompagnarono con l’educazione e la militanza politica (in Lotta Continua), in anni duri e tormentati della nostra storia recente. E lo stigma di una perdita irrimediabile, con le inflessioni nostalgiche e i sommovimenti di una memoria inquieta, connota da sempre la parola di questo autore, come se la scrittura fosse il prolungamento di un’azione divenuta impossibile, un fare che cauterizza il vuoto della storia, individuale e generazionale, di cui si fa carico.
Probabilmente lo iato fra impegno e scrittura si è approfondito nel tempo, ma fin dalla raccolta d’esordio (Non per chi va, del 1980 [1]) la natura problematica del gesto poetico si proponeva all’autore in questi termini:
Non c’è più posto oggi né per una poesia che preceda l’azione e si sogni davanti all’azione (Rimbaud), né per una poesia che sia l’azione (Majakovkij), perché l’azione è il potere (Stato-Terrorismo-Consenso) ed è totale. Ma forse c’è posto per una poesia svuotata di ogni autorità, che segua l’azione perché la critichi, le sia addosso, la neghi, la interroghi, senza la pretesa di identificarvisi o di superarla, con la poesia. [2]
Lungi dal potersi intendere come mero surrogato dell’esistenza piena, i versi di D’Elia, pur nella loro valenza contestativa e nella loro inerenza alle vicende umane, rivelano nondimeno il lascito decadente di tale irrisolta dualità di fondo, dapprima come motivo propriamente letterario (retaggio quasi musicale, si direbbe), per svilupparsi e complicarsi presto in modo meno esplicito, ma profondo. «Piena di vita sta la mia poesia. / Perché forse vuota va la vita mia». Questi sono i versi che introducono la raccolta, di cui è patente l’eco penniana, per cui il tema del rapporto fra vita e poesia parrebbe un poco di maniera (e in tutta la raccolta, in particolare nella prima e nell’ultima sezione, composta da testi più epigrammatici, di contro alle sequenze poematiche della parte centrale, il confronto con Penna è oltremodo vivo, come testimoniano temi e, ancor più, movenze, che premono sui pedali di un candore e di una triste semplicità per cullare l’esistenza in tutte le immagini, nitide e suadenti, in cui essa si offre). Mischiando gli azzurri e i gialli, il bianco e il nero delle rappresentazioni più vivide, amore, morte e vita si intrecciano nei versi brevissimi, i quali (di frequente irrelati, per far scattare il senso della poesia dal passaggio ellittico) spesso coincidono con la proposizione, in un dire elementare ed efficace che però non disdegna qualche violenta sprezzatura lessicale e figurativa («sperma», «Vorrei il mio sesso in bocca ad un ragazzo»), che pure non riesce a competere con la levità che contraddistingue Penna anche nei momenti scabrosi. Si rilevano anche grafie arcaicizzanti («pei baci»), inversioni sintattiche classicistiche, magari funzionali alle rime semplici («Saranno quanti libri letti stati / bocche non date a ragazzi baciati?»), e magari altri echi letterari (Montale, per esempio: «Amo i sentieri polverosi e spanti / dove un ragazzo la sua sera lieve / fischiando e nero va a imparare» [3]); eppure, la sensazione è quella di trovarsi di fronte a elementi combusti che palesano le alchimie di un’opera prima in cui va formandosi una voce poetica già certa, autentica a partire dal proprio apprendistato.
La parte centrale, si diceva, segue un passo ben diverso – che apre la melodia lirica ai contrasti del plurilinguismo – ma lasciando anche qui scoperto il confronto con l’altro modello: Pasolini. Attraverso un dire magmatico (anche sintatticamente), che guadagna terreno poetabile rispetto alle più esili strutture sopra accennate, si dà voce al disagio, esistenziale e sociale, di chi si trova a fare i conti con la propria giovinezza, andando consapevolmente a lottare con gli steccati della letteratura («Fosse anche la morte voglio dirtelo / che la vita – con questi versi cattivi, / con questi versi in prosa – che la vita / sono le mattine della vita e pomeriggi / interi a sentir cantare Bologna») pur di stabilire un nesso diretto, appunto, fra due entità dal rapporto controverso: vita e scrittura. L’abbandono a un dettato così fluente, spesso immediato e confuso o appesantito da qualche vezzo retorico necessario per segnalare il carattere poetico dell’insieme (si faccia caso, nella prossima sezione, al bisticcio fra «pazzia» e «piazza»), serve essenzialmente per piegare la forma (persino l’aspetto tipografico) a contenuti urgenti e ancora in fase di caotica emersione:
E di NOI intanto non posso non piangere.
Perché ciò che si perde da ragazzi
è la coscienza d’esserlo per pochi anni:
d’essere stati giovani una volta
scegliendo subito d’essere grandi.
Cos’era la politica se non questo
dovere, senza essere però se stessi, rifiutandosi,
essere esperti e vecchi come la lotta?
Abbiamo vinto. Non ci divide più niente
da loro: non la pazzia, né la piazza.
Siamo soli. Non è un legame esterno l’amicizia!
Non era gioventù né una cultura
nuova così può nascere dagli anni
che si vogliono scordare per ricordare agli altri.
Al fondo, non volevamo essere giovani
per la vita, ma per il potere.
E ora siamo ignoranti come ci vogliono. [4]
Il problema irrisolto posto in essere fin dagli esordi di D’Elia è, dunque, la contraddizione fra l’inutilità dell’espressione poetica, rispetto al sistema capitalistico, e la sua funzione comunicativa, tale da riproporsi, al limite, come spinta utopica per la trasformazione della realtà:
La poesia – io lo credo – non è la realtà, certo, ma senso (da sospendere per cercare, e viceversa) interno alla vita che vive nel mondo, senso non unico ma vero, senso e suono e segno, fatto esclusivamente verbale (perché pensato e vissuto) che si stacca dal processo del valore, dal nero utile, e sceglie l’inutilità espressiva della poesia come funzione comunicativa della vita; per viverla, per amarla; e sognarla per cambiarla. [5]
Il nodo è tale da imporre anche un’impasse: D’Elia lavora per quattro anni a un libro che non verrà pubblicato, per resistenze critiche intorno alla collana einaudiana, da parte di critici poco inclini alle soluzioni surrealistiche intraprese dall’autore [6]. Del resto, qualche deriva simbolista era implicita nell’idea della poesia come «fatto esclusivamente verbale», concetto «tutt’altro che tautologico», come osserverà lo stesso Luzi [7], se si tiene presente del linguaggio il valore di luogo di manifestazione dell’essere (ovvero del senso). E la riflessione che accompagnerà, in quegli anni, la rivista «Lengua», fondata e diretta dallo stesso D’Elia, esplicita questo orientamento, fissando i presupposti delle scelte stilistiche (e propriamente strutturali) che il poeta andrà a compiere:
All’inizio di una poesia non c’è né la scrittura né la voce, ma qualcosa d’altro, qualcosa di assolutamente diverso: una forza centripeta che accumula le energie di dispersione situandole nella mancanza. Insomma, è come se dalle sottrazioni di voce e grafia nascesse un fuoco necessario: invisibile e inudibile altrimenti.
La poesia non parla e non scrive; o meglio, non parla e non scrive se non sottraendo lo scrivere e il parlare a se stessi: situandoli altrove: nel nominare del verso.
[…]
Mentre, per la rima, si tratta proprio di condurre altrove e oltre il suono: oltre se stesso: di farlo scorrere, cioè, verso lo stupore inatteso del senso, costretto e sospeso alla legge ferrea e involontaria della lingua: il nesso armonico.
La rima è, insomma, il luogo della massima accettazione della lingua (assonanza / dissonanza / musica) che abita il linguaggio.
[…]
Via Saba-Penna-Pascoli-Dante ci viene restituita l’essenza originariamente ludica e illusiva (da entrata in gioco) della rima: la messa in gioco del soggetto.
[…]
Così, pian piano, si scopre che la cosa più inebriante della vita è pensare, e che pensare una poesia è sempre pensare in versi la vita, questa parola che non si può dire, dentro una vita, questa parola che non si può non morire.
Si pensa sempre e soltanto una sola cosa, come una eterna prima volta.
Ma ecco che il primo verso venuto spesso chiude e fa da clausola.
Inizia con un e o con un ma.
Avversative e congiuntive – Ritorna nella stessa forma.
Così, il verso è ritorno. [8]
Forza centripeta della mancanza che accumula il senso nell’altrove del verso: il poeta è evidentemente alla ricerca di un punto cui ancorare i propri contenuti, una forma in cui ordinare il flusso della coscienza. Ed eleggerà ben presto la strofa (e distintamente la quartina), il verso non canonico ma non libero, consapevolmente erede delle forme chiuse (attento, più che al dato estrinseco del computo sillabico, alla prosodia interna) e la rima (aperta a consonanza e assonanza) in qualità di strutture basilari per l’espressione poetica. È la strada imboccata da Febbraio in poi [9], che apre la seconda fase della sua scrittura.
Il processo, naturalmente, non è semplice, e basterà leggere le quattro poesie lunghe della plaquette Città d’inverno e di mare [10] per rendersi conto dell’alternanza dei risultati: si passa, in quartine praticamente prive di punteggiatura, da flessioni arcaicizzanti e oleografiche francamente al limite della parodia («per altri all’opra chini // Ma cantano uccellini» [11]), a una fluida concatenazione fra strofe in un continuum sempre più convincente, sebbene ancora manierato e ricco di aggettivi.
I risultati più notevoli giungono con le raccolte Segreta e Notte privata [12]. I titoli sono indicativi di una dimensione, pur vitale (anche se qualcuno poteva allora scorgere venature neocrepuscolari), tutta risolta in una separatezza, che è lo sviluppo della perdita originaria di cui si diceva in apertura (ed è una dimensione esistenziale che ha la radice prima in Leopardi), ovvero del radicarsi della poesia nell’ombra gettata nella storia da un tempo, sempre più mitico, di pienezza esistenziale, per quanto contraddittoria. Si precisa, però, che qui “mitico” assume propriamente il significato di impulso narrativo, di forza riflessiva che presiede al racconto della realtà (mўthos):
Penso perciò il mito come lo schiudersi del racconto del reale nelle sue occasioni vissute e patite, nell’atto mitopoietico del rinvenimento di un senso implicito che urta nel contatto tra esistenza e esistente. Penso a una realtà in atto del mito come racconto che le cose ci fanno, perché noi stessi si possa chiamarle. Forse, penso a un mito della realtà da riconoscere nelle sue forme più quotidiane e impoetiche, nell’imprevisto dell’epoca ancora da nominare. […]
Così la poesia, nel suo equilibrio espressivo, è la rarefazione ma non il purismo, il tentativo di controllare, attraverso uno stile aperto e sottoposto alla lingua, un pensiero che si faccia strada. Quindi una poesia legata all’argomentazione, alla riflessione e alla ricerca di un senso non predeterminato, a un’indagine che sia percezione delle cose, che tenti di diventare concezione del mondo nel momento in cui queste stesse cose nuove, pervasive e innominate, seriali e mercantili, sono la fonte della nostra crisi [13].
Semmai, a marcare la distanza rispetto all’ontologia del linguaggio (il canone più tipicamente novecentesco), andrà evidenziato il concetto di «durata cognitiva»:
Le opere ci danno l’urto percettivo col reale, con la presenza, con l’epocale negli oggetti, nelle creature, nel sentire, anticipando tutto ciò che ancora non è stato pensato né dalla filosofia né dalla scienza (così cerco di comprendere l’esigenza heideggeriana). La funzione dell’arte è forse proprio questa: sentire e anticipare nell’urto esistenziale il non ancora pensato (e forse il non più o mai sentito) dalla filosofia e dalla scienza.
[…]
E proprio, in termini letterari, per superare il dato estetico dell’attimo simbolista e la relativa poetica dell’istantaneo, così come lo spazio chiuso e iperletterario del montaggio/smontaggio sperimentale. Il guado del Novecento è nel tentativo di lasciarsi alle spalle entrambe queste poetiche dell’illuminazione e dell’intenzione tecnica, per instradare la poesia sul passo della durata cognitiva, per scommettere dall’ultimo scorcio dell’istantaneo sulla durata.
E, come si sa, la durata non può esistere in poesia se non come cognizione dell’evento, spingendo il poetico verso l’impoetico, i versi incontro alla prosa, e la lirica in direzione del poema. [14]
In effetti, sia Segreta sia Notte privata sono composte da testi di tre quartine (con eventuale verso o distico in clausola) che sfumano nell’architettura complessiva. L’incipit è, in Segreta, prevalentemente dato da una congiunzione, come se la poesia sorgesse da un fondo di pensiero ininterrotto, o di vigilante ascolto; ma soprattutto ogni strofa tende a declinare, senza chiudersi perentoriamente, attraverso puntini di sospensione o interrogazioni. Le altre marche distintive della poesia sono state ampiamente annotate: le molteplici ricorrenze foniche, sia verticali, per lo più in fine di verso (rime ecc.), sia orizzontali (annotiamo qualche paronomasia e sim.: «vanità, verità», «risorto rimorso», «vivo privo», «arsa, sarà»), l’apertura lessicale verso il linguaggio comune, ma soprattutto la mimesi del “rumore di fondo” della vita contemporanea, coi suoi stridori (tutti hanno sottolineato in particolare il ricorso a termini in –io, spesso veri e propri neologismi: fruscìo, luccichìo, cincischìo, fanghiccìo…). Ma va notato che tale mimesi si attua a vari livelli e, in qualche modo, rappresenta un “basso continuo” dell’opera: si pensi alle svariate allusioni, da Notte privata in poi, a celebri canzoni (quasi a costruire una colonna sonora), oppure alla poetica degli oggetti, che ribadisce il primato (antisimbolista) della res sulla parola:
E il ronzare del frigo, intermittente, tremìo
il rumore subacqueo dei caloriferi,
una sirena che attacca, il continuo
slanìo dei televisori, appena spenti…
Qualche colpo di tosse, gli sciacquoni,
l’adiacente distanza dei viventi, ecco
ciò che a notte già avanzata senti,
l’irritante e il cordiale della vita…
Ma c’è una fiammella stupita, nella casa
nuova, che anche nelle altre illuminava,
l’azzurrognolo tremulo del boiler, che alza
una combusta vampa, riattizzando la fiamma votiva… [15]
Eppure, paradossalmente, questa musica di cose pecca ancora di simbolismo, rispetto alla tensione verso un realismo problematico pur attiva da sempre nei versi di D’Elia. Basterà ricordare l’ambivalenza del titolo della raccolta, a suo modo ermetico e prezioso (“segreta” nel senso di prigione – continuando il tema della perdita originaria -, come nella raccolta che apre la prima parte: «O quel tavolo chiaro, candito dalla lampadina»…; ma anche nel senso di preghiera bisbigliata sulle offerte, come nella poesia posta in limine: «non sono che cinque piccole rose […] un dono, ancor più grato e gentile»), oppure annotare screziature ancora manierate nel dettato (le rose «tardive, / in mani ancora a una triste bellezza…»), o le citazioni esplicite e le criptocitazioni, o qualche slancio lirico ed elegiaco («che bello è riandare / nelle vie, per la gioia di tutti, pigri / a pensieri d’aria sulla riga del mare»), o ancora il vezzo montaliano della poesia in corsivo a introdurre la raccolta, ma soprattutto il simbolismo che questa stessa poesia pone: l’immagine di queste rose che ricorre, come una nota di colore, in tutto il libro, risultando però gratuita rispetto al resto. Ma, soprattutto, a segnalare la presenza di un certo implicito simbolismo, magari non intenzionale, è proprio la tensione sintattica complessiva: puntando alla durata della percezione, D’Elia si trova in qualche modo ad abbandonarsi (eredità surrealista? Si ricordi la frequentazione del traduttore almeno con svariati scrittori tardo simbolisti) alla lingua poetica, a inoltrarsi in digressioni, a operare molteplici dislocazioni sintattiche che, restando indici di una pronuncia letteraria volutamente riconoscibile (sul modello sempre attivo di Leopardi, per esempio), sono motivate dalla stessa necessità di uno «stile aperto» agli influssi del quotidiano, agli apporti lessicali della “prosa del mondo”, come una rete alquanto capace. Arriviamo però, in questo modo (e si vedano i testi che si adagiano su un unico, teso periodo), a movimenti prolettici o interrogativi che sorprendentemente richiamano l’ultima stagione poetica di Mario Luzi, anche se qui il canto tritato e riverberante del fiorentino si ricompone, orizzontalmente, in un verso apparentemente composto.
Notte privata prosegue sostanzialmente su questa lunghezza d’onda, benché i toni siano più risentiti, il piglio a tratti dantesco – a partire dalla citazione racchiusa nel titolo. L’uso del titolo per le poesie potrebbe apparire un dato meramente esteriore e invece sarà anch’esso indice di una maggiore frammentazione del reale che emerge, come se la musica sottesa al pensiero poetico fosse sempre più compulsiva, infernale (lo dimostrano anche le nuovi acquisizioni lessicali, dalla pronuncia orientata al grottesco: «squilli e fax», «la samba d’uno shaker scoccato»). In tal senso si noterà l’o disgiuntiva (analoga in questo al ma avversativo che talora la sostituisce) con cui incominciano i testi (con effetti, a lungo andare, ancora ambivalenti: il crescendo sinfonico dell’opera riverbera sulla congiunzione accenti interiettivi ed enfatici, quasi d’invocazione e preghiera). Si pensi alla splendida allegoria iniziale:
O se debbo ferirti, per saperti –
come la lettera incollata,
lungo la rima lacerata
in crespe urgenti da una lama…
Se prima di sapere ciò che pensi
e senti, in quel rettangolo piegato,
debbo forzare lungo il bordo
della teca che reca il tuo messaggio…
E non basta ferirti, debbo entrare
nella ferita con la mano,
cedendo ancora alle carte il vivo
bene che non puoi soddisfare…
Qui, il tema sempre più centrale della comunicazione si coniuga mirabilmente con il senso della perdita (la distanza fisica), con la necessità morale, opposta, di incontrare l’altro, che si emblematizza in immagini perfettamente rispondenti a sensazioni comuni, a eventi minimi (l’apertura di una lettera, appunto), prolungando ad arte l’evento trasformandolo in racconto “mitico”, che a questo punto però dilata la percezione fino a incendiarla: i risvolti cruenti del confronto con l’alterità («non basta ferirti, debbo entrare / nella ferita»), si caricano di valenze aggiuntive, che raccolgono pulsioni sotterranee (quasi erotiche) che si associano a tratti addirittura funebri (la «teca», il «vivo / bene che non puoi soddisfare…»). L’incontro con l’altro si riduce per lo più, comunque, a contrasto: dalla sua visuale sempre dislocata, alternativa, il poeta dà voce ai risentimenti verso la «nuova gente» che popola il paese e mantiene in vita una farsa fatta di momenti di gioia alienata (lo sport, le scommesse), di desideri frustrati, di frenetiche rincorse nel vuoto, di ipocrisia borghese, di immagini subdole e preconfezionate dai mass-media, dalle quali però si dissocia la figura di Marilyn, presente in tutti i libri di D’Elia in qualità di vedette che si riscatta nella propria umanità, attraverso la tragedia (mentre ogni altra figura femminile degrada l’archetipo dell’apparizione a quello dell’Appariscenza, come nel titolo di una poesia).
Il senso di estraneità che connota l’angolazione con cui l’autore si pone nei confronti della società torna ad assumere caratteri marcatamente politici, riconnettendosi, più che a una generica disposizione esistenziale, alle vicende biografiche. Sempre più esiliato rispetto alla polis, condannato dalla storia a sentirsi postumo rispetto ai sogni giovanili, D’Elia riprende in questi anni anche le prove narrative del decennio precedente, nel volume Gli anni giovani [16]. C’è probabilmente, in questo, un moto di revisione complessiva, come se si dovessero definitivamente chiudere i conti con il lavoro finora prodotto, rivalutando appieno l’ipotesi di sfondare i generi letterari per aggredire più decisamente l’impoetico e sciogliere le tentazioni orfiche insite nella scrittura. Non è un caso che il libro successivo si intitoli Congedo della vecchia Olivetti [17] (il debito verso il Caproni del Congedo del viaggiatore cerimonioso è assolto con una citazione all’interno del volume). Questa raccolta compendia alcuni poemetti, anticipati con uscite in libro autonomo o in rivista, incastonati all’interno di alcune sezioni, variamente articolate, che svolgono proprio la funzione di autoanalisi complessiva. L’immagine (finalmente animata da fantasia poetica e capace in questo di farsi visione del reale) che sospinge il tutto è quella, appunto, della vecchia Olivetti, la macchina da scrivere (allegoria dell’intero lavoro dell’autore) che viene abbandonata, e che si immagina prendere voce in alcuni importanti pronunciamenti, che assurgono a dichiarazioni di poetica. Nello stesso tempo, D’Elia fa omaggio a tutti i propri maestri, a partire da quel Fortini che fu proprio l’ideatore del nome della Lettera 32, al tempo in cui lavorava presso Olivetti (ma l’attacco è, ancora, montaliano: «Lo sai? – a battezzarmi così…»); si passa poi al Pasolini di Trasumanar e organizzar con la poesia Libro-libero, al «Maestro vicino» Giovanni Giudici, a Roversi, tutti citati nella prima sezione del volume, mentre in Due congedi si rende omaggio a Franco Scataglini e Remo Pagnanelli, esponenti di un’ipotetica linea adriatica, che ha in Leopardi il nume tutelare. A dire il vero, D’Elia si concede anche qualche digressione, abbandonandosi, sulla spinta dell’immagine della Olivetti, al ludus nominalistico (cfr. Istruzioni), ma determinante è soprattutto la poetica che la macchina da scrivere lascia in eredità (Altre istruzioni, non sfugga l’eco luziana dell’ultimo verso):
«L’impoetico: raccontalo a lampi.
Nomina le nuove impercepite
cose del mondo in cui ora siamo
immersi. E siano i versi
attenti al comune, alla prosa
che servi. E all’arso
cicalìo delle stampanti, poi che canto
è forza di memoria e sentimento
e oggi nient’altro che il frammento
sembra ci sia dato per istanti,
tu pure tentalo, se puoi, come tanti
durando un poco oltre quel vento…» [18]
Il tema del secondo capitolo (Lo squillo) è invece la comunicazione. Se in Libro-libero «leggere è [ancora] pensare», qui si esprime l’alienazione che pervade i moderni mezzi di comunicazione come il telefono o ci si interroga sul valore della poesia, della lettura e del Volantino nei tempi attuali. Il tema verrà ripreso verso la fine del volume, con maggior enfasi («Ascolta, il quinto / elemento, la comunicazione, / mare invisibile / che massaggia la terra»), nella sezione Etere, dove lo sguardo si concentra soprattutto sulla televisione e sul cinema (dove i referenti massimi sono Pasolini, ancora, e Fellini, e ritroviamo la già ricordata Marilyn).
Se nel complesso questa architettura è ricca di risonanze e risulta intelligibile e il valore metapoetico della raccolta basta a conferirle un risalto certo, i due poemetti centrali (La delusione e Voto d’aprile, nella sezione Su orme incivili) rivelano in pieno i rischi che l’apertura verso l’impoetico, con taglio decisamente politico, comportano. La serialità dei versi scade in smaccata retorica (a cominciare dal tu cui la lunga riflessione si rivolge e che è lo stesso Pasolini citato in esergo), i toni dell’invettiva non si appoggiano a un impianto figurale certo, dal momento che tutto si piega a mera registrazione cronachistica. «La brutalità del titolo [La delusione] corrisponde alla brutalità della versificazione in questo poemetto che sembra non portare traccia di reticenza, in cui tutto è così detto da crollare, a tratti, nella pura esistenza, nel brutto della vita. Siamo nella tradizione del poemetto deambulatorio, che dai Sepolcri giunge alle pasoliniane Ceneri di Gramsci» (Dal Bianco). La riflessione, poi, ricalca senza incertezze stereotipi come l’interpretazione progressista di Leopardi (già stantio sui banchi di scuola): «ah, solo un partito che assumesse la chiara / ideologia della Ginestra – solo questa mesta / e veritiera coscienza necessaria avrebbe il cuore // di vincere il malore»). Insomma, le esigenze comunicative, i risvolti ideologici, la prossimità schiacciante con i fatti della cronaca (Voto d’aprile, lo ricordiamo, fa riferimento al 1992), sfondano decisamente le strutture poetiche svuotandole, piegandole strumentalmente ai contenuti che premono dietro di esse. Così, l’atteggiamento infine assunto dal poeta è quello dello scriba, del testimone della storia, seppure dal suo punto di vista antagonista, “incivile”:
Ricomincia il brulichio delle Procure
ogni mattino, sulla salma italica
d’avvocati vanno per le cure
d’inquisiti ed ex potenti, neobarbarica
jattanza d’un vuoto che s’ammanica
di là d’ogni ideale, d’ogni fede enfatica
mandata avanti per coprire con parole
false le cose della brava gente avida…
E tu, scriba, che vuoi in questa madida
afa di suicidio e di mendacio a tutto spiano,
quando sarebbe un fare, e non un dire, il lontano
quale e come non subire, intervenire –
o vedere e ridire, mano a mano?… [19]
Questo Congedo chiudeva, intenzionalmente, una stagione poetica per D’Elia. In effetti, gli ultimi due recenti volumi, Guerra di maggio e Sulla riva dell’epoca [20], presentano la novità strutturale della terzina (benché altrettanto fluida, e pressoché libera nelle sue molteplici varianti, della precedente quartina), ma proseguono secondo l’orientamento dei poemi appena ricordati. L’occasione di “mordere la storia” è data nel primo caso dalla guerra nel Kosovo:
E ora, che c’è la guerra in Europa
e l’Adriatico è sorvolato da velivoli
dell’Etica Armata, che porta le bombe
agli assassini serbi, colpendo gli innocenti,
non importa, purché gli arsenali opimi
ogni qualche anno si svuotino d’incanto
e la produzione della distruzione
nello specchio di sempre si rimiri,
dove la pace della guerra è il capitale
e la distruzione della produzione lavora
per la riproduzione dei mezzi infiniti
di distruzione, in un ciclo demoniaco
[…] [21]
Siamo di fronte alla consapevole corrosione, da parte dell’ideologia (o, più cautamente, si dica pure della poetica), degli stessi statuti poetici: versi e rime sono investiti di un valore d’uso, piegati ad altro che non a sé stesse. In altre parole, si è sfondato un genere letterario senza fondarne un altro, uscendo semplicemente dalla poesia, aggrappandosi all’unico riflusso possibile, vale a dire la vis che determina tale atteggiamento con assoluta determinazione. Ma, in questo modo, il dualismo tra poesia e realtà, presente fin dalla prima raccolta, non viene affatto superato: negando il dissidio, si risolve l’uno in favore dell’altra (la realtà, in quanto tale, trascende l’individuo, e qualsiasi realismo prende le mosse da tale consapevolezza; ma anche gli istituti letterari, in quanto strutture che aprono storicamente uno spazio interpersonale e sovratemporale, e in quanto inerenti intimamente al reale, come lo stesso sguardo che vorrebbe separarsi per indagarlo, trascendono il soggetto).
Persi in una serialità sempre più coincidente con la dispersione, con la tracimazione del dettato in effusione, i molti versi di Sulla riva dell’epoca trovano qualche sussulto solo nel momento in cui si appoggiano al dialogo che si stabilisce con i vari interlocutori (a partire dalla sorella, prematuramente scomparsa, cui è dedicato il volume), alzando la temperatura della comunicazione su registri più confidenziali; oppure quando il discorso si fa ancora programmatico: «“[…] fai di te stesso il tuo stesso arnese…”», una voce chiede al poeta, pronto a divenire registratore e cassa di risonanza per i delusi di una generazione che si sente violentata nella memoria e nell’onore: «e maledirvi è poco, persecutori di Lotta Continua, / bugiardi, disonesti, mestatori da Caina, / professionisti d’una legge da untori»…
Eppure, al di là del giudizio su tali vicende e sul peso ideologico che questa poesia vuole catalizzare, si fa sempre più sospetto lo iato fra storia vissuta (nel suo slancio utopico) e scrittura (in quanto memoria attiva e critica del vissuto), soprattutto laddove nel «cuore puro delle generazioni» si intravede sempre meno intelligenza degli uomini, di tutti gli uomini, ridotti per la maggior parte a moltitudine inglobata negli ingranaggi della società capitalista. Sono poche, troppo poche le voci che trovano cittadinanza nella prima persona plurale di queste pagine; le altre (quelle eventualmente dissenzienti) sono mute, ridotte a figurine senza profilo, a brusio di sottofondo indistinguibile dai rumori assordanti delle macchine della nostra epoca.
[1] Gianni D’Elia, Non per chi va, Milano, Savelli. La raccolta ha avuto una recente seconda edizioni per i tipi di Marcos y Marcos (Milano, 2000), ma qui si fa riferimento alla prima edizione.
[2] Ibidem, p. 15.
[3] Si ricordi il celebre passo montaliano da I limoni: «amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla».
[4] Gianni D’Elia, Non per chi va, cit., p. 66.
[5] Ibidem, p. 19.
[6] Per queste vicende editoriali e per altre questioni, cfr. Marco Merlin, Aprile dei ricordi e dei rimorsi. Incontro con Gianni D’Elia, «Atelier», II, 6, 1997, pp. 22-30.
[7] Mario Luzi, Introduzione a Gianni D’Elia, Segreta, Torino, Einaudi 1989, p. V.
[8] Gianni D’Elia, Nel verso, «lengua», I, 1-2, 1983, pp. 55-60.
[9] Gianni D’Elia, Febbraio, Ancona, Il lavoro editoriale 1985.
[10] Gianni D’Elia, Città d’inverno e di mare, Udine, Campanotto 1986.
[11] Ibidem, p. 11.
[12] Entrambi editi da Einaudi, rispettivamente nel 1989 e nel 1993.
[13] Gianni D’Elia, Una nozione di «mito della realtà», nel volume La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia contemporanea, a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, p. 95.
[14] Ibidem, p. 98.
[15] Gianni d’Elia, Segreta, cit., p. 43.
[16] Gianni D’Elia, Gli anni giovani, Ancona, Transeuropa 1995. Precedentemente erano apparsi, autonomamente, 1977 (Ancona, Il lavoro editoriale 1986) e Infernuccio itagliano (Ancona, Transeuropa 1988).
[17] Einaudi, Torino 1996.
[18] Ibidem, p. 9.
[19] Ibidem, p. 91.
[20] Rispettivamente editi a Genova (San Marco dei Giustiniani) e a Torino (Einaudi), entrambi nel 2000.
[21] Guerra di maggio, cit., p. 19.
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