Lo sguardo che salva la parola
Da troppo tempo, in ogni occasione pubblica di confronto sulla condizione della poesia nella società contemporanea, sembra emergere sempre la solita, annosa ed essenzialmente fuorviante intenzione: riuscire ad attivare il pubblico potenziale di poesia ovvero i milioni di «replicanti» – per usare il termine caro a Raboni –, quelli che in gergo altri chiamano pseudo-poeti, letterati della domenica, sottobosco letterario, cultura di serie B ecc. Con forme apparentemente meno sprezzanti (ma forse solo un po’ più sofisticate), l’obiettivo implicito in tutte queste manifestazioni si potrebbe riformulare così: riuscire a interpretare questa proteiforme diffusione di poeti, capire di quale disagio culturale o errore del Sistema sia sintomo, quindi proporre una nuova serie di opere che pongano rimedio a tale disguido. La domanda è fondamentalmente questa: come trovare l’Opera, l’Autore, la Lingua della Poesia del Terzo Millennio, il punto di contatto fra la Massa e la Qualità?
Tuttavia, sembra che, sotto la crosta dei bellissimi interventi che si tentano ormai in ogni dove (il concetto di nuova epoca è emerso persino in chi si dichiarava a priori contro i discorsi apocalittici finiseculari e contro la categoria romantica della novità, facendosi corifeo di istanze di rinnovata classicità) si sia insinuata la sensazione che tale quesito, in ultima istanza, resti un mero passatempo teorico. L’intento con cui ci si affaccia sulla tanto deprecata emarginazione della poesia (idea sfuggente che richiederebbe parametri a misura non della cultura che commetterebbe tale sacrilegio, ma della stessa poesia che è, in sé, cultura alternativa) dai piani alti dell’establishment del nostro Paese, si rivela pregiudizievole. Parlare vagamente di pubblico in questo settore risulta fuorviante per l’inevitabile astrattezza. Perché non andare invece a smascherare il destinatario verso il quale un preciso autore si rivolge? Piuttosto che crogiuolarsi in vane elucubrazioni teoriche, ogni autore vada a incontrare personalmente, scavando al fondo del proprio pensare poeticamente, il suo interlocutore e provi a chiedersi che cosa costui si attende dalla sua parola.
Chi scrive non ha diritti, ma doveri. Ogni opera, ogni ricerca espressiva, ogni scelta fra possibili varianti, implica un interlocutore; ogni stile inventa il suo lettore, in quanto ipotesi di civiltà (uno stile essendo in nuce una interpretazione del mondo). Così si esprimeva Franco Brevini, in un intervento su «Letture»: «continua a essere elusa la domanda che occorrerebbe perentoriamente porre agli artisti, senza pudori, né soggezioni: ma per chi scrivete, dipingete, suonate, chi davvero vi leggerà, vedrà, ascolterà? Ipocrisia e filisteismo si insinuano anche nelle più radicali esperienze estetiche: l’artista si comporta “come se”, vuol credere dialogo il suo monologo, chiama libertà espressiva la dorata gabbia rituale in cui la società lo ha annoiatamente rinchiuso». Ma la domanda dovrebbe farsi più radicale.
Non ha senso che si ponga il problema della funzionalità dell’arte chi scrivendo non affronta l’incognita del proprio destinatario. Tra l’altro, non è detto che sia un male scrivere beatamente senza porsi tale quesito, resistendo entro una innocenza della scrittura che il Novecento parrebbe aver compromessa, segregata nel dialetto o soffocata in eccessiva autocoscienza, dentro poetiche troppo chiare a sé stesse (e dunque postume, giacché postuma non è la poesia, ma l’applicazione di una poetica determinata a priori). Sempre il destinatario, non l’autore chiede visibilità, quando la parola poetica è veramente tesa verso un altrove, una alterità.
Suppongo inutile specificare che l’interlocutore cui alludo non risulta tout court il destinatario occasionale di un testo, anche se l’occasione può fare l’uomo poeta. Al di là di qualsiasi contingenza, credo che ogni ricerca espressiva sia orientata da uno sguardo e, quando si sfugge al solipsismo letterario entro cui è pur possibile compiere un percorso significativo, verso uno sguardo. L’ostrabismo cara di Cesare Viviani non ha la stessa polarità interlocutoria ideale (dia-logica) dell’Opera lasciata sola, e la differenza non mi pare applicativa. La scoperta, ma anche forse solo la ricerca, dello sguardo che sostiene la parola, di colui che rende giustizia all’opera e la salva, si pone all’origine del sentire in poesia. C’è un’ombra dietro alla schiena del poeta, mentre scrive, un’ombra diversa per ognuno. Nessuno scrive da solo, per sé, ovvero nel vuoto. Il poeta scrive nel segreto, certo, ma perché là sia visto scrivere da qualcuno.
Da un altro sé stesso? Da qualcuno che non lo conosce? Dall’altro in quanto tale? Da una figura perduta (non necessariamente in senso biografico) che ha, in qualche modo, attivato quel dialogo segreto nella sua vita? Queste domande chiedono una risposta personale: umana, non intellettuale.
Nell’ansia di non perdere funzionalità entro l’attuale sistema culturale, la poesia si è rivolta sempre di più allo specialista, al critico, a sé stessa. Esiste, terribile e concreto, il rischio che un giovane scriva per i poeti che lo precedono, per poter divenire visibile almeno per loro. Ed è, a ben vedere, una dannazione sia per i veri e autistici replicanti della letteratura sia per i loro finti padri, se davvero, come ha osservato Viviani, i poeti paiono ormai artisticamente incapaci di figliazione, di dare spazio al diverso da sé, ed estinguono in sé stessi l’intera tradizione.
A chi si rivolgono tanti funambolismi linguistici contemporanei? Che prezzo umano chiedono all’autore certe opere? Chi, tra i poeti di oggi, mette davvero in gioco sé stesso offrendo un destino al suo destinatario, non rischiando soltanto il prestigio personale, il bonus per entrare in quell’antologia o pubblicare in quell’altra casa editrice?
La risposta circa l’interlocutore di un gesto di poesia rimane, dunque, terribilmente soggettiva; il poeta potrà, così, anche rifiutare questa responsabilità. Ma se, osando la ricerca delle radici che inducono a pensare e a esprimere in poesia, giungerà a una agnizione, lo stile, la concezione dell’opera (vorrei quasi dire il suo concepimento) potrebbe anche subire un rivolgimento significativo. Per il poeta del prossimo millennio il Novecento è lì a testimoniare che non c’è più, per lui, un popolo. Riconoscere ogni volta il proprio interlocutore – magari perennemente cangiante e sfuggente, purché con un’identità connotata, davvero interlocutoria – significa, fattivamente, ritrovare la realtà, la storia, la lingua: smettere di “fare letteratura”.
Se ogni pagina di poesia è ipotesi – o sofferta utopia – di civiltà, essa non potrà che dannarsi nell’incompiutezza finché non sentirà raggiunto quell’unico lettore che veramente conta, la cui attenzione assoluta salva dalle distrazioni e dagli infingimenti che una platea finirebbe per imporre, falsando la parola all’origine. Non è importante, è anzi deleterio e impossibile, pretendere di parlare a e per tutti; ma è fondamentale parlare davvero a qualcuno.
Ognuno smascheri il proprio angelo.
Bello.
Paul Celan, in una sua prosa contenuta in La verità della poesia, edito da Einaudi, scrive a pag 35:
“La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza – che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia (…).Le poesia sono anche in questo senso in cammino: esse hanno una meta. Quale? Qualcosa di accessibile, di acquisibile, forse un Tu, o una realtà, aperti al dialogo (…)”