Poeti contemporanei: Mario Baudino
Il sentimento che prevale, compiuta la lettura di Colloqui con un vecchio nemico, è quello del tradimento. Dopo il testo introduttivo dal titolo Lettera, così sapientemente orchestrato nel verso libero, capace a ogni a capo di creare sensi e attese che si smentiscono o arricchiscono a ogni passaggio, in virtù non solo dell’accrescimento delle informazioni che ci vengono offerte, ma anche di enjambements che prolungano il pathos del colloquio («inutilmente / desueta», «schegge di vera / felicità»), ci si aspetterebbe una serie di componimenti su quella stessa lunghezza d’onda, impostata su una “leggera gravità” nel tono confidenziale e teso, raccolto all’ombra di uno sguardo indefinito ma incombente (realmente attivo nella formazione del discorso) cui ci si rivolge (il vecchio nemico che dà nome alla raccolta, emblema insieme dell’altro più distante e sublime, della morte, e degli affetti più prossimi e sfuggenti), e invece ci si immerge in un’irritante sequenza di ironie e di giochi formali che tradiscono, appunto, quel patto di sincerità che, dentro la finzione del rapporto letterario, si stabiliva con il testo d’esordio.
Lo scivolamento di registro è rapido: dopo poche pagine, superati due testi che già denotano la tendenza a concedere troppo alle lusinghe della rima e introducono figurazioni mentali sempre più avvertite come gratuite (l’aquila con cui avviene il dialogo, nuovo emblema di un teatrino del mito privo di vera potenza e autonomia), anche il tempo della lettura cambia: dal lento ed emozionante incedere, di verso in verso, della Lettera iniziale, allo «scialo in rima lieve» (Magrelli) di quello stesso capitale emotivo. Basti la prima boutade con cui si apre la sezione Aquile: «I bilanci si fanno col tempo / non in giorni né in settimane / in fondo è già una bella soddisfazione / non aver figlie tossiche o puttane», e risparmieremo con questo la tediosa casistica con minime variazioni che segue per molte pagine, come di un Montale non solo saturo, ma incontinente nei confronti del divertissement offerto dalla rima e a tratti furbescamente ammiccante al calligrafismo magrelliano. Fra battute e arguzie, spesso poggiate su una mordace vena critica nei confronti della società (ma da uno scrittore si attenderebbero anche in questo campo meno luoghi comuni), l’intellettuale risentito prende il sopravvento sul poeta esposto alla verità di un colloquio che non accetta parodie, per procedere.
È come se i due estremi formali entro cui si muoveva la poesia di Baudino già nella raccolta precedente, Grazie, si fossero definitivamente dissociati calamitando attorno a sé differenti registri espressivi: i componimenti in verso libero, tendenzialmente ampi, vicini alla prosa per il fatto di svolgersi talvolta per accumuli, assimilabili a volte a una testimonianza dal timbro esistenzialista ma pronti ad accensioni visionarie efficaci e protratte con maestria attraverso parallelismi costruttivi fino allo scioglimento conclusivo, divengono la modalità propria di un pronunciamento serio, privo di mascheramenti ironici; la maggior concentrazione formale che dà vita a strofe e a concatenazioni rimiche si presta invece ad accogliere gli umori più capricciosi, come se il pedale ironico fosse l’unico contrappeso cui affidarsi nella ripresa di «forme desuete» (per usare i termini preannunciati in limine al libro più recente). Quella raccolta aveva però il pregio, pur non riuscendo a portare a sintesi queste spinte contrarie, di mantenere un equilibrio delicato e suggestivo: Grazie si apriva con componimenti dal respiro quasi poematico, che su uno scenario da terra desolata lasciava pulsare i riferimenti personali, forse senza nulla aggiungere alla condizione postmoderna («Questo silenzio è ora pieno d’oggetti / citazioni, reperti, tutti i registri dell’avventura», si dice in un passo, ma si consideri la sezione conclusiva con traduzioni da Ezra Pound), eppure senza cercare in modo affettato nuove soluzioni formali o situazioni originali, accettando insomma il ruolo che la tradizione imponeva. Le increspature che derivavano dalle controspinte dell’altra possibilità (quella di “fare il verso a sé stesso”), si limitavano a piccole deviazioni, a finte di cadute, a citazioni da una personalissima e postmoderna mitologia («Batman», «Come madame Bovary», «mi sembri il generale Garibaldi», «L’angelo», «Caronte», «Achille») che appunto pesavano come detriti raccolti da un timbro poetico complessivamente credibile, drammatico, anche quando si concedeva qualche virtuosismo fonico (sunrise : Hi-fi, Alessandria : mandria) o parodico («Mio generale, l’italia s’è desta»).
Ora però, in Colloqui con un vecchio nemico, il passaggio da un registro all’altro è troppo marcato e si tramuta in vera e propria caduta stilistica, cui vanamente si cerca di porre rimedio, alla fine del volume, con testi ben più sostenuti sia per la potenza immaginifica sia per il respiro che li attraversa (e si presume che si tratti, in effetti, di componimenti fra i meno recenti). Si allude in particolare a Brindisi, «che celebrando l’arrivo di un temporale sembra al contempo descrivere l’avvento e l’imminenza della parola poetica» (Magrelli), ma siamo ormai in chiusura per dare ancora credito alla promessa di un simile avvento, tanto più che esso viene suggellato da un altisonante dittico finale, ampio, dal titolo Venere, sette, che fra ripetizioni formulari, riferimenti mitologici, rituali parallelismi, piuttosto che redimere la musichetta delle pagine precedenti con un’orchestrazione finalmente grandiosa, saluta il volume con la delusa sensazione di una fastosa e farsesca deriva mitica.
(da Poeti nel limbo)
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