L’inutilità della poesia

La poesia è inutile, come Dio [1].

Ed è gratuita, perciò essenziale, come la vita.

Che cosa sta chiedendo la società alla poesia? Nulla, almeno in modo consapevole. Così i poeti del nostro tempo sembrano messi al bando, mentre in verità sono nel centro pullulante del mondo. Sono voci profetiche, ma talmente libere da non soffrire nemmeno più per la mancanza di ascolto. Sono voci gratuite, essenziali, abituate a dire la verità malgrado tutto, malgrado le richieste equivoche o umilianti che la società porge loro. (Il poeta non insegue il lettore: gli offre ciò di cui egli non sa di avere bisogno).

Il problema quindi non è dei poeti – semmai degli scrittori che vivono del sistema -, ma della società che non è più educata a leggere, a chiedere senso alla poesia. La marginalità della letteratura è una questione politica. Non si creda di salvare la poesia ponendosi tale problema: sarebbe troppo arrogante.

Eppure, la società ancora oggi inconsapevolmente sta chiedendo molto alla poesia: lo dimostrano le migliaia di persone che affidano quotidianamente alla pagina, in modo ingenuo e genuino, le loro emozioni, il loro senso di vita (messo così a dura prova dall’omologante ipocrisia dei nostri giorni).

Che cosa si deve fare, allora, per mantenere quel minimo contatto fra il sapere offerto dalla letteratura e i bisogni del nostro tempo? Molti sono pronti a giurare che l’offerta di sapere della letteratura non è scaduta, anzi è divenuta ancor più essenziale. Per questo ci si interroga su come trattenere la voce della poesia e impedirne lo scialo devastante che in qualche modo (tutti lo avvertono) è in relazione con la stessa perdita di umanità che tante immagini anche recenti ci testimoniano.

Le cose da fare sono davvero molte. A mio avviso, si possono distinguere due livelli di azione culturale, implicati in un’unica interfaccia (fra la letteratura e l’utenza). Un primo livello lo definirei molecolare, l’altro mediatico.

Il sapere profondamente umano che ci viene dalla letteratura si propaga per il tramite di relazioni formative. Il sapere poetico è una sorta di contagio: si trasmette in virtù di un incontro. La famosa e spesso bistrattata affermazione di Celan, secondo cui non c’è differenza fra una stretta di mano e una poesia, può avere qui un senso [2].

Quello che si va affermando è, quindi, la centralità della scuola, nel rapporto di trasmissione culturale. Le scuole sono le uniche officine in cui si può diffondere l’amore per la letteratura, che deriva proprio dalla precisione e dalla consapevolezza didattica. Per precisione e consapevolezza si intende esattamente la capacità di salvaguardare alcuni valori che rischiano di essere, oggi, manipolati, equivocati, deturpati. Salvaguardare significa saper tradurre, nel linguaggio del nostro tempo, il sapere umanistico.

Saper cogliere e definire il pensiero altrui, mettendolo in relazione coi propri paradigmi culturali, a qualsiasi tempo e luogo appartengano; saper valutare i propri principi sulla base di tale confronto; saper individuare questioni pertinenti di fronte a una serie quasi illimitata di informazioni; saper smantellare i livelli retorici del linguaggio per valutarne criticamente il reale contenuto… saper riconoscere il valore delle cose al di là della loro immediata e diretta utilità… saper riconoscere il valore della vita… Vi sembra che queste siano competenze estranee al nostro mondo? Sono il patrimonio stesso della nostra tradizione letteraria. Bentornati a scuola.

Mi sembra poi ridicolo che qualcuno si scandalizzi del fatto che si tenda a dare maggior importanza al Novecento, a scapito dei Classici. Anzitutto, bisognerebbe ragionare molto sull’insensatezza di tale raffronto: come se la letteratura contemporanea fosse di serie B rispetto a quella classica (giudizio che nasconde sempre un pre-giudizio, quando non è un alibi per la propria incompetenza di fronte alla modernità); come se l’una si qualificasse “a scapito” dell’altra.

Un buon insegnante non è colui che sa di più, ma colui che sa trasmettere il contagio del sapere: colui che riconosce la grammatica della propria materia, la sa smontare, per raggiungere l’altro, per ricostruire il proprio sapere sulle basi del pensiero altrui. Bisogna, quindi, partire dall’esperienza diretta? Certo. Dagli SMS? Perché no? Poi arriveranno le canzonette, poi i Siddharta e i Gibran dell’adolescenza, poi la straordinaria elementarità di Ungaretti per aprire le porte del Novecento… poi Montale, Luzi, Sereni. E Dante è già lì a un passo. Mondi passati premono già sulle finestre, per entrare.

Un secondo livello ci spalanca le porte a una vera e propria battaglia mediatica. Battaglia contro chi? Contro gli incompetenti della comunicazione, che pensano di fare gli intellettuali invitando il Poeta al loro programma televisivo e fanno partire in sottofondo, appena legge, la propria patetica musichetta; contro i direttori delle collane poetiche (ne esistono ancora?) che mancano di coraggio e intelligenza; contro gli articolisti (sulle pagine culturali!) sempre pronti a sparare sentenze sui poeti, così patetici e meschini, che brulicano ai margini della società e vorrebbero più ascolto; contro i poeti che si fanno la guerra tra loro, e si lamentano perché l’Italia è un Paese di ignoranti dove tutti pensano di poter scrivere e nessuno li legge più; contro i direttori delle riviste che si adattano al clima del sottobosco culturale e riproducono, in piccolo, gli stessi meccanismi che il Sistema applica a livello nazionale e politico… Contro l’incompetenza mediatica, insomma, in tutte le sue forme. Perché servirebbero registi capaci di raccontare la poesia in semplici ed efficaci videoclip, che non facciano il verso al Poeta, ma siano in grado di “eseguire” (mettere in opera) un testo; servirebbero spettacoli in cui davvero la parola è centrale, con tutta la sua radicata e radicale potenza; servirebbero giornalisti credibili, capaci di pensiero che affonda e che educhi il lettore; servirebbero riviste che si avvertono libere e oneste nel momento stesso in cui risultano dure e combattive; servirebbero cantautori capaci di leggere la letteratura contemporanea e attingere da essa; servirebbero spettacoli capaci di mescolare diversi linguaggi (la musica, la danza, l’immagine…) senza violentarli.

Di cose da fare ce ne sono davvero tante, insomma. Che cosa aspettiamo, ancora, per metterci al lavoro?

Il fatto è che, anche se riuscissimo a lavorare per colmare tutte queste lacune, non ci saremmo ancora impossessati di quel «nulla d’inesauribile segreto» che è la poesia. Perché dannarsi, allora? Perché tanta paura di fronte alla “perdita dell’identità culturale del nostro paese”? È la letteratura stessa che ci insegna a guardare avanti con fiducia, certi che è proprio nella vanità delle cose che si nasconde la verità. La letteratura è parola offerta al futuro: il suo significato è sempre di là da venire. È essenziale, manca cioè a tutte le definizioni: deve ancora essere detto.

Non è entusiasmante?

La poesia non è utilizzabile, non è programmabile, perciò è essenziale.

Auguro a me stesso e a tutti di diventare responsabili di questo dono, come siamo responsabili della nostra stessa vita.

NOTE

[1] Cfr Virgilio Melchiorre, Metacritica dell’eros, Milano, Vita e Pensiero 1977; in partic. il paragrafo Gratuità dell’esistenza, pp. 174-177.

[2] Cfr Paul Celan, La verità della poesia, Torino, Einaudi 1993.

 

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