Potrei non pubblicare più
Ogni volta che la poesia viene a farmi visita mi stupisco, ogni volta sono sopraffatto.
Percepisco ormai abbastanza chiaramente quando la soglia è prossima e la lucidità si fa assoluta, si consuma internamente e diventa visione. Poi, per forza di scrittura, si perde il controllo, e alla fine ci si risveglia, mentre si era già svegli, e si riconoscono le tracce della violenza subita: parole che non si volevano usare, ritmi insopportabili e che ci cullano, morfemi che si accoppiano come cellule impazzite per disegnare un profilo ignoto. Ieri, per esempio (ma era ieri? Anche i cardini del tempo vacillano), ho avuto una visita più che imprevista: Pan (dico: Pan! Ma chi mai l’ha frequentato…) è entrato in casa mia, chiedendo pane e diffondendo una sottile sensazione di panico. Pan, pane, panico: appena un giochino vizioso, adesso, a freddo, per rendere conto della forza delle tensioni interne della lingua (l’etimologia, i suggerimenti impertinenti del significante) e dell’ispirazione (che non è affatto garanzia del valore di un’opera, perché occorre che chi scrive si dimostri degno dell’ispirazione stessa – e della lingua cui appartiene).
È strano scoprire a posteriori la presenza di una strategia, molte volte del tutto inedita, nei versi che si scrivono. Come le parole che si agglutinavano e si separavano, giocando a invertire i ruoli, nel mio poemetto Terramadre. O le paronomasie e le frasi idiomatiche ironicamente e sottilmente mutate nella sequenza che ho intitolato Cheloidi. O, a livello di contenuto, temi imprevisti o da evitare e che si impongono, stringono strane alleanze con ciò che sta a cuore da sempre.
Per questo si scrive: per godere di questa creatività. Forse, addirittura, teologicamente, per partecipare alla Creazione.
Potrei non pubblicare più. Quel che conta è scrivere.
(L’opera scelta come copertina è di Carlo Alberto Palumbo.
Cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa)
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