Il paradiso dei poeti
Di questi tempi sento la pressione di tanti “amici”, colleghi, studenti e conoscenti vari, così impegnati a gufare ogni volta che le imprese calcistiche della Juve suggeriscono nei discorsi la parola triplete: una parola che viene appositamente ricordata per aumentare la pressione, per diventare un’ossessione. Non sanno che, da parte mia, ho già esorcizzato il tema…
Di come potrebbe essere il paradiso dei poeti, stando all’idillio dell’ultimo giorno di convegno; e dell’incredibile scoperta che farà Max
Se qualcuno, in quella domenica mattina splendidamente luminosa dopo il temporale della notte, avesse osservato bene, da posizione defilata, la compagnia di uomini distinti che passeggiava per le vie di Buccione per ammirare le bellezze storiche e paesaggistiche del luogo, e intanto discuteva amabilmente su questioni che non si limitavano affatto a sondare i segreti di quell’angolo di mondo, ma esploravano le architetture stesse dell’universo o si interrogavano sui fondamenti dell’animo umano, a giudicare dall’intimità che taluni andavano trepidamente istituendo (Emilio Buarotti e Mariella Sucapane) o si sforzavano formalmente di gestire affidandosi a gesti e a parole abitudinarie (Max e Laura); e se quello stesso testimone defilato avesse saputo che quelle persone erano un campione verosimile dell’intera poesia italiana, avrebbe pensato forse che non poi tanto dissimile sarebbe dovuto apparire, agli occhi dell’ultimo arrivato, il paradiso dei poeti: un luogo in cui anche lo scrittore più scadente, anche l’anonimo rimasto inedito, avrebbe goduto del privilegio di condividere con i propri maestri i medesimi lussi della gloria tanto agognata.
Del resto, ci sarebbero stati tutti, i poeti, in quel paradiso. A partire naturalmente dai sommi Omero e Virgilio, che da qualche secolo, li vedete?, vanno controllando la lista degli eroi dispersi dopo la distruzione di Troia: qualcuno manca sempre all’appello, anche se a ogni nome nuovo c’è Pessoa che alza sempre la mano, da quando la memoria comincia a tradirlo e non ricorda più tutti i suoi eteronimi. C’è anche Dante, poco lontano, che commenta la lettura dei versi di Emily Dickinson direttamente all’interessata: «Senti, te-tu se’ bravina, però se’ troppo timidina, non ti si fila per niente»; dietro di lui, Eliot annuisce e si volta per cercare Montale, il quale invece, con fare sornione, si è allontanato e borbotta cercando il modo per spedire all’aldiquà le nuove poesie che nel frattempo ha scritto (un intero baule!) sulle varie cianfrusaglie in cui si è imbattuto negli ultimi tempi: uno dei primi modelli di occhiali di Omero, la rivoltella di Verlaine, un dagherrotipo smarrito da Gozzano, il rampino del Marino… Leopardi è nel frattempo importunato dalle avance di Gaspara Stampa, mentre vorrebbe gustarsi in santa pace il gelato al nuovo gusto di rapanello che gli ha suggerito García Lorca. Carlo Porta, invece, tiene cattedra, bicchiere in mano, davanti a Dylan Thomas: «Nella mia lingua, il milanese, la ciocca ha quattro stadi, impara: il primo si chiama cicciarina, perché ti viene lo scilinguagnolo; il secondo si definisce traversina, perché si cammina seguendo una traiettoria obliqua; la terza è la betteghina, e vuol dire che stai già delirando; lo stadio in cui sei tu adesso si dice pondet là, perché se togli il gomito dal bancone finisci a gambe all’aria. Ma è bello anche il dialetto pavese, che fa più in fretta: cirla, virla e patarlaca.»
Il problema, per il nuovo giunto al Parnaso, sarà proprio quello di introdursi nelle varie compagnie stando attenti a non disturbare, perché di agitatori che si credono in gita scolastica non ne mancano mai: Tessa si intromette con sonore pacche sulle spalle in una tetra discussione fra Foscolo, Novalis e Macpherson gridando: «Alegher!». Boiardo, Ariosto e Tasso non riescono a seminare quei mattacchioni di Pulci e Merlin Cocai che li scimmiottano sempre alle spalle: sono simpatici, per carità, ma alla lunga… E guarda Sereni che, vanamente inseguito da un Raboni boccheggiante, sfreccia in mezzo a tutti i capannelli di poeti con in mano una sciarpa nerazzurra e bisbiglia a tutti: «Triplete! Triplete!». Non fosse stato per il suo understatement lombardo, avrebbe urlato e strombazzato. «Se anche l’Inter vince con te nell’Aldilà / non romperci i maroni per l’eternità», è stata la cortese e lapidaria richiesta di Callimaco, inascoltata per quelli che sulla terra sarebbero diversi anni, ormai. (Come saprete, in Paradiso ciascuno vive ad libitum il presente che desidera).
E sono uomini normali anche gli illustri che, ancora su questa terra, passeggiano davanti al lago, adesso attorno alla fontana di una piazzetta davvero graziosa. Ce lo ricorderebbe, se ce ne fosse bisogno, lo stesso Max, che a un certo punto, nel bel mezzo di un discorso con Zmorovič e Ponzini, doveva abbandonarli per trovare un posto dove espletare urgenti bisogni fisiologici. Vide il bar all’angolo e optò per quella soluzione. Entrando, notò che c’erano solo quattro clienti: due, un ragazzo e una ragazza, chiacchieravano amabilmente a un tavolino (al lettore non dispiacerà sapere che si trattava di Fabrizio Ferloni, il noto giornalista locale, che era appena stato abbordato da Alessia, un fior di ragazza che rappresentava la sintesi ideale delle belle donne incontrate da Fabrizio in tutta la sua vita); al bancone una signora, di spalle, piuttosto corpulenta, di cui percepì con la coda dell’occhio solo la stazza e la chioma scarmigliata; e una bambina vivace che giocava accanto a lei. Fece solo un cenno al barista per lasciargli intendere dove aveva intenzione di dirigersi; oltrepassò la donna di spalle e… «Pen! Ti ho sparato», gli gridò la bambina. Lui le fece un sorriso pensando di poter proseguire senza intoppi, ma la bambina gli si parò davanti, intimandogli: «Ho detto che ti ho sparato, ora sei morto e devi cadere!». «Senti, cara bambina», le disse abbassandosi, mentre questa continuava a sventolargli a un centimetro dal naso la pistola per dimostrare che aveva piena consapevolezza dell’accaduto, «devo far pipì, va bene se faccio finta di morire quando torno?»
Fu in quel momento che alle spalle arrivò una voce inattesa: «Max?». Si voltò, rialzandosi, e vide la donna prima seduta al bancone del bar che lo fissava: «Max, sei tu?». Era davvero grassa e assumendo una posizione eretta il sedere ingombrante e il petto eccessivamente largo e cascante le conferivano l’aria di un’enorme, altezzosa papera. Anche sul volto si potevano vedere tracce evidenti di pinguedine; i tratti, incorniciati dalla pappagorgia e dal cerchietto con cui teneva a bada i capelli stopposi, castani, tuttavia non lasciavano dubbi. Era Francesca! La sua mai dimenticata, segretamente rimpianta Francesca! Come fosse rimasta prigioniera di quel corpo, lo avrebbe capito nel corso dei successivi due minuti, dopo il poderoso abbraccio che quelle membra da massaia gli imposero, tanto che stava per farsela addosso: si era felicemente sposata, un paio di anni dopo la sua “fuga”, con un uomo al quale diede tre figli, per poi divorziare e trovarsene un altro cui regalare la splendida bambina. Sì, la bambina che lo avevo importunato era sua figlia Gaia, di cinque anni. «Hai visto com’è sveglia, eh?»
Max uscì dal bar con la sensazione di essere uscito da un sogno ridicolo. La compagnia si era allontanata, ma prima di riaggregarsi svoltò in un viottolo, raggiunse il lago, e liberò la sua vescica. Mentre vedeva il suo gettito avvicinarsi progressivamente alle scarpe, fu travolto da un’isterica, convulsa risata.
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