Massimo Bocchiola

Poeti contemporanei: Massimo Bocchiola

Nei poeti che hanno esordito negli anni Novanta si avverte, rispetto ai decenni passati, una maggiore inclinazione alla chiarezza espressiva, che non comporta necessariamente un depotenziamento stilistico, ma una focalizzazione della ricerca dal solo significante al livello del segno e del testo organicamente concepiti, come a dire nella direzione che va dalla musicalità più evidente alla musica profonda di un’opera. Contribuisce a questa tendenza l’assimilazione, relativamente recente, entro il solco novecentesco dell’apporto basilare della poesia dialettale e di altre importanti esperienze in lingua precedentemente sottovalutate (si pensi a Bertolucci). La raccolta di Bocchiola Al ballo della clinica è in questa direzione esemplare. D’altronde, Franco Brevini introducendo la prima sezione del libro (prima che i gatti, cui fanno seguito né un saio né il deserto e al ballo della clinica), quando apparve nel Terzo quaderno di Poesia contemporanea, rendeva apertamente conto del patrocinio morale di Raffaello Baldini all’opera del giovane scrittore, individuando nella discorsività e nella «luce di umile concretezza in cui si stagliano le cose» gli elementi principali di affinità con gli autori dialettali.

Al ballo della clinica assembla il lavoro di oltre un decennio e le sezioni rispondono a una scansione a blocchi cronologicamente consequenziale. Stando alla testimonianza della prefazione di Buffoni, all’origine del lavoro si pone una “decisione di scrivere in versi”, che si tramutò per Bocchiola nella necessità di una «dolente ricerca dei contenuti»: «La risoluzione presa fu di dare voce alle esperienze proprie e delle persone vicine (la Prima Guerra Mondiale del nonno o la Resistenza del padre) senza alcuna contaminazione ideologica. Che non vuol dire affatto senza partecipazione». Dunque, al libro è sottesa una progettualità connaturata a una scelta di fondo, a un riconoscimento primario dell’appartenenza a un contesto, come dire a un destino, a una natura. Tale prioritaria agnizione di sé è perfettamente resa con la poesia proemiale: «prima che i gatti abbiano finito / di divorarmi tutto, le irrorate / frattaglie coi bocconi più buoni / e gli amari, nella mia garavotta / a gote accese, faccio entrare bambini / e nani di paese, sorelle cugini / ripetuti nei cognomi, con legnosi / sigilli familiari; / qualcuno gioca, altri fanno la lotta / (o, per comodità, la lascio vuota)». Subito si delinea il contesto familiare entro cui il poeta interagisce, in cui le presenze elementari non sono quelle umane, ma gli animali domestici. Nondimeno, il timbro disincantato cela un risvolto tragico, implicato ma taciuto nell’immediatezza delle immagini: il poeta scrive come per sottrarsi alla morte e alla solitudine che pure lo lega al suo ambiente: «prima che i gatti abbiano finito / di divorarmi…». L’arte di Bocchiola è tutta in questa dissimulazione, in una naturalezza che è anche disciplina acquisita, ritorno alle cose semplici della vita dopo esserne uscito: ars celare artem (e qui rinviamo ancora alle parole di Buffoni che traccia un breve sommario dell’intellettuale Bocchiola, fine traduttore, ma anche al pericolo di cedere a uno «squisito manierismo» avvertito già da Brevini). Persino l’uso delle minuscole coopera a dar credito all’apparente semplicità di una voce poetica raffinata, come si intravede nei richiami fonici (assonanze e rime interne, oppure, come nella seconda poesia, fra versi lontani, addirittura il primo e l’ultimo: orto : porto) o nelle stesse strutture quasi regolari di talune poesie (in particolare il sonetto, ma più genericamente strofe variamente combinate).

Tra squarci idillici talvolta un po’ naïf, ma di una spontaneità raggiunta e non data in partenza, Bocchiola inscena un’epica del quotidiano che filtra nella voce poetante le vicende di più generazioni e di una terra («se ci avessi incontrato da ragazzi / stefano e me, roberto, le risate; / sergio che aveva la voce sottile / parlava poco […] / e dietro a noi, uomini ancora forti / di settant’anni»), raccontando storie e dicerie di paese («se un magazzino brucia, può essere, / lo hanno acceso i proprietari, è nato / un bambino più brutto degli altri, / e padre e madre sono due bei cristiani»), raccogliendo memorie di personaggi, con la lunga litania in tutto il libro dei loro nomi. Come in un’epopea popolare, ma in tono minore e senza celebrazioni, non mancano riferimenti storici alle guerre, all’emigrazione e a tutti gli eventi che nel corso del Novecento hanno determinato la scomparsa della civiltà contadina. L’inclinazione memorialista assume tratti di laica devozione, in tono consolatorio si sarebbe tentati di dire, davanti a una vecchia foto («ci siamo ancora tutti da sinistra / a destra, lui è quello col pallone, / sulle magliette il marchio stinto della / torrefazione») o al ricordo di un vecchio mito sportivo, la juve del ’67: «era una squadra di pane di mais, / di vittorie inattese: bercellino, / càstano, salvadore, il gladiatore, / il libero all’antica». Lo scenario di fondo, che talvolta indulge in certo colorismo, trova continuità in una natura percepita nel variare delle stagioni, raccontata quasi con la volontà di salvare, registrandone i nomi, un vasto repertorio di animali («la vipera, il milordo, il tassocane»), di oggetti e di occasioni. Non manca tuttavia un ricco campionario di parole straniere, accolto però con un residuo di sospetto e di ironia, quasi a non perdere quella patina di provincialità cercata dall’autore (come nella poesia londra: «il nostro inglese cauto e malinconico / prima di spegnersi bruciò come un ramarro»). Sebbene, da Pascoli in giù, non manchino esempi di un simile collage, che non poteva non rendere omaggio anche al dialetto e alla poesia dialogata (le parole degli altri), l’autore riesce a trovare un amalgama che resiste alla caricatura, lasciando spazio alla creazione di un mito personale: «ti accompagno a conoscere le strade / del paese dai suoni insipidi via roma via marconi / o troppo nostri, di dottori e preti». Lungi da tonalità crepuscolari, la scioltezza di questi versi si avvicina maggiormente alla lezione del Montale diaristico; l’apparente «freschezza naturalistica» delle poesie è data dall’understatement dell’autore, mosso in verità da un’attenzione metafisica, calata all’interno di un contesto in cui si annida la stessa intima divaricazione che guida altri autori a privilegiare tematiche o accenti più altisonanti.

Eppure, paradossalmente, il problema di questa poesia è di risultare troppo pacificata con sé stessa e con le proprie ragioni, se anche le sprezzature sono strategicamente calcolate, quasi si cercasse, attraverso i filtri di una tecnica fine, di sgualcire i tessuti delle strutture formali e scolorire le immagini, fino a ottenere un effetto di malinconico “bianco e nero” che deriva più da un cosciente confronto con la Postmodernità che da urgenze biografiche: «forse perché simmetrica ai nostri / costumi di collina – i lunghi giorni / in stivali e maglione a collo alto – / l’ora verrà di guardare negli occhi / la città di seattle con lo stuolo / di miti accesi e vivi come al cinema. // di fissare lo sguardo nei programmi / del software, negli aerei; nei nomignoli / da mascotte degli omicidi seriali / (i-five killer, ted bundy, il seduttore), / nelle rockstar suicide; e le megattere / che nella pioggia danzano d’amore, // e il traghetto, le nebbie… la città / che si allontana, lasciandoci dentro / una ferita, un pianto per i sogni / di questo angolo finale d’america / come del nostro fragile passato» (la città di seattle).

In effetti Le radici nell’aria, la raccolta successiva, ci offre testi che ormai si acquietano nella prosa, malgrado la postura che suggerisce strofe e strutture canoniche (una sezione è Sonetti dell’orologio) e che privilegia sempre l’endecasillabo quale misura interna (non senza anomalie, tuttavia, come fin dal primo verso del libro: «In un crepuscolo all’inizio d’estate»). Basterebbe ricorrere a verifica e leggere tralasciando l’“a capo” per smascherare molti testi. Un solo esempio, le prime due strofe di Bobby Charlton: «Bobby Charlton non aveva sempre “avuto / due piedi”: da mancino naturale, / applicandosi, seppe costruirsi / un destro quasi altrettanto potente / e preciso: succede raramente. // Bobby Charlton da giovane promessa / era sopravvissuto a un incidente / aereo in cui scomparvero compagni / di splendido avvenire. La tragedia / fece piangere tutta l’Inghilterra / e ritardò l’ascesa dell’United / di dieci anni, alla fine dei quali / fu lui ad alzare la Coppacampioni». Non bastano le rime facili in ente per riscattare il dettato.

Le strategie privilegiate per l’innesco della scrittura si confermano essenzialmente due (entrambe poste sotto l’egida di Mnemosine): la suggestione linguistica e la fissazione di un oggetto o un particolare che avvia il ricordo. Per quanto riguarda la prima categoria, non c’è quasi testo che non contenga un clic verbale, che dà adito a una serie molteplice di effetti. Un regesto appena imbastito potrebbe annotare inserzioni da lingue straniere e in particolar modo dall’inglese («ravine, morena, scolatoio»; «lui, beyond his years in tutto»), dal dialetto («al fiato dei diserbi: siur-siurétt»), dal latino («o nella terra australe numquam cognita»), da linguaggi codificati come in particolare lo stile da operetta («ove son?… quei doppier… l’aurora imbianca…») che si associa ai primi incantamenti linguistici infantili, e ancora calchi manieristici («Di retro al sol, / nel mondo sanza gente»), immissioni dal parlato («rash cutaneo, / illusione del gol») talvolta con predilezione per il gergo o particolari stravaganze («tifava al maschile / el Linter»), trascrizioni di scritte («I problemi esistenziali si risolvono / o chiavando, o andando in fonderia. / Soprattutto andando in fonderia») e altri vari innesti che generano effetti secondari come traduzioni («merci doux crepuscule, / mercé dolce crepuscolo») o adattamenti («portegna», dall’argentino) o passaggi didascalici: «sul nero della lanca / (acqua densa di foglie)». Naturalmente, queste strategie possono intrecciarsi in sequenze particolarmente dense: «le aveva / praticato tracheotomia d’urgenza, / dai manuali detta intercricoidea, / e che i rianimatori in gergo chiamano / minitrac (miniponi, patatrac, / una parola piena di giocattoli)». L’importanza del clic verbale è del resto esplicitata dalla presenza di un’intera sezione, Alcune parole, che eleva a titolo il movente linguistico.

Se le parole sono trattate alla stregua di oggetti, sono poi molto spesso gli oggetti veri e propri oppure determinati particolari a far scattare il ricordo e a tratteggiare la scena di quella Spectreville in cui è inevitabile tornare, per rileggere alla luce del distacco le fascinazioni dell’infanzia o il trapasso delle generazioni, che formano il tessuto umano del paesaggio d’elezione, il Basso Pavese, con la sua trama di memorie personali e collettive e i suoi personaggi tipici, pronto ad aprirsi ancora all’epopea dei migranti (nella sezione che chiude il libro, Il mondo capovolto). Qualche accento elegiaco diventa perciò inevitabile: «Ma la campagna era ancora bellissima, / tutta fiori e libellule». Soltanto la galleria di Battaglie che compone un capitolo a sé del volume prevede altre strategie, in particolare lo straniamento che deriva dall’allucinata contemplazione di questa serie allegorica: l’effetto è di immettere nell’apparente bozzettismo di questo autore una cupa, quasi impercettibile nota di sconforto.

(da Poeti nel limbo)

 

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