Magnificat di Iacuzzi (di Daniele Piccini)
Di Paolo Fabrizio Iacuzzi avevamo già offerto un profilo complessivo qui.
MAGNIFICAT DI PAOLO FABRIZIO IACUZZI
di Daniele Piccini
La raccolta poetica d’esordio di Paolo Fabrizio Iacuzzi (nato nel 1961) mostra la complessa ricezione di tutta una tradizione fiorentina recente, che ha fra i suoi punti cardinali Piero Bigongiari (della cui opera Iacuzzi si è ampiamente occupato come critico, curando vari volumi del poeta, fra cui la raccolta Tutte le poesie [1933-1963], Firenze, Le Lettere, 1994), Alessandro Ceni, Roberto Carifi. Del pistoiese Carifi (ma gravitante nell’orbita culturale fiorentina), Iacuzzi tiene presente alcuni àmbiti tematici, come l’insistenza sulle categorie della paternità e della filialità, intese a più livelli, con risentito spessore filosofico, come condizioni archetipiche e fondamentali, non senza riferimenti alle Persone della Trinità cristiana (si veda appunto Il figlio di Carifi, Milano, Jaca Book, 1995).
Questo tema della figliolanza, che oscilla fra verità esistenziale e riferimento sacrale al mistero dell’incarnazione, si ritrova per altro anche nei più recenti testi dell’altro fiorentino Ceni, che, forse proprio sotto l’influenza della bloccata e tragica speculazione carifiana, mostra a tratti di orientarsi verso una riflessione di ordine più propriamente filosofico e allegorico. In comune con Carifi, Iacuzzi ha pure l’ossessione tematica della guerra, anche in questo caso ancorata originariamente a dati storici (la Seconda Guerra Mondiale così come la fresca tragedia della ex Iugoslavia), ma sempre pronta a scivolare sul piano emblematico, come cifra di una rovina e di una tabe originaria in Carifi, di un inevitabile e necessario scatenamento di forze, oltre che di una sostanza dolorosa dell’esistenza, in Iacuzzi. Di Ceni è presente la tensione aspra e fondamentalmente tragica della visionarietà, del discorso per immagini. A Bigongiari riporta la concezione del linguaggio come dimensione materiale, corporale, chiaramente attiva in Iacuzzi, come dimostrano le affermazioni teoriche della nota finale dell’autore, Guerra lampo con desiderio di chiusura, e la sua concreta pratica della lingua poetica, spesso fecondata da meccanismi suggeritivi, instaurativi del senso promananti dalla sostanza fonica delle parole (appena a mo’ d’esempio si vedano bisticci come «su rovi di croci e incrocia», p. 17, «il muratore che ha cazzuola / e panna. Penna d’inferno», p. 21, «[…] rappa tutta / la carne. Cane Natale», p. 25, «[…] Leccale ora. / Lecca lacca tutta me stessa»). Bigongiariana (se si pensa a libri come Col dito in terra e Nel delta del poema) è la stessa organizzazione del libro, che presenta un materiale ordinato cronologicamente a ritroso, risalendo dal Posfatto del 1995 (la sezione d’apertura Magnificat) all’indietro fino alle origini dell’esperienza poetica di Iacuzzi (l’Antefatto del 1980, costituito dalla sezione di frammenti Sugli occhi perenni dei pazzi) e con in chiusa una avvertenza ricchissima di motivi teorici implicati nell’actio poetica e insieme inevitabilmente depistante, abdicante, nell’atto stesso di tentare una mappa dell’opera, alla sua funzione di guida, lasciando intendere che la poesia costituisce un’esperienza di inabissamento, di discesa in profondità, di attraversamento di un caos, di un labirinto in fondo inestricabile per l’auctor stesso: ciò che richiama fortemente la struttura e quasi i motivi topici delle più recenti ed “aperte” opere di Bigongiari. Del resto non manca una più generale profondità di riferimenti e suggestioni culturali in questa scrittura, che guarda anche a opere figurative e si avvale di una memoria poetica ben stratificata, se può riemergere all’improvviso in un contesto totalmente modificato («[…] Godi che questa notte / erotica si accenda», p. 28) un ricordo dall’Adelchi manzoniano («Godi che re non sei; godi che chiusa / all’oprar t’è ogni via […]»).
Iacuzzi ha tuttavia una sua originalità, una sua vena e vocazione espressiva ben riconoscibile, consistente in una surriscaldata energia linguistica, che attraversa il mondo, le cose, gli oggetti fondendoli in un discorso teso, dal tono intensamente appassionnato. Questa generosa forza comunicativa, calata nella verità e nella bruciante immediatezza della contemporaneità, è evidente soprattutto nella sezione iniziale, Magnificat, che è tutto sommato quella più promettente ed originale: vi domina un azzardato metabolismo di materiali oggettuali e linguistici diversi (riferimenti all’erotismo e alla fecondazione, alla furia della guerra, oggetti quotidiani come elettrodomestici e strumenti tecnologici), ma tutti espressionisticamente assunti in un impasto di intensità e violenza espressiva radicale, che sembra voler partecipare di una vibrazione tellurica e insieme oscuramente vitale dell’esistente. Tale àmbito espressivo trova corrispondenza in una scansione sintattica segmentata, ricca di punti fermi e di pause, e in ardui accostamenti e procedimenti linguistici («Il cibo che diventa cofano / di carne fattasi secca come / spettro dell’accaduto. Una lamiera / che si bomba. Bomba di queste / macerie che non amano / essere qui […]», p. 17), in una dinamica instabile e febbricitante dell’espressione. In ciò sifa strada un senso di appartenenza al “qui” e “ora”, una passione violentemente sofferta per ciò che accade, per il presente del tempo, che ci fa pensare ad una delle voci più intense, più umanamente decisive della generazione dei trentenni (per quel che può significare questa categoria), com’è quella di Davide Rondoni (autore non a caso di una partecipe recensione a Magnificat in “clanDestino”, 3/1996, p. 43), a cui riconducono anche certi squarci di più intensa e apparentemente semplice verità della poesia di Iacuzzi, come due versi di una delle quartine della sezione Madrepora azzurra del padre: «resti qui nel pomeriggio sul letto / con gli occhi incavati nella testa buia».
La seconda sezione del libro, La bicicletta bianca, è caratterizzata da uno stile meno surriscaldato, più netto, secco, dolorosamente evidente: vi si ritrovano echi del Carifi cantore della tragedia dell’infanzia. Seguono cinque sezioni tutte interamente costituite da quartine (di versi liberi e senza rime), in cui si esprime una poesia più frammentaria, che procede per epifanie, illuminazioni (vi sono ricorrenti la figura dell’Angelo e i temi del padre e del figlio, sempre sacralmente allusivi), anche qui non senza contiguità con la fermezza e la fissità dell’espressione carifiana. A queste sezioni ne segue un’altra, Bianca, incentrata su una figura di donna, che, secondo un procedimento estensivo e filosofico proprio della tradizione fiorentina sopra delineata, pur muovendo da dati esistenziali, si sposta in continuazione sul piano della “categoria” archetipica del femminile; in questa sezione si trova fra l’altro uno dei più bei testi del libro, Il tempo cancella ogni donna. Chiudono la raccolta i frammenti di Sugli occhi perenni dei pazzi, brulicante punto di partenza dell’esperienza linguistica di Iacuzzi, connotati come sono da una vis sperimentale fonicamente ribollente che nel seguito della sua ricerca viene con maggior consapevolezza ingabbiata e direzionata verso una tensione comunicativa più decantata e matura.
(da Atelier n. 5)
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