Vendere racconti (o del qualunquismo)
Leggevo ieri un interessante articolo di Salvatore Anfuso, Vendere racconti a una rivista cartacea. Ci si chiede qui se esistano ancora riviste (cartacee) in grado di pagare la pubblicazione di racconti (sì, ne esistono) e se esistano riviste di un certo prestigio letterario, capaci di “lanciare” anche nuovi autori, che non siano eccessivamente partigiane, snob, letterariamente orientate, che siano insomma aperte a ogni forma di contributo, a prescindere dal genere, affinché un racconto “scritto bene” trovi accoglienza. Attraverso il tam-tam dei commenti, è emerso inoltre il sogno di fondare una nuova rivista, che rispondesse, se ho ben capito, a tutti i requisiti finora indicati, ovvero:
- che sia sufficientemente autorevole in ambito letterario per garantire la qualità della pubblicazione
- che paghi i contributi ospitati
- che pubblichi racconti di qualsiasi genere
- che non risulti eccessivamente tecnica, cioè specialistica.
Una tale rivista sarebbe molto gradita alla comunità e, secondo l’opinione di qualcuno, potrebbe funzionare, anche in un mondo come quello odierno, dominato dalle ferree (?) leggi economiche.
Io definirei un periodico che rispondesse ai parametri sopra elencati “qualunquista”. So che la parola ha assunto una connotazione negativa, ma nella mia ottica non implicherebbe un giudizio di valore. Per certi versi, anzi, potrei affermare che il trimestrale che fondai nel 1996 insieme a Giuliano Ladolfi (che dal 2014 prosegue nell’impresa senza di me) si definirebbe a sua volta per certi aspetti “qualunquista”, come si chiarirà da alcune caratteristiche che sottolineerò in seguito.
Prima, però, vorrei tagliare subito la testa al toro. C’è una questione di fondo che nel dibattito intorno all’articolo viene rimossa, ed è per me, invece, la questione primaria.
Perché si vuol pubblicare? Ci sono di fondo due risposte: a) Perché mi piacerebbe svolgere il mestiere dello scrittore; b) Perché sento una vocazione alla scrittura e quindi in qualche modo non ho scelta: scrivere per me è vitale, per cui, in seconda istanza, anche la pubblicazione è un banco di prova importante.
Una precisazione: ho appena polarizzato nelle risposte i due casi estremi e puri, ma è ovvio che la figura dello scrittore (mestierante) e dell’autore spesso convivono, si alternano e si accoppiano in modalità più o meno oscene in ciascuno. Non trovo scandaloso, per dire, che un ottimo autore decida in tutta consapevolezza di scrivere un racconto (magari di genere), senza particolare ispirazione, per pubblicarlo a pagamento su una rivista. E magari che un onesto mestierante trovi a un certo punto la propria materia e scriva un capolavoro. O che, partendo con obiettivi venali, qualcuno finisca per trovare l’ispirazione. O che l’esperienza della pubblicazione stessa serva all’autore per capire dove collocare sé stesso, rispetto al dilemma. E andate avanti voi a trovare tutte le combinazioni possibili, affiancandoci pure le figurine dei vostri scrittori/autori preferiti.
La soluzione del bivio iniziale ha però delle conseguenze. Se si cercano riviste dove pubblicare (e nel dibattito si imponeva l’impressione che si trattasse anzitutto di riviste “femminili”: si prenda la precisazione per quel che è: un surrettizio giudizio maschilista per alcuni, un oggettivo elogio alle donne per altri) perché ci si orienta secondo la risposta “a” (mi auspico di guadagnare con la mia attività di scrittore), l’esperienza insegna che delle possibilità sussistono. Tuttavia, credo che la tipologia di riviste un po’ più di culto in ambito culturale, legate per lo più a uno specifico pubblico (un esempio: “Rolling Stone”), prediligano, o si trovino di fatto a percorrere, una strada differente: scegliere uno scrittore già di grido o comunque emergente e chiedergli qualche contributo.
Se invece si persegue una propria “ricerca letteraria” poco propensa ai compromessi, la speranza di inviare, da perfetti sconosciuti, un contributo a una rivista a cui si attribuisce prestigio (poniamo “Nuovi Argomenti”), nella speranza di vedersi aprire una porta, cominciamo a entrare nell’ambito dell’improbabile e, nel caso (rarissimo) di riscontro positivo, dell’imponderabile. Si attivano in questo caso gli stessi problemi dell’autore inedito che invia il suo testo d’esordio a una casa editrice “a tiratura nazionale”. Non mi dilungo a descrivere le varie e discordanti esperienze in merito, non ne caveremmo mai una “scienza” (di racconti, invece, sì). L’elemento umano, quando ancora emerge dal “sistema”, non si manifesta secondo le regole di alcun algoritmo.
Se accettassimo invece di rinunciare a uno dei requisiti sopra elencati, le prospettive potrebbero cambiare radicalmente. Troppo facile indovinare a quale requisito sto pensando: quello della retribuzione. Non che ritenga l’idea che un autore accetti della vil pecunia un reato: lo si sarà capito, spero. Anzi, in linea di principio mi pare ben logico che il lavoro d’ingegno, di genio se possibile, ma anche solo d’intelletto, sia pagato. Ma la realtà è questa.
Dunque, esistono riviste che, pur non offrendo una ricompensa in denaro, rispondono agli altri criteri? Fino a un lustro fa paventavo una certa sicurezza, perché monitoravo l’orizzonte dei periodici letterari in modo più continuo e sistematico. Ora ho l’impressione che il web abbia definitivamente intaccato il panorama; ma può darsi che questo sia l’effetto distorsivo dovuto alla mia parabola umana.
Ma riviste di tal genere credo che esistano tuttora, o quanto meno siano possibili.
Spendo qualche parola ancora per documentare la mia esperienza.
Per gli anni in cui mi sono occupato di Atelier, assicuro che si svolgeva proprio il compito che ci si auspica nell’articolo da cui siamo partiti: pubblicare testi per il loro valore, anche indipendentemente dal genere o dall’orientamento poetico dell’autore (si possono sfogliare tutti i numeri in digitale a riprova: consiglio in particolare il 38, monografico, dedicato appunto ai racconti; vi compariva anche uno sconosciuto che rispondeva al nome di Roberto Saviano). Alcuni limiti di questa rivista ne rappresentavano anche la forza: non essere legati a case editrici diventava garanzia di libertà, ma comportava, appunto, anche il fatto che non potevamo permetterci di pagare nessuno. La ricompensa consisteva nella pubblicazione gratuita (con tanto di qualche copia in più in omaggio della rivista e, nel caso di pubblicazione di libri, di 200/300 copie gratis del medesimo). Altro limite leggibile come un vantaggio: non eravamo professionisti del settore (non eravamo quindi in grado di stendere con criterio un business plan e predisporre una campagna di crowdfounding), né vantavamo in partenza una “credibilità” particolare. Tutto questo però ci ha spinto ad affrontare con coraggio la “verifica” della realtà: se le nostre idee e i nostri modi contenevano qualcosa di positivo, avremmo ottenuto un riscontro soddisfacente. Esperti o no, occorre dunque tenere presente il problema della “sostenibilità” economica di una simile impresa, e accettare la riprova della storia. Lamentarsi dell’assenza di lettori non serve a nulla e anzi ha effetti controproducenti, quantomeno su sé stessi; piuttosto, meglio darsi da fare, in qualunque modo, per costruirselo, un pubblico.
Torniamo così al nucleo problematico del “qualunquismo”. Da una parte è necessario esibire le proprie competenze, per acquisire autorevolezza. Dall’altra, bisogna evitare il compiacimento intellettualoide e continuare a lavorare sul versante del “servizio”, della divulgazione. È come chiedersi se esiste una forma di giornalismo intelligente (certo, che esiste!). È come trovare il ritmo giusto per tenere insieme articoli molto tecnici e interventi più leggeri, come abbiamo tentato, con diverse formule, con Atelier. Si tratta, insomma, di un profilo ambizioso, di un equilibrio che domina tensioni contrastanti.
Arrivo al dunque, tornando alla questione di fondo. Un simile equilibrio, a mio parere, è gestibile con continuità solo dagli scrittori, non certamente dagli autori. Servono insomma un direttore e una redazione qualunquista, per ipotizzare un simile progetto. E ribadisco: non ci infilo di nascosto una valutazione, mi preme che sia chiaro in partenza il presupposto. Ma tienilo ben presente, caro Salvatore, qualora volessi accettare la sfida.
Per dimostrare l’assunto chiamo in causa ancora la mia esperienza e l’ultimo criterio rimasto sullo sfondo: la ricerca della qualità (su cui si fonda l’autorevolezza, che a sua volta si concretizza nell’intelligenza divulgativa, la quale chiude il cerchio ideale garantendo la sostenibilità…). Sarò sintetico, apodittico al limite.
Appena si innesca il problema della qualità si imbocca la strada verso la definizione di una propria poetica. E una poetica “qualunquista” non esiste, perché la neutralità esiste solo in relazione ad altri valori dichiarati.
Una nuova rivista dovrebbe quindi assumere, in qualche modo, un orientamento, prima o poi. Il qualunquismo è un’opzione riservata a chi ha scelto la prima traiettoria del bivio.
Nella mia esperienza di Atelier ho accumulato proprio anzitutto la fatica di tenere insieme la “mia” poetica con quella degli “altri”, chiamati di volta in volta a rendersi corresponsabili di quelle pagine (sulla base di un collante soprattutto etico, un fattore di tensione letteraria, ovvero di scelta rispetto al dilemma iniziatico). Si è trattato di una tensione faticosa (e bellissima, perché fertile) sia verso i lettori-lettori sia verso gli autori che si proponevano e gli altri redattori. Ma sono pochi quelli che, nella loro personale visione della ricerca letteraria, hanno incorporato il bisogno di un conflitto costante e produttivo; per i più questa dimensione sempre dialettica risulta logorante. E non saprei dire quale condizione, fra le due, sia la migliore, per lo sviluppo della propria fisionomia artistica.
In ambito poetico, il prototipo di una rivista che per me si può considerare “qualunquista” è la più celebre di tutte: “Poesia”. Uno spot televisivo di pochissimi secondi in tarda serata e non so quale altra strategia è stata sufficiente per creare un prodotto unico nel panorama europeo: un mensile dedicato a un argomento “di nicchia” capace di vendere decine di migliaia di copie a ogni numero, di far lavorare una schiera di apprendisti traduttori e recensori e chissà quante altre figure: tutti, per quel che so, in modo del tutto gratuito. Bastava garantire una retribuzione minima a un solo redattore (magari un appassionato studente universitario senza troppe pretese) per gestire l’intero impianto. Se ripercorri la storia di quel periodico, vedrai anzi che ha dovuto proprio superare un periodo in cui si era compiuto l’errore di affidare questa rivista di poesia… ai poeti, e in particolare alle voci allora più forti, riconoscibili, accreditate: ne sono sorte polemiche, dissidi, dissapori. Solo dopo essersi messa alle spalle questa esperienza, tale rivista è riuscita a diventare quella vetrina tanto luccicante da essere ambita, appunto, da tutti, a prescindere dal genere e dalla poetica di appartenenza.
Ironia della sorte, anche la mia ex rivista ora ha un suo corrispettivo sul web che riproduce, sempre sotto una patina di prestigio e di competenza, la stessa idea, ed è infatti una galleria che saprà apprezzare anzitutto chi non sa che cosa sta cercando. (Di tanto in tanto, peraltro, anch’io non so che cosa cerco, e quindi la frequento…).
In conclusione, il discorso è ben complesso. Ma non credo, da questo punto di vista, di aver svelato nulla che in qualche modo già non si sapesse. Lo scopo di questo mio intervento, in appendice all’articolo, è unicamente quello di invitare tutti a non rimuovere la questione dirimente.
Va bene riuscire a vendere le proprie opere, se ci si riesce, ma è fondamentale sapere per quale ragione ci si è messi a scriverle.
Caro Andrea,
per prima cosa lascia che ti ringrazi per il tuo contributo; l’esperienza che hai maturato in questo campo è tale da rendere la tua opinione molto preziosa per chi si è affacciato da poco o vorrebbe affacciarsi al mondo (professionale) delle Lettere. Prima di ribattere vorrei però fare alcune precisazioni riguardo l’articolo originale, a cui ti riferisci, e a quanto è emerso dai numerosi commenti: se non ho capito male il parere dei molti, la rivista che fantasticando si vorrebbe leggere/realizzare dovrebbe corrispondere ai seguenti parametri:
1. che sia sufficientemente autorevole in ambito letterario per garantire la qualità della pubblicazione, come dici bene tu;
2. che paghi i contributi ospitati, indispensabile per permettere all’autore ancora acerbo di cominciare a svincolarsi da dinamiche neofite e hobbistiche;
3. che pubblichi racconti di
qualsiasi genere, che pubblichi racconti notevoli di qualsiasi tipo, genere o non genere;4.
che non risulti eccessivamente tecnica, cioè specialistica, che abbia delle pretese ma non sia pretenziosa.Un autore al suo esordio avverte l’inevitabile esigenza di confrontarsi con se stesso e il mondo che lo circonda sia per farsi conoscere dalla comunità a cui si rivolge – in questo caso di letterati e di lettori – sia per capire il proprio valore e trovare una propria collocazione. Come dici tu stesso: la pubblicazione è un banco di prova importante; in entrambi i casi, aggiungo io.
Detto questo, capisco che il mercato italiano sia notevolmente diverso da quello americano – cui, volente o nolente, ci si vorrebbe confrontare. Non è sbagliato tirare dei distinguo e delle somiglianze con chi si avverte culturalmente
superioredi valore (che oggi pare sempre più sinonimo di successo); capisco anche che la forza di chi, con passione e fatica, produce cultura non permetta di trattare la stessa, anche all’ombra dell’industria letteraria che ha dominato l’ultimo mezzo secolo della nostra penisola, come un “affare (anche) economico”; tuttavia se si produce qualcosa è giusto per questo essere pagati, no? Altrimenti lì dove si vorrebbe essere detentori di una certa credibilità, si finisce per dimostrare solo la propria… vocazione casalinga.Certo che si può barattare un compenso di altro tipo: io pubblico il tuo lavoro e in cambio nobilito la tua reputazione; ma appare chiaro che in questo ormai 2017 il baratto non solo non è il modello economico di riferimento, ma risulta addirittura anacronistico. Tralasciando che, in mancanza di una identificazione certa del valore reale di un “prodotto” (un filetto argentino o un peperone di Carmagnola possono essere certamente giudicati secondo parametri precisi, e in quanto tali valorizzati; il lavoro artistico, ahimè, no), il solo modo per stabilire con dei criteri incontestabili tale valore è, nel nostro campo, il fervore economico che esso produce: nel nostro Paese l’industria del libro genera 1,3 miliardi di euro. Molti, da un certo punto di vista; pochissimi se confrontati ad altri mercati meno nobili ma più redditizi (che il solo tabacco nel nostro Paese, pur così discriminato nella contemporaneità, fatturi quasi 16 miliardi di euro qualcosa vorrà dire).
Ma stiamo parlando di letteratura e posso capire le storture di naso a sentire di cifre e denari. Se quello che scrive Fabio Volo genera 100 e quello che scrive Antonio Moresco genera 10, sempre in termini economici, significa che ciò che scrive il primo ha più valore di ciò che scrive il secondo? Certamente no, tuttavia rimane un parametro certo: l’unico in campo letterario. Del resto non v’è certezza. Inoltre essere retribuiti – ma davvero ne stiamo parlando? – svincola il letterato da dinamiche dilettantesche: se si continua a scrivere nei ritagli di tempo, il valore della propria scrittura non potrà che essere conseguente: uno scarto, praticamente. E questo fa male tanto all’artista, concedimi il sostantivo, quanto alla stessa letteratura e alla sua industria.
L’impressione è che noi italiani siamo un po’ vittime di una contraddizione culturale: associare ciò che riteniamo sacro (l’arte, in questo caso) a ciò che riteniamo profano (il denaro) è sempre visto come un connubio ributtante. Gli americani, non posso che tirare in ballo loro per questo confronto, il problema pare non se lo pongano: io scrivo e per questo vengo pagato, esattamente come il mio idraulico viene pagato per il tubo che serra. Almeno, questo è ciò che propagandano. Più scrivo bene, più vengo pagato; e questo genera una spirale virtuosa che non può che portate benefici a tutta la filiera (avrai indovinato che la selezione di termini prettamente industriali è voluta). Chiaro che i magazine di culto puntino, se proprio devono retribuire qualcuno, a pubblicare scrittori di grido o quasi; farlo anche con i dilettanti di talento ha però dei vantaggi innegabili che non si vogliono riconoscere: 1. costano meno; 2. si fa mecenatismo, con tutto ciò che esso comporta in termini di immagine (i latini insegano); 3. scoprendo voci nuove di talento il proprio nome non potrà che restarne legato in perpetuo alimentando la fama “di culto”, come è avvenuto per il New Yorker.
La stessa contraddizione mi pare si possa individuare anche in ciò che indichi parlando di “qualunquismo” e del periodico Poesia (d’altro canto non posso che concordare con te). Avvertiamo la necessità di nobilitare ciò che facciamo, forse all’ombra di trascorsi letterari certamente notevolissimi, non rendendoci conto che il confronto coi nostri padri è, in ultima analisi, schiacciante. Forse dovremmo scrollarci di dosso una certa idea di letteratura, e cominciare a scrivere ciò che sappiamo fare (bene); senza preoccuparci di che posto questo occupi nel panorama letterario più alto ma ormai trascorso.
Insomma, quello che intendo dire è che forse dovremmo cambiare il nostro approccio. È una questione di mentalità. È per quanto sia consapevole che le mie parole generino orrore, sono altrettanto consapevole che il mondo si sta muovendo, e continuare cocciutamente per la stessa via alimenta la degenerazione della qualità e la proliferazione di prodotti “fai da te” casalinghi che hanno l’unico merito, se è tale, di disperdere ancora di più le forze e le risorse. Questa, naturalmente, è solo l’opinione di chi il mondo delle Lettere l’ha sbirciato dal buco della serratura, e come tale va presa. Fra qualche anno, con più esperienza sulle spalle, probabilmente sarò maggiormente allineato al sentire comune. In fondo sto ancora cercando il mio posto nel mondo, e la ragione per cui scrivo.
Caro Salvatore, grazie delle precisazioni. Forse non ho riletto abbastanza il mio testo prima di pubblicarlo (volevo stare sulla scia della discussione), ma mi sembra che mi attribuisci una certa “resistenza” rispetto a quello che tu definisci come “nuovo approccio” in cui non mi riconosco. Come dicevo, nell’idea “qualunquista” di un periodico che non si identifica in una poetica dominante, che rifiuta insomma una posizione partigiana, non ci vedo nulla di male. Ti dirò di più: se una tal persona ricevesse l’incarico di gestire una collana di narrativa o di racconti per una casa editrice in virtù della sua autorevolezza (ovvero della sua poetica), mi aspetterei da quella persona un’onestà di atteggiamento che lo porterebbe a dare spazio anche a quelle voci “non allineate” alle sue idee di fondo, ma che nella “repubblica delle lettere” dovrebbero trovare cittadinanza.
Sul fatto di pagare il lavoro intellettuale: sono d’accordo! Constatare che gli scrittori in Italia che possono campare della loro attività di scrittori siano una nicchia di eletti è, giustappunto, una mera constatazione. Si vuol cambiare questo sistema antiquato? Avanti! Posso dare un contributo? Volentieri!
Il pericolo però di considerare autori importanti gli autori che, semplicemente, vendono, è dietro l’angolo. In poesia c’è stata una famigerata antologia che selezionava gli autori “degni” sulla base dell’editore che li pubblicava! Occorre convivere con questi scrittori celebri ma che non è detto che siano veramente bravi? Ma certo, mica ho intenzione di fare la guerra a loro. Non sono affatto geloso del successo di alcuno (semmai, mi verrebbe la voglia di confrontarmi col suo pubblico, per capire di che tipo di lettore si tratti e della qualità del suo “giudizio”, tralasciando il fatto che comprare o seguire un autore non vuol dire ammetterne il valore letterario in termini assoluti)
Mi sento quindi pienamente d’accordo con te.
Idealmente: azzeriamo la tradizione, i complessi di inferiorità, le poetiche, ecc. ecc., per ripartire da zero? E’ un’utopia, ma perseguiamola pure.
Poi, però, sul tavolo di chi avrà la responsabilità di scegliere che cosa pubblicare finiranno due testi. Uno dovrà essere scartato. Attraverso quali criteri, che siano spiegabili e, quindi, accettabili e o contrastabili? Eccola lì, la poetica, il giudizio di valore, la democrazia. Occorre esserne consapevoli, tutto qui. Si vuol sostenere che quello scrittore è valido perché vende? Ebbene, di fronte a una simile posizione (che mi guardo bene dall’attribuirti), mi si troverà in disaccordo, e sarà un punto su cui non potrò mai cedere. Si vuol sostenere che quel mostro sacro da sempre ben insediato nella tradizione vada rimosso: sono pronto a combattere contro ogni Tradizione. In nome della tradizione, ovvero dell’innovazione che fiorisce dal senso, dalla forza delle proprie radici.
Credo nella parola, nella sua capacità di irradiazione della verità. Mi impegno per cercare di saperla decrittare, in tutte le forme in cui si manifesta, e di combattere tutte le sue mistificazioni. Mi impegno (anche come insegnante!) a educare gli altri a leggere, a capire, a cercare di innescare la potenza di quella parola piena di senso. E’ parte della mia umanità, della mia appartenenza a un destino di cui mi faccio carico e che cerco di lasciare in eredità in modo non degenerato, ma ancora vivificante. Tutto qui.
Grazie per la tua risposta, Andrea. È sempre piacevole leggerti, si imparano un sacco di cose e mi si chiariscono, a volte, anche le idee. Non ti attribuivo, nella mia risposta, alcuna resistenza diretta – se ho dato quest’impressione mi dispiace; la mia era semplicemente rivolta all’intero mondo delle Lettere così come lo percepisco in questo momento: succube di un passato glorioso, da un lato, fortemente stratificato per ragioni spesso imponderabili (o ponderabilissime, che è perfino peggio) dall’altro.
Io per primo non mi sento libero di esprimermi come vorrei per via di quello che avverto come un inevitabile confronto coi grandi maestri. Potrebbe essere un problema solo mio, ma ho il dubbio che invece sia generalizzato. Quello che intendo dire è che se non avessimo una grande tradizione alle spalle saremmo certamente più poveri, culturalmente, ma anche più “leggeri”. Con “leggeri” intendo: liberi di sondare il terreno come più ci piace. Mentre ancora oggi trovi il solito saccente di turno che ti raccomanda di leggere Manzoni. E certo che lo leggo il Manzoni; ma perché mi piace, non per imparare qualcosa. Chi dice che il suo metodo è migliore del mio? Cosa significa in campo letterario (o artistico) migliore? Secondo me non c’è un “migliore” o un “peggiore”: la letteratura, come l’arte, è un mezzo espressivo. Al massimo si può discutere se sono riuscito nel mio intendo di esprimere esattamente ciò che volevo oppure no. Mi spiego?
Per quanto riguarda gli esordienti, mi pare ci sia una fortissima resistenza: come se il cammino di uno scrittore dovrebbe essere accomunato a quello del penitente: abbraccia la tua croce dice Franchini, che per altro apprezzo, in un’intervista. Ma che significa? Non significa niente. Dovremmo intenderci, come dici tu, sulle ragioni che ci spingono a scrivere. Non solo, ma anche sul significato del mezzo. Scrivere è un mezzo che permette a una persona di mostrare agli altri una sua verità che altrimenti sarebbe difficile, poiché non siamo telepatici, trasmettere. In tutto questo che centra la penitenza? Al massimo mi si può accusare che ciò che ho da dire non è né particolarmente importante né particolarmente interessante. Così andrebbe bene. Ma abbracciare la croce? Sul serio? Insomma, credo di essermi spiegato.
Quindi, capisco benissimo cosa intendi a proposito di poetica, di giudizio di valore, e di tutte le difficoltà inerenti, e non credo che il dato riguardante le vendite sia in questo senso rilevante – mi limitavo a constatare che in campo editoriale è l’unico dato certo, ma non per questo significante; io stesso mi guarderei dal giudicare il valore di un’opera dal numero di copie vendute o dalla cifra impressa sulla copertina. Tuttavia, proprio per questo tuo ragionare, è inevitabile ribadire che nessuno può attribuire un valore a un romanzo o a un racconto che non sia semplicemente l’espressione del proprio gusto. Con “gusto” dobbiamo intenderci: un racconto può colpirti per molte ragioni, ad esempio perché ti fa conoscere una realtà che non conoscevi affatto o perché parla con efficacia e chiarezza di una realtà che invece conosci bene. Alla fine come si fa a stabilire chi è bravo e chi è mediocre? Per quanto mi riguarda il “bravo” è riuscito a comunicare esattamente ciò che voleva, cioè ha rispettato un proprio canone; il mediocre no.
In questo senso, un periodico che pubblichi tutto quello che ritiene “rilevante” sulla base del merito – se l’autore è riuscito o meno cioè nel suo intento – tralasciando altre considerazioni, potrebbe avere un suo senso e accogliere una fetta di autori che al momento non riesce a esprimersi pubblicamente.
Mi pare che, pur partendo da strade diverse, siamo parecchio allineati e questo non può che farmi piacere.
Siamo molto allineati, caro Salvatore. La letteratura italiana poteva concludersi subito, nel Trecento. Come si fa a presentarsi come eredi di Dante? Eppure ogni generazione ha il diritto (e il dovere) di risalire le spalle del gigante. Io, a mio tempo, pensavo proprio che la chiave potesse essere anche “generazionale”. Eliot diceva: prima che un poeta passi il vaglio degli autori a lui maggiori, deve trovare credito nella sua generazione. Poi, però, ci si risveglia a 44 anni per ricordarsi che si vive in un paese gerontocratico, che ti considera ancora un pischello e al più ti liquida, se fai baccano, come un mero “rottamatore”, mentre tutti i tuoi coetanei più furbi si sono messi in coda, con la borsa del barone in mano (attendendo che crepi, peraltro, mentre gli si sorride)…